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Adriana Zarri "Il sacerdozio di Eva"

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Il sacerdozio di Eva 
di Adriana Zarri 
Il manifesto 
14 novembre 1992 

Quando la chiesa anglicana aprì al presbiterato delle donne ci fu una dura reazione del Vaticano. Le riflessioni allora svolte (nel 1992, oltre trent'anni fa) da Adriana Zarri, sulle donne prete indicano la grave arretratezza delle posizioni ufficiali della chiesa cattolica sul tema.

La clamorosa decisione della chiesa anglicana ha rinfocolato i mai sopiti dibattiti sul sacerdozio femminile, mettendo a nudo le debolezze argomentative di ambo le parti, con rari punti di riflessione alta e degna della gravità dell'argomento. 

Da parte vaticana, la molteplicità delle motivazioni (alcune delle quali nuovissime) a sostegno della prassi preclusiva, sembra dimostrare la loro debolezza, nel tentativo di dare dignità teologica ad una disciplina che probabilmente aveva solo supporti sociologici, antropologici, culturali (e dico "forse" perché la storia è assai avara di notizie e la Scrittura scarsa di affermazioni in merito). Quella molteplicità ci impedisce di occuparci di tutti gli argomenti chiamati in soccorso di una prassi ormai minacciata dalla storia (ma non può essere la sola storia a dirimere una "contesa" che ha, o dovrebbe avere, ben altre radici). Ne sceglieremo solo alcuni. 

Nella Mulieris dignitatem (l'enciclica dedicata alle donne), che non poteva eludere lo spinoso argomento, una delle motivazioni addotte è la specificità del carisma femminile: specificità che io sono ben lontana dal negare, essendone stata, da sempre, una sostenitrice, anche quando le femministe la negavano, in quanto la confondevano con la distribuzione dei ruoli. Ed io - d'accordo sul fatto che quella distribuzione fosse di tipo sociologico - rispondevo, e rispondo, che un tempo quella specificità (oggi si usa chiamare "differenza": un termine povero e generico) si esprimeva facendo cose diverse (la donna la gestione domestica, l'uomo la professione, la politica e via dicendo), mentre oggi la si dovrebbe esprimere facendo diversamente le stesse cose (e difatti l'esperienza mostra che a nulla vale l'esser donna se non si sappia offrire una diversa interpretazione delle cose; e gli esempi, politici e non, sono evidenti). 

La prospettiva del sacerdozio femminile farebbe proprio al caso nostro. Mentre il discorso della Mulieris dignitatem va chiaramente sulla vecchia strada dei ruoli, del fare cose diverse: all'uomo il sacerdozio e alla donna altro (poi nell'enciclica, ci si dimentica di precisare quest'"altro"), ben differenti sono le prospettive delle donne che rispondono anche ad altre critiche: quelle di chi trova pateticamente anacronistica l'aspirazione a un sacerdozio che è ormai in crisi anche per i maschi. 

UN SACERDOZIO DIFFERENTE 

Ma le donne non aspirano affatto a quel tipo di sacerdozio, a quel modo maschile di esser prete. 
Quel "modo" non le interessa e lo lasciano tutto agli uomini. Il loro accesso al ministero intende essere la proposta di una modalità, di un'interpretazione, di una gestione diversa: e questo - soltanto che lo si capisse - verrebbe in soccorso anche alla crisi che il presbiterato sta innegabilmente attraversando, proponendo un pluralismo di modelli che sarebbe anche una risposta al pluralismo delle attese: il tutto - s'intende - all'interno dell'essenziale del proprium del sacerdozio (ma qual’è questo proprium: quella "natura del sacramento" chiamata in causa dall'addetto stampa vaticano? E non si rischia di proporre come essenziali, o quasi, prassi chiarissimamente storiche come, ad esempio il celibato?). 

Un'altra delle argomentazioni Vaticane è il fatto che, nell'ultima cena (nel momento, cioè, dell'istituzione del sacerdozio) non ci sarebbero state donne. A parte il fatto che le donne probabilmente c'erano, anche se non esplicitamente nominate (si veda, ad esempio, lo studio di M. Caterina Jacobelli Sacerdozio, donna celibata Ed. Borla) ci pare argomentazione motto fragile. Se infatti la validità dell'ordinazione dipendeva dalle categorie presenti all'ultima cena non solo le donne andrebbero escluse, ma anche i gentili e i loro discendenti, anche gli europei (per non dire del nuovo mondo), gli italiani, i...polacchi: tutti coloro che non sono maschi ebrei. Si dirà che la differenza sessuale è più forte della differenza razziale. Per noi si, ma non sono certa che così fosse per gli ebrei del tempo di Gesù. Per quegli ebrei l'abisso che li separa va dai gentili era enorme: tanto che non potevano entrare in una loro casa senza contaminarsi; e il rischio di impurità legale, connesso ai rapporti con la donna, era minore. 

Sappiamo bene che la difficoltà di saltare quel muro divisorio tra i discendenti di Abramo, ligi alla legge di Mosè, e l'altra parte del mondo, fu così grave da provocare la prima crisi della chiesa nascente. Sappiamo anche però che quella crisi venne superata, in favore dell'ingresso dei gentili a pieno titolo, sacerdozio compreso. Perché quell'estensione ai gentili certamente assenti dalla cena, e l'esclusione, invece, delle donne probabilmente presenti? 

Il dilemma è senza dubbio biforcuto. Si può infatti rispondere adducendo tabù sociologici, oppure ipotizzando un'implicita scelta di Cristo. Però, a questo punto, quell'implicito andava chiaramente esplicitato, altrimenti - se quella scelta fosse connessa solo all'assenza o alla presenza alla cena - non soltanto le donne andrebbero escluse, ma quasi tutti gli abitanti del mondo, salvo gli ebrei. 
Insomma quest'argomento della cena, anche se può lasciar aperto qualche interrogativo, ci sembra che vada tolto di mezzo, come crinale di discriminazione. 

LA GENESI DEL FEMMINILE 

Vorremmo infine occuparci di un altro argomento forte (o ritenuto tale). Esso viene enunciato in termini assai stringati e ultimativi: il Cristo era maschio e il sacerdote, che opera in persona Christi, maschio deve essere anche lui, per ovvi (?) motivi di convenienza, di somiglianza, di simbologia. 

Strana questa decisiva importanza della sessualità, altrove così negletta e sospettata nella chiesa. Non ci sono altre somiglianze più significative? Ma sorvoliamo e prendiamo il problema molto a monte. 

A tutti è nota la narrazione della creazione di Eva, tratta, secondo la lettera del mito genesiaco, dalla carne di Adamo. Forse a non tutti è nota l'interpretazione che ne danno alcuni Padri della chiesa (il Nisseno, Massimo confessore ed altri). Il primo Adam (un nome collettivo che potremmo, grosso modo, tradurre con "genere umano" o qualcosa di analogo) sarebbe stato un androgino primordiale in cui la sessualità, mescolata e latente, si risveglia, emerge e si esplicita, diversificandosi, con la nascita di Eva. A quel punto (ora siamo noi a proseguire nella riflessione) il primitivo Adam si contrae, si restringe in estensione ma si arricchisce in identità, e aggiunge il nome "Is" che significa maschio, in contrapposizione a "Issa", riferita ad Eva, che significa femmina: due termini che non compaiono, prima della nascita della donna e che perciò sembrano dare ragione ai Padri e segnare il passaggio da un primo momento ermafrodito a un secondo momento sessuato. Ed è con la nascita di un'alterità e di una molteplicità che, con il sesso, inizia il divenire e la storia. E qui il discorso si presta a sviluppi di grande interesse metafisico (ricordiamo l'affermazione di Eliade "l'ontologia arcaica si esprime in termini biologici"). 

Che cos'ha a che vedere questo antichissimo mito e le sue interpretazioni con il problema del sacerdozio femminile? A mio avviso ha a che vedere molto di più di quel che sembra. Debbo però avvertire che si tratta di una pista del tutto personale; e se, fin qui, potevo valermi dell'appoggio dei Padri, da qui in avanti, sono del tutto allo scoperto. D'altra parte il cammino teologico comincia con queste scoperture, prima di riscuotere avalli. Probabilmente non ne riscuoterò nemmeno ma, per quel che vale, prospetto un'ipotesi. 

Si sa che il giardino delle origini, più che un racconto storico, è una profezia escatologica, e il primo Adamo viene ripreso e realizzato pienamente da Cristo (che, non per nulla, è detto dai Padri "secondo Adamo") e più precisamente, dal Cristo escatologico, dal Cristo risorto. Ed è pensabile che il Cristo risorto, la cui diversità dal Cristo storico e mortale è chiaramente testimoniata dai Vangeli, recuperi quella globalità dell'uomo che era, in modo confuso, nel primo Adamo e che poi conobbe l'arricchimento ma patì anche la dimidiazione della sessualità storica. 

Se il Cristo storico fu indubbiamente un maschio, sì può dubitare che il Cristo risorto permanga in quella situazione e sì può invece ipotizzare che, in lui, come afferma San Paolo parlando della situazione cristiana, non ci sia più, né maschio né femmina (e, se l'affermazione paolina ha chiaramente un valore etico, è tuttavia possibile che possa essere caricata di sensi ontologici più profondi). Nel Cristo risorto si realizzerebbe nuovamente la pienezza della creatura umana, nella sua bipolarità. 

Ora, se il sacerdote opera in persona Christi, ci si può chiedere se riprende il Cristo storico o il Cristo risorto. Se il Cristo storico ha una maggiore prossimità col maschio, il Cristo risorto, in questa ipotesi, è una realtà universale che può venir ripreso, a livello simbolico, da entrambi i sessi, con eguale rassomiglianza, anche se (e questo vale ovviamente per ogni risposta teologica) con sostanziale diversità. 

Come si vede qui entrano in gioco questioni enormi che attengono al concetto di incarnazione, di resurrezione, di realtà escatologica e via dicendo. Siamo, insomma, molto al di là sia delle resistenze vaticane che di certi rivendicazionismi femministi. 


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