Massimo Recalcati "Ama il tuo nemico come te stesso"
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17 ottobre 2024
Il comandamento del Vangelo non concepisce il “prossimo” come il “simile”, ma come l’altro da sé. È questo l’aspetto più scabroso dell’insegnamento di Gesù, puntualizzato da Nietzsche.
È la sua scandalosa interpretazione del comandamento del Levitico .Se, infatti, uno amasse chi lo
ama, se amasse chi già gli vuole bene che merito avrebbe? Il vero salto è quello di concepire il
prossimo non come il “simile” ma come il “remoto”. È una puntualizzazione che si trova in Così
parlò Zarathustra di Nietzsche: solo se l’amore è per il remoto e non per il vicino esso si rivela
davvero amore per il prossimo. Ecco perché Gesù nella sua lettura radicale della Torah interpreta
l’amore per il prossimo come l’amore per il forestiero, per lo straniero, per chi non è di casa e, in
ultima istanza, per il nemico.
Perché è questa la radice più scabrosa dell’amore. Non amare chi è a nostra disposizione, chi resta
accanto a noi, chi ci è vicino. Non amare la sua presenza empatica, la sua prossimità, la sua
rassicurazione. Ma amare il prossimo come la parte più straniera di me stesso e dell’Altro, amare la
sua alterità, quella più profonda e incondivisibile. Quella stessa alterità che Gesù nella sua
testimonianza umana ha saputo incarnare quando, per esempio, ricorda ai suoi di non essere venuto
per restare ma per andarsene o quando, nel tempo della sua resurrezione, si rivolge a Maria
Maddalena ricordandole che non può più toccarlo (Noli me tangere ).Testimonianza radicale
dell’impossibilità di concepire l’amore come appropriazione, fusione, identificazione narcisistica al
simile. È quello che Freud non comprende: l’amore per il prossimo non è amore per colui che mi è
indifferente, ma per lo sconosciuto che è in me e in chi mi sta accanto, per lo straniero che io stesso
sono presso me stesso e per il tratto sempre inappropriabile della libertà assoluta dell’Altro.
Diversamente dal mito platonico di Eros nell’amore per il prossimo come amore per il nemico non
si dà nessuna riconciliazione possibile, nessuna ricomposizione dialettica della scissione, nessuna
armonia pacificata.
L’orizzonte della fratellanza si inaugura infatti, già nel racconto della Torah, con l’atto fratricida
commesso da Caino: il fratello è innanzitutto un intruso e un usurpatore. L’odio precede così
l’amore perché esprime il rifiuto della condivisione, della presenza dell’Altro che non è a mia disposizione. Non a caso la guerra si scatena sempre a partire da un sentimento di violazione dei
propri confini. Non può di conseguenza essere la sostanza del sangue a fondare la fratellanza, a
garantire la conversione dell’odio nell’amore. Non a caso quando la Bibbia racconta i legami
fraterni racconta sempre dei fallimenti traumatici. Non solo quello tra Caino e Abele ma anche
quello tra Esaù e Giacobbe, quello tra Giuseppe e i suoi fratelli o quello tra il figliol prodigo e il suo
fratello maggiore. La logica del sangue e della discendenza non è sufficiente a fondare l’amore per
il prossimo come nucleo insormontabile di ogni possibile fratellanza.
È necessario uno scatto ulteriore, uno sforzo differente. La necessità della biologia – l’identità del
suolo e del sangue – sono sempre illusioni pericolose come ha mostrato in modo terrificante la
stagione dei totalitarismi novecenteschi. Gesù ci aveva allertati: «chi è mia madre, chi sono i miei
fratelli? ». L’identità del sangue non può mai essere l’ultima parola sulla fratellanza. Anzi, per certi
versi, essa è un ostacolo all’istituzione dell’amore come amore per la differenza irriducibile
dell’Altro.
Perché questo indica l’amore per il nemico affermato scandalosamente da Gesù: ama chi non è tuo,
chi non è come te, chi non è a tua disposizione, ama la distanza che lo separa da te, ama che se ne
vada, che non resti, che non sia qui, che non ti appartenga mai. Stravolgimento radicale di ogni
simmetria e di ogni reciprocità speculare. Per questa ragione egli ricorda che l’atto d’amore è
sempre a fondo perduto. Non si realizza nell’essere ricambiato ma nel suo spendersi senza misura,
illimitatamente, senza interessi. Ecco perché la vera gloria non è mai dell’amato ma dell’amante.
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