Enzo Bianchi “La debolezza è la virtù del buon cristiano ed è la prova più faticosa del mestiere di vivere”
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La Stampa 4 ottobre 2024
per gentile concessione dell'autore
Come scriveva Gilbert K. Chesterton, il paradosso attraversa il tessuto della fede cristiana. E così la
debolezza, l'asthenía che nasce dalla malattia, dall'handicap, dall'umiliazione, dall'imperfezione,
dalla sofferenza imposta dalla vita, nel cristianesimo se è vissuta come un cammino pasquale può
diventare addirittura un luogo in cui si fa sentire la forza di Dio.
Questo viene proclamato da Gesù
nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti
con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati, agli
occhi del mondo degli imperfetti e dei deboli. L'Apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi
compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha
detto: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza". Mi
vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di
Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni,
nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte». In questo
testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al lettore: la potenza di Dio si
esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua tenda – la Shekinah, cioè la
presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell'uomo, l'incompletezza, l'imperfezione.
Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla
prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione:
la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè
continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua
pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può
sembrare follia, e i cristiani abituati a tali parole sono disposti a ripeterle ma non a viverle:
quest'ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell'antropologia cristiana.
Il domenicano francese Sylvain Detoc ha avuto l'intuizione e la capacità di scrivere quello che si
potrebbe serenamente definire un elogio dell'imperfezione. In La gloria dei buoni a nulla. Guida
spirituale per accogliere l'imperfezione, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, Detoc con
senso dell'humour e al contempo raffinato senso teologico (è docente all'Institut Catholique e allo
Studium domenicano di Tolosa) e con levità mai mediocre coglie una verità biblica che ha al tempo
stesso un valore antropologico e teologico. Per la sua opera nel mondo Dio sceglie generalmente
uomini che non brillano per ingegno e cultura, che non sono intellettuali raffinati, dotti e sapienti,
ma persone poco dotate, di umili condizioni come pastori o pescatori, che sanno di essere
inadeguati alla missione che Dio gli affida, perché deboli, incapaci a parlare in pubblico e poco
coraggiosi, degli incapaci, appunto dei "buoni a nulla". Il Dio biblico non consegna il suo
messaggio a dei campioni dell'evangelizzazione ma a gente "poco dotata", al punto che scegliere
persone inadeguate fa parte della sua politica di reclutamento. O è un bizzarro responsabile delle
risorse umane oppure un geniale scopritore di talenti.
Detoc ha buon gioco nel farne l'elenco: «Dio vuole generare un popolo a lui consacrato? Recluta
Abramo, un novantenne che fa copia con una sterile, Sara. Dio vuole strappare il suo popolo dalla
servitù del faraone e condurlo nella Terra promessa? Assume un leader balbuziente e con poco
talento per la politica: Mosè. Dio vuole che la sua parola risuoni presso i sacerdoti nei santuari
d'Israele? Assume Amos, un rozzo pastore di bestiame». La lista continua anche con gli uomini e le
donne scelte da Gesù: «Pietro? Un codardo e un rinnegato. Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo?
Due ambiziosi. Matteo? Un collaborazionista. Paolo? Un fanatico. Maria di Magdala? Una
cortigiana, per giunta posseduta». Tuttavia, la goffaggine e l'atteggiamento problematico, spesso incapace, magari solo all'inizio, dei collaboratori che si è scelto, non ha scoraggiato Dio,
«esitazioni, cadute e ricadute, peregrinazioni, persino passi indietro: niente di tutto questo ha indotto
il Creatore a desistere dal suo benevolo disegno».
Lo humour di Sylvain Detoc cela una verità profonda della condizione umana, di quei "buoni a
nulla" che ogni figlio di Adamo, il fatto di terra, il terroso è. Quando osserviamo la vita nel suo
svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la
potenza, la forza, l'arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella
debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza e
l'imperfezione, che si presentano a noi sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in esse
un'occasione di spogliazione? Non solo individualmente, ma come comunità umana, come società,
e anche come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della discreta caritas,
dell'amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler "dare
testimonianza" a noi stessi?
C'è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella
dell'umiliazione che nasce dall'inadeguatezza, dall'incapacità, dal limite, a volte dal vizio o peccato
ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati
davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa. «Bene per
me essere stato nella debolezza», prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa
essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di imperfezione, di impotenza tra le
potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Costatarsi come chiesa "buona a
nulla". Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell'ultima parte del suo ministero, dopo i
successi e la favorevole accoglienza iniziale?
San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia,
sperimentò pure un'ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa
ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo
monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva capito prima;
comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e
conobbe veramente cos'è la grazia, la misericordia di Dio. E così giunse ad esclamare: «Optanda
infirmitas! (O desiderabile debolezza!)» (come nei Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Sì, è
possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza e
l'imperfezione appaiono sempre anche come prova, come faticosa prova.