Massimo Recalcati "Nei social la nuova radice del populismo"
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9 aprile 2025
È la faccia oscura della democratizzazione introdotta dalla rete. L’autorizzazione data a tutti di parlare di tutto non solo produce effetti di pericolosa mistificazione ma attiva dinamiche aggressivo-invidiose.
Secondo Pasolini l’ingresso della televisione nelle case degli italiani era stato una delle cause non secondarie della grande mutazione antropologica che aveva trasformato il popolo da un insieme politico di cittadini a un insieme commerciale di consumatori. Non solo la società dei consumi trovava nella televisione il suo strumento elettivo di promozione, ma lo spettatore era costretto ad assumere nei suoi confronti una posizione necessariamente passiva. Il messaggio era a senso unico e non dava luogo a nessuna possibilità di interazione.Di qui l’accusa pasoliniana relativa all’esistenza di un nuovo fascismo che imponeva i suoi comandi
senza bisogno di usufruire di un potere autoritario e repressivo, ma per la via edonistica di una
seduzione permissivista. Lo spettatore rappresentava la forma più pura del consumatore costretto a
ingoiare passivamente valanghe di messaggi e di offerte che avevano come denominatore comune
lo spegnimento della sua capacità di iniziativa critica.
La televisione diveniva così lo strumento di propaganda di un neo-totalitarismo che aveva trasferito
il potere dal sovrano agli oggetti di consumo.
Un potere che plasmava corpi e cervelli dei suoi fruitori uniformandoli conformisticamente ai
modelli valoriali imposti dal nuovo regime.
Gli psicoanalisti hanno visto nell’età dove la televisione imperava nelle nostre case una sorta di
conferma della tesi relativa al declino dell’autorità paterna e allo smarrimento più generale del
discorso educativo. La televisione aveva preso il posto di genitori sempre più distratti o assenti,
incapaci di svolgere il proprio ruolo.
L’affermazione progressiva della rete e dei social sta profondamente ridimensionando questo
quadro. E non solo perché i giovani oggi non guardano più la tv. Quello che i social hanno
modificato è innanzitutto il carattere necessariamente passivo dello spettatore. Il nuovo schermo
social è infatti strutturalmente movimentato. Tutto si consuma in maniera accelerata. Non c’è tanto
l’ipnosi televisiva — che richiede tempo — ma lo sprofondamento in una realtà parallela. Non a
caso l’uso dello smartphone e delle sue potenzialità social non è più, come accadeva per la tv,
circoscritto in un luogo, ma appare come una sorta di protesi del corpo del soggetto. Mentre infatti
la televisione condannata da Pasolini fabbricava i corpi e i cervelli offrendo loro i modelli di
identificazione imposti dalla società dei consumi, lo smartphone appare piuttosto come una parte
post-umana del corpo.
Anche la partecipazione alla vita dei social riflette questa compenetrazione. Non si tratta di
guardare un programma imposto da un palinsesto, ma di formare il proprio palinsesto personale non
solo nella scelta di ciò che voglio vedere, ma nella possibilità inedita di proporsi come assoluti
protagonisti sulla scena. La distinzione rigida imposta dalla tv tra il messaggio offerto dallo
schermo e il suo fruitore viene così sovvertita. Lo schermo non è più un confine rigido che separa,
ma è stato radicalmente traumatizzato: gli attori e i protagonisti della scena sono divenuti milioni.
Lo schermo ha perso la sua centralità verticale per disseminarsi orizzontalmente.
E lo stesso accade per la scrittura. Era ciò che sollevava la rassegnazione malinconica di Umberto
Eco quando constatava con amarezza la quantità di imbecilli che la rete avrebbe autorizzato a
scrivere. Anche in questo caso il confine tra il lettore e lo scrittore è stato frantumato: sui social
chiunque può scrivere di qualunque cosa. In questo senso, diversamente da ciò che accadeva con lo
spettatore ipnotizzato dalla tv, i social si fondano sulla valorizzazione estrema dell’interazione. Essa
non assume solo la forma della manifestazione del like o dell’avversione, ma soprattutto quella
dell’esibizione del proprio corpo e del proprio pensiero senza censure. Ma la psicoanalisi avverte
che quando i confini simbolici vengono meno c’è sempre il rischio della caduta catastrofica
nell’indifferenziazione.
È la faccia oscura della democratizzazione introdotta dai social. È questo il cuore di ogni
populismo, compreso quello mediatico. L’autorizzazione data a tutti di parlare di tutto — l’uno
uguale a uno — non solo produce effetti di pericolosa mistificazione — pensiamo ai danni di coloro
che sui social si esprimono senza titoli su malattie o su cure mediche — ma attiva potentemente
dinamiche aggressivo-invidiose. Mentre la televisione spegneva il senso critico esercitando una
funzione di controllo biopolitico, l’uso collettivo dei social sembra esasperarlo abnormemente a tal
punto da legittimare il suo palese e sconcertante sconfinamento nell’odio invidioso quando non
addirittura nell’incitazione aperta alla violenza.
È il surriscaldamento pulsionale che lo schermo dei social genera in continuazione e di cui sono
eloquenti manifestazioni la contraffazione sistematica della verità, la brutalità degli insulti, le
campagne individuali o collettive di diffamazione che possono portare i soggetti più giovani o
fragili anche a comportamenti autolesivi gravi. Non a caso per la psicoanalisi il luogo per eccellenza
dell’indifferenziazione è quello dell’incesto dove il confine simbolico della differenza
generazionale scompare e dove, soprattutto, la passione smarrisce il suo limite divenendo non più
passione per la vita ma passione per la morte. Non a caso figli e genitori tendono a comportarsi allo
stesso modo nell’uso violento dei social. Adulti che si comportano stupidamente come adolescenti e
adolescenti che manifestano la stessa stupida violenza che anima il mondo degli adulti.
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