Ricordo di mons. Antonio Pitta
Martedì 1 ottobre 2024, il Prof. Mons. Antonio Pitta, Presidente dell’Associazione Biblica Italiana, è deceduto dopo alcuni giorni di ricovero in ospedale per un malore comparso a un paio di giorni di distanza dal convegno dei neotestamentaristi e anticocristianisti, tenutosi a Bologna nella prima settimana di settembre.
Giorno e notte incontro biblico
Dio è amore e la via sublime dell’amore
con mons. Antonio Pitta (professore ordinario di Nuovo Testamento Pontificia Università Lateranense) conduce Ilenya Goss
Un viaggio lungo le Sacre Scritture a partire dai due testi di riferimento per rileggere le forme di amore: per il prossimo fino alla pienezza della Legge nell’amore, la sua portata laica dell’amore e l’amore di Dio e di Cristo per tutti, fino all’amore per Dio e per il prossimo.
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Il seguente testo è la relazione di Antonio Pitta, esegeta neotestamentario, al convegno “Sindone e fede” a Roma il 17 aprile 2013.
1. “Fu sepolto” e la Sindone
Qualsiasi dibattito sulla Sindone di Gesù dovrebbe essere affrontato non in modo monadico o isolato, bensì in relazione a una delle più antiche professioni di fede della Chiesa delle origini che menziona la sua sepoltura. In forma più letterale rispetto all’originale greco, così suona la professione di 1Cor 15,3-5: “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto, e che è risorto al terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa, quindi ai Dodici”.
Il frammento della più esplicita professione di fede nella Chiesa delle origini non è di San Paolo, ma come riconosce lui stesso è stato ricevuto per essere trasmesso ai cristiani di Corinto in occasione della sua prima evangelizzazione, compiuta tra il 51 e il 52 del I secolo.
La formula della trasmissione della fede per cui si trasmette ad altri quanto si è ricevuto dimostra che Paolo non ha comunicato ai Corinzi una propria convinzione sugli eventi finali della vita terrena di Gesù di Nazaret, ma quanto ha ricevuto dalla fede della Chiesa delle origini. Non specifica da chi abbia ricevuto il contenuto del kérygma più antico, ma non è difficile risalire alle Chiese della Giudea o alla Chiesa di Antiochia di Siria dove fu inserito in seguito all’incontro/scontro con il Risorto sulla strada di Damasco.
Gli studiosi del Nuovo Testamento tendono a preferire la seconda ipotesi, poiché la stessa formula della trasmissione della fede torna in 1Cor 11,23, ossia in occasione delle parole di Gesù durante la cena, che rispecchiano la tradizione antiochena con cui sono state tramandate (cf. 1Cor 11,23b-25). Così a ritroso giungiamo al decennio successivo alla vita terrena di Gesù, vale a dire tra la metà degli anni 35 e degli anni 45 d.C.
Dei quattro verbi che cadenzano la professione di fede più antica, quello che più c’interessa nel contesto della Sindone è “fu sepolto” (etàfe, in 1Cor 15,4). Come mai è riportato in una formula di fede così importante ed essenziale per le comunità cristiane delle origini? Peraltro la specificazione “fu sepolto” è riportata soltanto in questo frammento della fede.
In analoghe professioni di fede arcaiche si specifica che Cristo Gesù fu obbediente fino alla morte, a cui Paolo aggiunge “morte però di croce”, per poi passare direttamente all’esaltazione compiuta da Dio che gli ha conferito il Suo stesso nome: “Signore” (cf. Fil 2,6-11). Oppure si ricorda che Gesù Cristo “ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo presente secolo malvagio” (Gal 1,4).
Pertanto quello di 1Cor 15,3-5 è un caso unico tra le più antiche professioni di fede: la Chiesa delle origini ha confessato sin dalle sue prime ore che Gesù morì ed è risorto e, di conseguenza, che fu sepolto e apparve a Cefa e ai Dodici. Cerchiamo di approfondirne le motivazioni, collegando l’antica formula di fede agli eventi storici della sepoltura di Gesù.
2. I quattro verbi della passione
I quattro verbi che cadenzano la confessione di fede in Gesù Cristo sono disposti in forma parallela o per binomio: da una parte c’è “morì” e “fu sepolto”, dall’altra “è risorto” e “apparve”.
L’accentuazione cade sul primo e sul terzo verbo, come dimostra la ripetizione della formula “secondo le Scritture” posta accanto a “morì per i nostri peccati” ed “è risorto al terzo giorno”. E tra il primo e il terzo verbo il peso maggiore non cade su “morì”, bensì su “è risorto”, poiché il primo è un verbo al passato (aoristo in greco), mentre il secondo è un verbo al perfetto, con ripercussioni sulla vita presente dei credenti.
Per questo dovremmo tradurre non con “risuscitò”, bensì con “è risorto” nel senso che Gesù continua a vivere sino al presente per quanti continuano a credere in lui. La discordanza dei verbi è significativa poiché la loro sequenza intende rimarcare la risurrezione di Gesù.
Ed è per questa ragione che, dovendo affrontare la questione delle modalità con cui è credenti risorgeranno, Paolo riporta all’inizio di 1Cor 15 questo frammento condiviso nella Chiesa delle origini.
Purtroppo il verbo meno spiegato è proprio quello sulla sepoltura: la professione di fede si limita a riconoscere che “fu sepolto”, senza specificare da chi, quando, dove, come e perché. Per questo è necessario ricorrere alle testimonianze evangeliche per approfondire lo spessore e i lineamenti del verbo che rinvia alla sepoltura di Gesù.
Pertanto cerchiamo di collegare la professione di fede, che comprende la sepoltura di Gesù e la sua Sindone, con le narrazioni evangeliche sugli ultimi eventi della sua vita terrena, focalizzando l’attenzione su quella che sembra la domanda più scontata, vale a dire “perché fu sepolto”, quando dal versante storico e giuridico, si rivela la più complessa.
3. Perché “fu sepolto”?
La distanza secolare dagli eventi realizzatisi a Gerusalemme intorno a un 14 di Nisan della prima parte del I secolo d.C. impediscono di comprendere la ragione per cui Gesù fu sepolto, dopo essere stato deposto, ormai morto, dalla croce.
Si ritiene che è fra le tradizioni più naturali conferire degna sepoltura ai defunti, ma nel caso specifico si dimentica che si tratta di un condannato a morte che ha appena subito la pena capitale più infamante, inflittagli dalle autorità imperiali. Per la crocifissione non è prevista alcuna sepoltura. Così lo schiavo Sceledro dichiara nel Miles Gloriosus 372-373 di Plauto: “So che la croce sarà la mia tomba, quella in cui si trovano i miei antenati, mio padre, i nonni, i bisnonni e i trisavoli”.
Quella di Plauto non è una semplice metafora, ma esprime la condizione solita degli schiavi destinati spesso alla pena capitale della crocifissione: non godere neanche di una tomba in cui essere deposto. Di fatto i corpi dei crocifissi erano lasciati sulla croce per essere divorati dagli uccelli o venivano deposti dalle croci per essere collocati in fosse comuni ed essere mangiati dai cani randagi.
Su questo dato storico-forense romano alcuni studiosi come J.D. Crossan e J.L. Reed (Excavating Jesus: Beneath the Stones. Behind the Texts, 2001), hanno ipotizzato che Gesù non fu deposto in un sepolcro, ma, insieme agli altri ladroni, fu lasciato sulla croce o fu abbandonato in una fosse comune, come tutti coloro che subivano la pena capitale della crocifissione. In realtà si dimentica che non si è ancora giunti agli anni della guerra giudaica tra il 65 e il 70 d.C., ma si è in un periodo in cui, come al solito, le autorità imperiali cercano di governare nelle province romane, compresa la Palestina, senza alterare le sensibilità e le tradizioni religiose e legali delle popolazioni sottomesse.
Nel caso della crocifissione, per il popolo giudaico vale la sentenza fondamentale di Dt 21,21-23 “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un legno, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità”.
A prima vista la proposizione del Deuteronomio riguarda non l’esecuzione della morte per crocifissione, bensì l’esposizione del cadavere in seguito alla morte. Tuttavia in epoca ellenistica lo stesso detto di Dt 21,21-23 è interpretato ed è utilizzato a proposito della pena capitale della crocifissione. Così è commentato il passo della Torah a Qumran nel Rotolo del Tempio 7-13: “Se ci fosse una spia contro il suo popolo, che dà il suo popolo a una nazione straniera e opera il male contro il suo popolo, lo appenderai a un albero e morirà.
Per la testimonianza di due testimoni e per la testimonianza di tre testimoni sarà giustiziato e lo appenderanno all’albero. Se ci fosse in un uomo un peccato passibile di morte e fugge in mezzo alle nazioni e maledice il suo popolo e i figli d’Israele, anche lui lo appenderete all’albero e morirà. I loro cadaveri non passeranno la notte sull’albero, ma li seppellirete quel giorno, perché sono maledetti da Dio e dagli uomini gli appesi all’albero; così non contaminerete la terra che io ti do in eredità” (11Q 19,64,7-13).
La stessa estensione di significato si verifica nel pesher o commento al profeta Nahum (cf. 1QpNah 3-4) e, per il Nuovo Testamento, in Gal 3,13-14 dove Paolo afferma tutta la portata paradossale della morte di croce di Gesù: “Cristo ci ha riscatto dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi pende dal legno (cf. Dt 21,23) affinché in Cristo Gesù, la benedizione di Abramo giungesse ai gentili e noi, mediante la fede, ricevessimo, lo Spirito promesso”.Dunque nella tradizione giudaica dallo xýlon o legno d’albero si è giunti allo staurós o alla croce e dalla morte che precede a quella che succede alla crocifissione. Così il passo di Dt 21,21-23 diventa una halakah o una normativa della tradizione orale giudaica che regola il modo di comportarsi giudaico sulla crocifissione, che resta pena capitale eseguita dalle autorità imperiali e non da quelle giudaiche. La halakah comprende che quanti sono crocifissi, senza eccezione, possano ricevere sepoltura e che tutto si svolga nell’arco di una giornata senza che sopraggiunga la notte.
La sepoltura di Gesù non è un’invenzione della Chiesa delle origini, ma si comprende molto bene nel contesto storico delle relazioni tra il potere imperiale e le autorità religiose giudaiche della Palestina. L’aggiunta “fu sepolto” non è una conseguenza naturale o scontata della crocifissione di Gesù, bensì rientra nella concessione che Pilato elargisce a Giuseppe di Arimatea affinché il corpo di Gesù venga tolto dalla croce e sia deposto in un sepolcro. Forse è opportuno rilevare che questo dato si ripete in tutte le narrazioni evangeliche sulla sepoltura di Gesù, secondo un’attestazione multipla delle fonti (cf. Mc 15,43-45; Mt 27,58; Lc 23,52; Gv 19,38).
A sua volta l’apocrifo Vangelo di Pietro 3-5.23-24 sottolinea più dei Vangeli canonici, da cui dipende per forma e contenuti, il ruolo che Giuseppe di Arimatea svolge sulla deposizione e la sepoltura di Gesù. Secondo l’apocrifo citato, Giuseppe è amico di Pilato e del Signore e chiede il corpo di Gesù già prima di essere crocifisso: “S’incontrarono lì Giuseppe, l’amico di Pilato e del Signore, e sapendo che stavano per crocifiggerlo, andò da Pilato e chiese il corpo del Signore per la sepoltura. E Pilato avendo(lo) mandato da Erode concesse il suo corpo. Ed Erode disse: ‘Fratello Pilato, se anche non lo avesse chiesto nessuno, noi stesso lo avremmo sepolto, poiché si avvicina il sabato; sta scritto infatti nella Legge: Il sole non deve tramontare su un giustiziato’. E lo consegnò al popolo il giorno prima degli azzimi, sua festa… Si rallegrarono i giudei e diedero a Giuseppe il suo corpo affinché gli desse sepoltura, poiché aveva visto tutto il bene che aveva fatto. Avendo preso il corpo del Signore, lo lavò, lo avvolse in una sindone e lo depose nella sua stessa sepoltura chiamata Giardino di Giuseppe”. Pertanto il corpo di Gesù fu deposto dalla croce da Giuseppe di Arimatea e fu collocato in un sepolcro per concessione e non per diritto del procuratore Pilato che, dopo aver fatto constatare la morte prematura, lo affida all’autorevole personalità del Sinedrio.
4. Morì e fu sepolto
Con una prospettiva a posteriori l’accenno all’atto della sepoltura, con tutte le sue implicazioni – dal luogo scavato nella roccia al sudario – potrebbe semplicemente far pensare che la sepoltura costituisce il ponte tra la morte di Gesù in vista della redenzione dei nostri peccati e la sua risurrezione al terzo giorno.
In realtà la sepoltura è più legata alla morte che alla risurrezione sia dal versante logico, sia per la sequenza dei verbi, tant’è che nella confessione di fede di 1Cor 15 non si accenna al sepolcro vuoto dopo la risurrezione di Gesù al terzo giorno. Sufficiente è ripercorrere il retroterra dell’Antico Testamento e i paralleli del restante Nuovo Testamento per cogliere il legame prioritario tra il verbo “morire” ed “essere sepolto”. Già in Gen 35,19 si racconta che Rachele “morì e fu sepolta”. La parabola del povero Lazzaro racconta che alla fine anche il ricco epulone “morì e fu sepolto” (Lc 16,22); e negli Atti degli apostoli si ricorda che Davide morì e fu sepolto (cf. At 2,29).
Dunque ci troviamo di fronte a un cliché narrativo tipicamente giudaico che evidenzia come a Gesù fu concessa non soltanto la sepoltura dall’autorità imperiale, ma che quella sepoltura esprime la premura per lui di Giuseppe di Arimatea e delle donne che vi partecipano. Anzitutto è in questione la fede di Giuseppe di Arimatea, presentato come “membro insigne del Sinedrio” (cf. Mc 15,43; Lc 23,50).
Di lui soltanto l’evangelista Luca ricorda che non aveva aderito alla decisione del Sinedrio e attendeva il regno di Dio (cf. Lc 23,51). E Giovanni aggiunge che era un segreto discepolo di Gesù (cf. Gv 19,38). Il criterio di discontinuità depone a favore non del mito (cf. il solito J.D. Crossan summenzionato), bensì della storicità di Giuseppe d’Arimatea e del suo ruolo per la sepoltura di Gesù.
Sarebbe stato più naturale evitare tali particolari che non depongono a favore di Giuseppe in occasione del processo che riportarli nelle fonti antiche. Comunque la sua audacia nel chiedere e ottenere il corpo di Gesù ripaga il silenzio e il timore durante la sua sequela nascosta. A Giuseppe di Arimatea, i sinottici aggiungono le donne: sono menzionate Maria la Maddalena, Maria di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome (cf. Mc 15,40). La stessa annotazione si ripete in Mc 16,1 ossia all’alba del primo giorno dopo il sabato quando le tre donne tornano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù.
Rilevante è il silenzio di Paolo sulle apparizioni alle donne in 1Cor 15: conosce bene il diritto giudaico che esclude qualsiasi testimonianza delle donne e dei bambini. Anche in questo caso il criterio di discontinuità o di contraddizione depone a favore della storicità sulla presenza delle donne in occasione della sepoltura di Gesù.
Pertanto l’aggiunta “fu sepolto” non è una semplice specificazione, di poco o scarso valore, bensì segnala che la morte di Gesù è reale ed è ratificata dalla sua sepoltura. Sarà un caso, ma più si approfondisce la Sindone di Gesù, più si comprende che è rapportata non tanto alla sua risurrezione, quanto alla sua morte. Contro qualsiasi forma di docetismo o di apparente umanità di Gesù, la sua vicenda umana è tale sino alla morte di croce e alla sepoltura. Qualsiasi paradigma che cerca di spiegare la morte e risurrezione di Gesù secondo miti gnostici o di culti misterici si scontra con la sua sepoltura reale e non fittizia, né tanto meno letteraria.
5. Conclusione
Per la fede delle prime comunità cristiane la specificazione “fu sepolto” non è pleonastica, né pletorica, bensì assume un suo ruolo decisivo rispetto alla morte e alla risurrezione di Gesù. Il verbo etàfe rinvia alla concessione che Pilato accordò a Giuseppe di Arimatea affinché, nonostante la crocifissione subita dalle autorità imperiali, Gesù ricevesse onorata sepoltura.
Per questo la sepoltura e gli strumenti utilizzati per attuarla non rinviano soltanto alla fede successiva, bensì anche a quella originaria di Giuseppe e delle donne che attendono il terzo giorno per imbalsamare il corpo di Gesù.
Più che alla risurrezione finale il verbo “fu sepolto” rinvia alla morte di Gesù. Il dato è confermato dall’uso del verbo composto “con-seppellire” (synthápto), utilizzato da Paolo in Rm 6,4 e in Col 2,12.
Da una parte con il battesimo si è stati consepolti insieme a Gesù Cristo nella sua morte, dall’altra si è consepolti per partecipare della sua risurrezione. La fede nella risurrezione passa attraverso quella nella morte di Gesù per i nostri peccati e il suo essere stato realmente sepolto: come il chicco di grano che, caduto in terra, muore per produrre molto frutto (cf. Gv 12,24).