Luca Diotallevi “La fine del cristianesimo, religione degli italiani”
Avvenire pubblica alcuni passaggi della prolusione per l'inaugurazione dell’anno accademico della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna tenuta nei giorni scorsi da Luca Diotallevi, professore di Sociologia all’Università Roma Tre, su «La fine del cristianesimo, religione degli italiani».
In questo tempo non una piccola porzione di cristiani, ma una larga maggioranza è consapevole che «il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7, 29).
Quasi non c’è chi non tocchi con mano che la scena di questo mondo sta passando (cfr. 1 Cor 7, 30). Quello che sembrava un solido fondamento del nostro vivere altro non era che un fragile e temporaneo fondale e che esso è ormai in corso di avanzato smantellamento. In questo sfondarsi della mondanità e della sua religione – come insegnò Ratzinger – e in questo essere tutti senza eccezione destati a responsabilità fummo soccorsi da tanti profeti. Paolo VI, ai padri del Vaticano II, i grandissimi che prepararono quel Concilio, seppero insegnarci a riconoscere in questa crisi un kairos della fede e della Chiesa, un tempo opportuno per la fede e la Chiesa. Oggi possiamo vederlo ancora più chiaramente questo kairos della fede, a condizione di saper affrontare con onestà la domanda con cui il Gesù del IV Vangelo mise con le spalle al muro i discepoli inviatigli dal Battista, forse ancora un po’ appannati da un entusiasmo che ancora non sapevano essere nel loro interesse dismettere. «Cosa cercate?» gli chiese Gesù poco prima delle quattro di quel pomeriggio (cfr. Gv 1, 39).
E noi che ci lagniamo di questo presente cosa cerchiamo? Come scriveva Jean-Luc Nancy, questo è tempo di déclosion du christianisme. Tempo dell’incepparsi di ogni automatismo, tempo di frantumazione di una forma storica di coscienza cristiana – come insegnò von Balthasar – adeguata a un tempo passato e dunque passata essa stessa, tempo in cui i credenti sono ancora presi da false forme di integrazione, scriveva Karl Rahner. È un tempo, questo, in cui finalmente la mondanità si rivela sacro inganno, alternativa al santo (Levinas). «La coscienza può volgersi al bene solo nella libertà» ( Gaudium et spes 17) e questo presente è un tempo che ci condanna tutti a essere anche di fatto un po’ più liberi, tutti e tutte, uno per uno, una per una, senza alibi di populismo. Se pensiamo che sia la Provvidenza a guidare la storia non siamo autorizzati a escludere la possibilità che da questa crisi possa scaturire un bene. Così scriveva Paolo VI già nel 1964 nella Ecclesiam suam (enciclica dimenticata al punto che il sito del Vaticano la riporta con una numerazione sbagliata): «La vita cristiana (...) esigerà sempre fedeltà, impegno, mortificazione e sacrificio; sarà sempre segnata dalla via stretta, di cui nostro Signore ci parla; [e, si badi] domanderà a noi cristiani moderni non minori, anzi, forse maggiori energie morali che non ai cristiani di ieri, una prontezza all’obbedienza, oggi non meno che in passato doverosa e forse più difficile, certo più meritoria perché guidata più da motivi soprannaturali che naturali» (n.28).
Ciascuno e ciascuna, dunque, decida se ritiene di affrontare questo presente come un kairos per la fede e la Chiesa oppure no, decida se in questo tempo riconosce il tesoro di una Grazia speciale oppure no. Per Paolo VI, e non solo per lui, questo tempo è kairos di una Grazia capace di dare vertigini, tremenda vivificante come del resto la Grazia non può che essere. Con questa crisi e in questa crisi, con questo finire e in questo finire, il Signore ci sta portando in un altro posto anche se noi – ma non è la prima volta né la cosa dovrebbe sorprenderci – non sappiano né come lo farà né per quali vie, né con quali tempi. Sappiamo solo – e giustamente questa consapevolezza ci fa tremare – che Lui continua a lasciarci la libertà di dirgli “no”. Un “no” che non impedisce certo la Sua Azione, ma che può porci fuori dalla Sua Avventura attraverso il secolo. Anche oggi, infatti, resta vero che il punto decisivo è sempre quello: prestare a Dio che si rivela, in parole e in opere, l’ossequio dell’intelletto e della volontà ( Dei Verbum, 5), oppure non prestarglielo, rifiutargli il nostro “sì”. Resta che si tratta di ascoltare “ oggi” la Sua voce ( Sal 94, 8a), ma proprio oggi, perché – come insegnò Agostino – il Signore potrebbe chiederci oggi qualcosa che ieri ci vietava, perché, come comprese von Balthasar, la verità cristiana è come manna, oggi è fresca, domani puzza (1966: 46), perché la verità cristiana differisce da quella atea perché ha dentro di sé il tempo (1966: 91).
Sicché l’invito a convertirsi risuona sempre nuovo, e forse oggi più fragorosamente nuovo di altre volte nel passato. Del resto, anche per i più assonnati o per i più impauriti, non siamo forse alle soglie di un Giubileo? Esattamente, cos’è che sta finendo? Finisce l’equazione tra cristianesimo e religione, la riduzione del cristianesimo a solo-religione. Finisce l’epoca della religione di forma confessionale, architrave (anche nella forma estrema della laicità) delle State societies, delle società in forma di Stato. È non è forse questa una buona notizia per chi non abbia smarrito anche solo qualche elementare nozione del magistero sociale della Chiesa, e più ancora del Vangelo in generale? La sfida in atto è però doppia. Mentre finisce un cristianesimo solo-religione occorre vigilare sulla tentazione altrettanto mortale di trasformare la Chiesa in una holding di imprese dedite alla produzione e alla distribuzione di beni e servizi religiosi dalle poche pretese: a fare del cristianesimo e della Chiesa ancora una volta solo una religione, sebbene questa volta una low intensity religion (religione a bassa intensità).
Un aspetto della Grazia del momento, della Grazia che rifulge tra una crisi e un tentazione, è quella di poter vedere ora molto più chiaramente che il cattolicesimo non è solo religione, ma anche-religione, e che quella religione che ispira non può essere né la religione di una società né un bene di consumo alla mercé dei giustamente mutevoli gusti della domanda. Se restiamo fedeli alla luce di questo momento, noi, avvinti dal Vangelo, non potremo che essere un po’ più poveri e molto più liberi. In mille modi, nel corso dell’Ottocento e del Novecento, il movimento liturgico, il movimento biblico, la rinascita dell’apostolato dei laici operato come azione cattolica e che tante donne ha visto protagoniste, il rinnovamento teologico, il popolarismo sturziano, una parte importante del sindacalismo di matrice cattolica, ci avevano messo sull’avviso di una svolta necessaria e possibile. Newman, Rosmini, Manzoni, il Blondel della prima edizione de l’Action, De Lubac, Sturzo, Montini, De Gasperi, Murray, Bachelet, Pietro Scoppola avevano spiegato lo spiegabile. Il Vaticano II aveva insegnato. Sicché, mentre non pochi non si rassegnano, molti di noi cominciano a capire: meglio tardi che mai. O, più precisamente e più evangelicamente, comprendono l’invito di Gesù: duc in altum ( Lc 5, 4), epperò nel senso del versetto lucano e non in quello della retorica ecclesiastica di circa un ventennio fa. Infatti, per l’evangelista con quelle parole Gesù non arringava i suoi perché partissero alla conquista di chissà cosa o peggio che peggio verso una improbabile riconquista. Con quelle parole, « duc in altum », Gesù chiedeva loro se erano disposti a porre una discontinuità in ciò che – e a ragione – credevano di saper fare e di aver fatto sino ad allora piuttosto bene. Esattamente qualcosa del genere è chiesto a noi oggi. Lo stesso potrebbe essere detto altrettanto bene con le parole del profeta Osea: «Dissodate un campo nuovo, perché è tempo di cercare il Signore» (10, 12).
Ciò che sta logorandosi non è un involucro da dismettere senza fatica, bensì qualcosa di più profondo e più urgente da estirpare. Nella carne del cattolicesimo italiano sono tuttora impressi i riti e i miti, le credenze e le movenze di quell’«Italia cattolica» che, quasi senza eccezioni, l’apparato ecclesiastico vaticano e italiano degli anni ’20 e ’30 del Novecento aveva creduto di poter edificare un po’ con il concorso del fascismo, un po’ insinuandosi nelle sue pieghe e sfruttando le sue debolezze. Quell’«Italia cattolica» fu impasto contraddittorio e fuorviante, ma effettivo, magistralmente descritto da Pietro Scoppola (1971) e Renato Moro (2020). Impasto che aveva invischiato tanto clero e tanto laicato, sino a Maritain, sino alla Università Cattolica e ai suoi professorini, sino alla cosiddetta “scuola romana”. A quell’impasto furono sacrificati Sturzo e Montini, la Fuci e altre voci fedeli e libere. Dall’annegare senza riserve in quell’impasto melmoso alla fine vennero a salvarsi i cattolici cui con le leggi razziali e la diffusa immoralità fascista cominciarono a non tornare i conti. Vennero a salvarci i “ribelli per amore”, venne a salvarci il pensiero e l’opera di tanti di coloro che erano stati sacrificati alla illusione che con la violenza del fascismo ci si sarebbe salvati non solo dal “pericolo rosso”, ma anche da buona parte delle sfide (peraltro salutari) della modernità. I protagonisti della rinascita erano stati sacrificati dalla Chiesa alle esigenze del regime fascista, ma, come De Gasperi e Montini, avevano resistito (Moro 1979), erano tornati, e avevano vinto. A quell’impasto e a quella illusione della «Italia cattolica» si credette di poter tornare dopo il 1954, ma non fu così. Tuttavia le abbondanti tracce di quell’impasto e di quella illusione – tanto declinate da destra quanto da sinistra, quanto ancora dal centro – rallentarono e distorsero persino la ricezione del Vaticano II e delle riforme montiniane che lo applicavano e che videro la luce nel biennio 1967/1969 (Diotallevi 2020). Dovevamo sconfiggerla noi quella «Italia cattolica», invece è dovuta intervenire la Provvidenza a liberarcene. «Due sono i mezzi con cui una struttura storica può conservare o riacquistare la propria vitalità per il presente e per il futuro. Uno è violento e viene dall’esterno: è la distruzione della tradizione, dei monumenti (...) e, di conseguenza, la coercizione a ricominciare da capo, con un materiale grezzo. Il secondo è spirituale e viene dall’interno, è la forza del superamento. Ambedue i mezzi possono costituire una grazia: radiosa il secondo, dura il primo» (von Balthasar).
È quella «Italia cattolica» ciò che sta finendo e con essa l’illusione di una “nuova cristianità”. La fine di quella «Italia cattolica » è la forma che nel nostro Paese prende la fase in corso del processo di secolarizzazione. Intanto in questo finire lampeggia la tentazione di un cristianesimo come religione a bassa intensità. Ancora sappiamo poco della prova che il momento presente ci riserva, e questo poco, giustamente, già basta a spaventarci e disorientarci. La prova sarà dura. La prova sarà dura perché vera. Dura e vera come la lotta che Giacobbe sostenne quella notte (cfr. Gen 32, 24-32). Dura e vera come la lotta dalla quale Mosè scampò solo grazie a Zippora (cfr. Es 4, 24-26). Non dovremo stupirci se, a volte, durante questo travaglio ci sembrerà che sia il Signore stesso a lottare contro di noi, a volerci far morire. Del resto, cos’altro è capitato ai nostri fratelli ebrei ad Auschwitz? Cos’altro ha fatto tremare ed è venuto alle labbra di Gesù nel Getsemani e poi sul Calvario?
Fonte: Avvenire