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Alberto Maggi “I tre pilastri del Dio di Gesù, che non chiede ubbidienza e non giudica, ma…”

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Se nella religione del Libro il credente è tenuto a osservare e ripetere quel che è stato scritto, con Gesù l’uomo non ha un rapporto con il Libro, ma direttamente con il Padre”: su ilLibraio la riflessione del biblista Alberto Maggi, secondo cui “il Dio di Gesù non giudica: è un Padre che comunica incessantemente il suo amore a tutti…”

TRE PILASTRI

Nell’incontro-scontro con il fariseo Nicodemo, membro autorevole del Sinedrio, si assiste a un impossibile dialogo tra Gesù, che parla del nuovo, e il fariseo che, radicato nell’antico, a ogni affermazione del Cristo balbetta sconcertato “come può… come può…” (Gv 3,4.9). 

L’incomprensione tra i due è dovuta al diverso rapporto che essi hanno con Dio. Nicodemo, che in quanto fariseo è uno scrupoloso osservante di ogni minimo dettame della Legge, è il rappresentante della religione del Libro, il testo sacro, ispirato da Dio stesso, che contiene la sua volontà, ed essendo il Signore eterno anch’essa è eterna e immutabile. Il credente deve solo osservare e ripetere fedelmente quel che è stato scritto senza modificare nulla. In questo rapporto con Dio il valore massimo è l’ubbidienza mediante l’accettazione indiscussa di quanto è stato scritto una volta per sempre. 

Per Gesù non c’è un testo sacro da osservare, in quanto ciò che è veramente sacro è l’essere umano. Se nella religione del Libro il credente è tenuto a osservare e ripetere quel che è stato scritto, con Gesù l’uomo non ha un rapporto con il Libro, ma direttamente con il Padre. Quest’ultimo ai propri figli non chiede ubbidienza alla Legge ma somiglianza al suo amore mediante l’accoglienza dello Spirito che per sua stessa natura è dinamico, in continua evoluzione e cambiamento. Questi diversi orientamenti generano lo scontro tra due mondi impossibili, tra quelli che ripetono e quelli che cambiano, tra gli ubbidienti e quanti creano sempre forme nuove, originali, inedite e creative di relazione tra il Padre e i suoi figli. Per questo l’ubbidienza non appare nell’insegnamento di Gesù, che mai chiede di ubbidire né a sé, né a Dio, né tantomeno ai suoi discepoli. 

Tale presa di distanza di Gesù dall’ubbidienza si deve al fatto che questa non solo mantiene le persone in una condizione infantile, ma le rende estremamente pericolose, perché devono solo eseguire i comandi senza il coinvolgimento della propria coscienza e senza sentirsi responsabili delle conseguenze delle loro azioni. D’altro canto l’ubbidienza ha il suo fascino in quanto esenta la persona dal dover pensare e decidere perché c’è sempre un’autorità che avrà pensato e deciso per lui. Questo toglie la libertà ma offre la sicurezza che l’appartenenza a una struttura di potere garantisce. 

L’ubbidiente è un individuo estremamente rassicurante, che non creerà mai alcun problema alla struttura di potere, in quanto si limiterà a ripetere esattamente quel che gli viene comandato. La sottomissione fedele e indiscussa al potente di turno lo renderà estremamente affidabile e adatto a ogni incarico. 

Per Gesù il credente è colui che assomiglia al Padre e si lascia coinvolgere dallo stesso dinamismo divino praticando un amore simile al suo. Per questo l’insegnamento del Cristo si basa sempre su aspetti che riguardano la vita che Dio comunica agli uomini e che la religione, invece di potenziare, limita e soffoca. Gesù si preoccupa del bene dell’uomo perché questo è l’unico culto che il Padre cerca: l’estensione del suo amore a tutti gli uomini per comunicare loro la sua stessa vita divina (Gv 4,21-24). Nell’impossibile dialogo con Nicodemo Gesù assesta tre colpi micidiali con i quali demolisce i pilastri intoccabili della spiritualità farisaica. Questi erano la concezione della vita eterna come un premio concesso nel futuro per il buon comportamento tenuto nel presente, il giudizio di Dio, un Signore che giudica gli uomini secondo il loro comportamento, e, in ultimo, la verità come dottrina immutabile da osservare e tramandare. 

Riguardo alla concezione della vita eterna, per Gesù essa non è una condizione che si acquisisce nell’aldilà, ma una qualità di vita già in questa esistenza che permetterà all’individuo di non fare l’esperienza della morte. Per questo, quando parla di vita eterna egli non lo fa mai con termini rivolti al futuro, ma sempre al presente (Gv 3,15). Il secondo elemento portante della spiritualità farisaica, poi, è un Dio che giudica. Il Dio di Gesù invece non è così: è un Padre che comunica incessantemente il suo amore a tutti; sta poi all’uomo accoglierlo o meno (Gv 3,17). Il terzo pilastro, infine, è quello della verità, che per Gesù è semplicemente il contrario del male.

Non è dunque la dottrina che separa da Dio ma la condotta, e proprio per questo il Padre non offre dottrine ma pienezza di vita. Infatti dopo aver detto a Nicodemo che “Chiunque fa il male odia la luce” (Gv 3,20) Gesù non contrappone al “fare il male” il “fare il bene”, ma “fare la verità”: “Colui invece che fa la verità viene alla luce affinché siano manifestate le sue opere perché sono fatte in Dio” (Gv 3,21). Per Gesù fare la verità ha il significato evidente di fare il bene, compiere azioni che, essendo fatte in Dio, collaborano alla sua azione creatrice comunicando vita all’uomo. 

La verità per Gesù non va creduta ma fatta, praticata. Essa non è un principio, un concetto cui aderire, ma un dinamismo d’amore che coinvolge e orienta l’uomo verso il bene dell’altro; non una teoria astratta ma un’opera concreta. Il credente è colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo (Lc 6,36) e “fare la verità” significa portare Dio agli uomini nell’unico modo possibile, ossia attraverso esperienze concrete di amore incondizionato. Quanti sono nella verità, vengono coinvolti nella stessa azione divina che non si manifesta con formule dottrinali, ma attraverso vivificanti opere d’amore che fanno fiorire la vita. Mentre la dottrina separa, le opere d’amore uniscono e avvicinano a tutti. Questo cammino nella verità conduce l’uomo alla pienezza della vita, quella indistruttibile. 

La caratteristica che rende riconoscibile il credente che fa la verità è che egli non s’impone ma propone; non dirige la vita altrui ma si mette a servizio dei fratelli; non prende decisioni per gli altri ma li aiuta a maturare. Sviluppando in pienezza le proprie capacità, colui che fa la verità aiuta gli altri a crescere e a camminare con le loro gambe e a ragionare con la loro testa. Una volta sperimentato che la libertà è la condizione perché nella sua vita sia presente lo Spirito, il credente diventa estremamente pericoloso in quanto vorrà sempre capire, ragionare e soprattutto essere libero, dal momento che “il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17).



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