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Enzo Bianchi e Fabio Rosini: commenti Vangelo 1 novembre

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Commento al Vangelo della domenica e delle feste 

Una comunione più forte della morte
1 novembre 
Tutti i santi, anno A

Mt 5,1-12

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi».

La celebrazione della comunione di tutti i santi del cielo e della terra è memoria della chiesa una e santa. I credenti che, radunati intorno all’altare eucaristico, partecipano alle cose sante e comunicano a Colui che è la fonte della santità, conoscono la comunione con i santi che già vivono in Dio: in questa celebrazione la chiesa pellegrinante è più che mai in comunione con la chiesa celeste, insieme formanti l’unico e totale corpo del Signore. 

Ma qual è l’annuncio evangelico della santità? Esso trova una sintesi efficacissima nelle beatitudini, le acclamazioni con cui Gesù apre il «discorso della montagna» (Mt 5,1-7,27). Sappiamo bene che le beatitudini riguardano il rapporto tra fede e felicità: il primo e più elementare senso delle beatitudini è la felicità, la gioia di scoprire che grazie all’assunzione di alcuni comportamenti si può entrare in relazione con il Signore Gesù, lui che è l’Uomo delle beatitudini. Dimentichiamo però facilmente che le beatitudini sono anche paradossali, sono «linguaggio della croce» (1Cor 1,18) capace di confondere la saggezza umana (cf. 1Cor 1,19-25)! A chi infatti scruta la realtà quotidiana sorge spontaneo chiedersi come sia possibile proclamare beati, felici, quanti sono poveri, quanti piangono, quanti sono affamati di giustizia fino a essere perseguitati… Eppure queste beatitudini sono uscite dalla bocca di Gesù in una cultura e in una società simile alla nostra, dove vigeva la legge della forza, dove ciò che contava era la ricchezza, dove la violenza era a servizio del potere. Occorre dunque ribadire con forza che, ieri come oggi, le beatitudini sono scandalose; e siccome Gesù, colui che le ha vissute in pienezza, per la sua rivelazione di Dio è finito in croce, allora – lo ripeto – le beatitudini sono linguaggio della croce. 

Non bisogna però commettere l’errore di leggere la vita di Gesù Cristo a partire dalla croce. No, il cammino da percorrere è esattamente quello contrario: occorre guardare alla croce a partire da Gesù, il quale è giunto a questa fine ignominiosa solo a causa del suo amore vissuto «fino alla fine» (Gv 13,1), un amore capace di trasformare uno strumento di condanna a morte in un trono da cui egli ha regnato glorioso. Con tutta la sua vita egli ci ha rivelato che la beatitudine non viene da condizioni esterne, ma nasce da alcuni comportamenti cui è promessa felicità da parte di Dio, comportamenti che vanno assunti nel cuore e vanno vissuti realmente, incarnati giorno dopo giorno. 

Essere poveri nello spirito prima ancora di designare un rapporto con i beni, indica la condizione di chi è libero nel cuore a tal punto da sentirsi povero ed è talmente povero nel cuore da sentirsi libero di accettare la propria realtà, libero di accettare le umiliazioni e di sottomettersi ogni giorno agli altri. Essere capaci di piangere significa conoscere le lacrime che sgorgano non per ragioni psicologiche o affettive, ma perché il nostro cuore freme meditando sulla propria e altrui miseria. Assumere in profondità la mitezza significa lottare per rinunciare alla violenza in ogni sua forma, nel contenuto come nello stile. Avere fame e sete che regnino la giustizia e la verità significa desiderare che i rapporti con gli altri siano retti non dai nostri sentimenti ma dall’essere, dal volere e dall’agire di Dio. Essere puri di cuore è avere su tutto e su tutti lo sguardo di Dio, partecipando della sua makrothymía, del suo pensare e sentire in grande. Praticare la misericordia e fare azioni di pace significa essere capaci di dimenticare il male che gli altri ci hanno fatto, a immagine di Dio che non ricorda i nostri peccati (cf. Is 43,25). Essere perseguitati e calunniati per amore di Gesù significa avere una prova che si segue davvero il Signore, perché non tutti dicono bene di noi (cf. Lc 6,26). 

Chi si trova in queste situazioni, chi lotta per assumere tali atteggiamenti, ascoltando le parole di Gesù può sentirsi in comunione con lui e così sperimentare la beatitudine: è una gioia profonda, una gioia che si può provare anche piangendo, una gioia che niente e nessuno ci può rapire (cf. Gv 16,23). Allora davvero «noi non siamo soli, ma ci sentiamo avvolti da una grande nube di testimoni» (cf. Eb 12,1) che ci hanno preceduto, i santi. E la beatitudine è ciò che unisce noi e loro: loro perché la vivono piena in cielo, noi perché cominciamo a sperimentarla qui sulla terra, nella nostra vita cristiana.

 


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