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Maria Ignazia Angelini "Perché ha ancora senso pregare"

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«Penso che la preghiera di intercessione è tra le cose che molte persone sono inclini a considerare come insignificanti e persino assurde. Anche noi a volte apparteniamo a questa categoria, quando pensiamo che la preghiera di intercessione rimanga come sospesa nell'aria senza produrre frutto, o quando la consideriamo di seconda classe, come devozionale, da compiersi semmai nei ritagli di tempo», così scriveva Carlo Maria Martini nel dar ragione del suo ritiro a Gerusalemme, concluso il mandato episcopale a Milano.

Il mistero dell’intercessione appartiene alla struttura profonda dell’essere umano: creato in relazione. A compimento di questo mistero originario, la fede in Gesù ci rivela che la singolarità della sua esistenza di Figlio di Dio fatto uomo si fa relazione “battesimale” con noi. Egli, attraversata la morte per noi, vive a intercedere (Eb 7,25). È il suo “eterno vivente sacrificio” a cui tutti noi partecipiamo in forza del medesimo regale, profetico sacerdozio. Così, nel pellegrinaggio della fede, viviamo a intercedere.

Nel dinamismo della preghiera e nella concretezza degli atti, delle pratiche della vita la ricerca di Dio e la ricerca di amare s’incontrano.

Le molte obiezioni che salgono al cuore riguardo all’intercedere, fanno capo a una visione miope, auto referenziale e razionalistica della vita. Il sapiente e il dotto di questo mondo pongono infatti molte obiezioni. Sono le obiezioni alla preghiera in genere, come espressione dell’umano. Come può Dio essere mosso a cambiare il suo modo di pensare e correggere una decisione su altri? Dio – pensiamo noi – dona aiuto rapportandosi alla libera adesione della persona, o della realtà interessata.

Eppure, la rivelazione biblica sconcerta la sapienza dell’uomo “dotto e intelligente”, e capovolge queste domande incredule. Fin da principio Dio, amante degli umani, “tira dentro” in un dialogo rovente il suo eletto reso responsabile di benedizione sugli altri, tutti, nella preghiera d’intercessione. Da Abramo che appena dopo l’elezione, proprio in forza del gratuito legame con Dio si trovò coinvolto nel “corpo a corpo” con il Signore, nell’intercedere per scongiurare la punizione di Sodoma, a Mosè che intercedette per l'intero popolo di Israele ed anche per un solo individuo come sua sorella Miriam; da Samuele che, nonostante l'avvenuta rottura col popolo, promise di continuare ad intercedere per esso, a Davide che pregò per la vita di suo figlio, frutto di adulterio; da Amos che pregò il Signore Dio di perdonare Giacobbe perché «egli è così piccolo» a Geremia che disse al popolo di pregare per il benessere della città in cui erano stati deportati e così in molte altre situazioni.

Dio addirittura si meraviglia – ed è un’intuizione soprattutto dei profeti, che più simpatizzano con le “passioni” di Dio – e si addolora grandemente quando nessuno intercede: «Egli ha visto che non c’era nessuno, si è meravigliato perché nessuno intercedeva. Ma lo ha soccorso il suo braccio, la sua giustizia lo ha sostenuto» (Is 59,16). «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49): l’intercessione è lingua di questo fuoco di concorporeità in cui Gesù coinvolge i suoi.

E così Dio, dalla meraviglia, passa a quello sdegno per l’ottusità del “suo” popolo, che arresta perfino l’intercessione: è l’eccesso della gelosia ferita. Infatti il legame d’intercessione è il luogo sacro dell’Alleanza. Così, Dio comanda al profeta Geremia di non intercedere per loro, perché egli non avrebbe risposto: «Tu poi, non pregare per questo popolo, non innalzare per esso suppliche e preghiere né insistere presso di me, perché non ti ascolterò» (Ger 7,16); e più avanti: «Il Signore mi disse: “Anche se Mosè e Samuele si presentassero davanti a me, non volgerei lo sguardo verso questo popolo. Allontanali da me, se ne vadano!» (Ger 15,1).

Nel Nuovo Testamento, dopo che Gesù – da Betlemme al Golgota – ha rivelato in pienezza i pensieri di Dio, il Padre, e attraverso la morte è stato stabilito nella singolare signoria sul cielo e sulla terra umano, quella dell’amore, si rivela pienamente la grazia dell’intercessione: «perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb 7,25). Nella sua ora ultima, Gesù intercede rivelando a voce alta (Gv 17) la nascosta vena di tutta la sua esistenza terrena, il legame con l’Abbà.

In realtà Gesù ha subito, fin dai lontani inizi in Galilea, coinvolto quanti nella fede seguivano i suoi passi nel suo medesimo impulso di “pro esistenza”. Vi ha aderito anzitutto sua Madre con parchissima parola («non hanno vino» Gv 2,3), realizzando così in sé la forma della Donna, cioè dell’“aiuto che sta dinanzi” (cfr Gen 2,18).

Grazie a Gesù, questa dimensione dell’umano viene in piena luce, anche e soprattutto nella sua radice nascosta: il suo stesso Soffio di risorto è in noi – in grazia del battesimo – anima del sacerdozio di ogni cristiano, della investitura profetica che lo fa uomo, donna, per altri: «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26).

Certamente l'intercessione presuppone in chi intercede un legame di pieno affidamento e disponibilità a essere coinvolto nel mistero dei pensieri di Dio sul mondo. Come Abramo, a cui Dio non volle nascondere nulla di quanto stava per fare. L'intercessore è qualcuno che sceglie di vivere secondo il progetto di Dio, che spera fermamente che esso si verifichi anche negli altri. Perciò la presenza di intercessori è anche anima di una comunità che sa consumarsi per il lavoro di riconciliazione tra individui, popoli, culture e religioni e tra l'uomo e il suo Dio.

Sia pure umana e povera, la preghiera del singolo come un piccolo rigagnolo fluisce dentro il grande fiume che è l'intercessione della Chiesa del cielo e della terra, della «moltitudine che nessuno può contare», come leggiamo nell’Apocalisse (cfr Ap 7,9). Così la mia piccola intercessione è parte di un grande oceano di preghiera in cui il mondo viene immerso e purificato.

Alla luce di questo mistero, pregare per papa Francesco in quest’ora di prova per lui, in questa Pasqua, e per tutta la Chiesa, ha profondo senso. Come in principio colui che ha il ministero supremo di cura del popolo di Dio è affidato alla cura della Chiesa stessa: «dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui» (Atti 12,5).

La sua autorità suprema, autorità di cura, di radunare i figli di Dio dispersi, si attua massimamente nell’ora della debolezza e il suo magistero trova eloquente cattedra nel suo silenzio. Dunque l’intercedere è in quest’ora l’espressione massima del legame ecclesiale.

Non pura opera devota, non espressione di un’affezione più o meno coinvolta, commossa e intenerita dalla situazione di debolezza. Neppure è scongiuro impaurito dalla prospettiva di un pericolo mortale per papa Francesco, e per la Chiesa. È semplice atto di fede e di amore, gesto per eccellenza della Speranza giubilare. Che raccoglie in unità i molti, e travalica emozioni, affezioni, pronostici.

Maria Ignazia Angelini

Maria Ignazia Angelini nasce a Pesaro nel 1944 e decide di consacrarsi alla vita religiosa a soli diciannove anni, entrando nel monastero delle benedettine di Viboldone. Dopo aver studiato alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale sotto la guida del teologo Giovanni Moioli, entra lei stessa nel corpo docenti, insegnando per diversi anni Storia della spiritualità monastica. Nel 1980 diventa maestra delle novizie al monastero benedettino, un incarico che coprirà fino al 1996 quando venne eletta badessa della Comunità di Viboldone. Il 22 febbraio 2019 (dopo ventitré anni e per raggiunti limiti di età) Ignazia Angelini ha lasciato la guida della comunità, consegnando le dimissioni alla nuova badessa.




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