Le domande alle quali mi è stato chiesto di rispondere sono due:
[1] Se Gesù è l’unico e definitivo
Salvatore, i credenti in altre religioni e i non credenti entrano nella salvezza annunciata e portata a
compimento da Gesù?
[2] La fede in Gesù esclude dal Regno coloro che non credono nella sua
parola e nella sua risurrezione? Le domande sono due, ma in realtà sono le due facce di una stessa
medaglia perché il problema è uno solo: si tratta di vedere anzitutto se la salvezza annunciata e
compiuta da Gesù riguardi l’intera umanità, sia cioè universale, oppure no; in secondo luogo quali e
quanti siano per ogni uomo le vie di accesso a questa salvezza; infine si deve vedere quale posto e
ruolo abbia nell’intera questione la libertà di Dio. La risposta alle due domande avverrà dunque in
tre tempi, il primo più lungo, gli altri due più brevi.
1. Universalità della salvezza di Gesù
Che Gesù sia il Salvatore di tutti, senza eccezioni né limiti di alcun genere, è convinzione comune
degli autori del Nuovo Testamento e di Gesù stesso, che dice, tra le altre cose: «quando sarò
innalzato dalla terra, trarrò tutti a me» (Giovanni 12,32); la sua opera di riconciliazione, perdono e
pace è avvenuta «per il mondo», cioè per l’umanità intera. Questo è affermato con molta insistenza
specialmente nell’evangelo di Giovanni. Giovanni Battista, appena vede Gesù, dichiara: «Ecco
l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo» (1,29). E l’evangelista scrive: «Dio ha tanto
amato il mondo, che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma
abbia vita eterna. Dio infatti non ha mandato suo Figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo
sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17). E più volte Gesù stesso si dichiara «luce del mondo» (8,12;
9,5; 11,9; 12,46). L’apostolo Paolo dice più volte, in diversi contesti, la stessa cosa: «Dio
riconciliava con sé il mondo per mezzo di Cristo, non imputando agli uomini [evidentemente a tutti]
le loro colpe, e ha messo in noi [noi apostoli, e, in senso più ampio, a noi cristiani] la parola della
riconciliazione». E subito dopo: «Colui che non ha conosciuto peccato, Dio lo ha fatto essere
peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui (II Corinzi 5,20-21). Anche qui
«per noi» significa «per noi uomini», senza distinzioni né limiti. [Gesù] è la vittima espiatoria per i
nostri peccati, e non soltanto per i nostri [di noi cristiani], ma per quelli di tutto il mondo» (2,2). I
Samaritani, evangelizzati dalla loro concittadina, dopo aver trascorso due giorni con Gesù, dicono
alla donna: «Non è più a motivo di quello che tu ci hai detto, che crediamo, perché noi stessi
abbiamo udito e sappiamo che questi [Gesù] è veramente il Salvatore del mondo» (Giovanni 4,42).
È dunque assolutamente chiaro che la salvezza portata da Gesù nel mondo è per il mondo intero,
cioè per tutta l’umanità e ogni singola persona umana, senza distinzioni né eccezioni.
È dunque più che fondata l’affermazione dell’apostolo Paolo: «Dio vuole che tutti gli uomini siano
salvati e vengano alla conoscenza della verità» (1Timoteo 2,4). Qual è la verità? È quella già
ampiamente testimoniata dal popolo d’Israele in tutto l’Antico Testamento e che poi è apparsa con
ogni chiarezza nella persona e nella storia di Gesù di Nazareth raccontata negli evangeli, dai quali
emerge un Dio molto diverso da tutto quello che abitualmente si associa all’idea di divinità: un Dio
che ama ciò che noi non amiamo (i peccatori), che perdona ciò che noi non perdoneremmo, che
mette al primo posto ciò che noi avevamo messo all’ultimo, un Dio che sceglie ciò che noi avevamo
scartato, che chiama «beati» quelli che noi consideriamo infelici o sfortunati, un Dio che accoglie
quelli che noi avevamo escluso, un Dio insomma che non piace a tutti e neppure a noi, e alla fine
non piace più a nessuno.
Tanto che finisce su una croce, non tra due discepoli, ma tra due briganti, o come un criminale
comune, o come un povero esaltato che pretendeva di cambiare il mondo cambiando l’uomo, o
come il re di un regno che non c’è, o come un pericoloso sovversivo. Gli idoli non disturbano, anzi
pavesano la città e incantano il popolo; Dio invece disturba sommamente: la sua presenza e la sua
voce non vengono tollerate a lungo. Così, la verità che devono conoscere i «tutti» che Dio vuole salvare, è una verità crocifissa. Ma forse non tutti sono disposti a percorrere fino in fondo quella
strada stretta e in salita. Eppure la volontà di Dio è che tutti siano salvati.
Di questa volontà divina di salvezza universale ci sono tante altre tracce nel Nuovo Testamento:
sarebbe lungo elencarle tutto. Basti qui ricordare la visione dell’Apocalisse secondo la quale intorno
al trono di Dio e dell’Agnello, insieme ai 144.000 appartenenti a tutte le tribù dei figli di Israele
(12.000 per ogni tribù), c’è «una folla immensa che nessuno poteva contare, proveniente da tutte le
nazioni, tribù, popoli e lingue, che stava in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, vestiti di
bianche vesti e con delle palme in mano» (Apocalisse 7,9) Né si può dimenticare la descrizione
della Gerusalemme celeste, illuminata non più dal sole, ma dalla gloria di Dio e dall’Agnello, che
«è la sua luce»; le sue porte non saranno mai chiuse e «le nazioni cammineranno alla sua luce e i re
della terra vi porteranno la loro gloria» (21,23-26). Come si vede, è difficile immaginare una
prospettiva più universalistica di questa.
Molto importante è la motivazione che il Nuovo Testamento dà della universalità della salvezza
offerta da Gesù. La motivazione è questa: «Vi è un solo Dio, e un solo mediatore tra Dio e gli
uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso come prezzo di riscatto per tutti» (1Timoteo 2,5-
6). È chiaro: la ragione dell’universalità della salvezza sta nell’unicità del Salvatore; c’è solo lui in
grado di salvare, quindi la sua salvezza deve valere per tutti; l’umanità non può ricorrere ad altri,
perché non ci sono. Come disse Pietro, condotto con Giovanni davanti al Sinedrio nei giorni
successivi a Pentecoste: «In nessun altro [fuorché in Gesù Cristo] è la salvezza, perché non vi è
sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per il quale noi possiamo essere
salvati» (Atti 4,12). Questa convinzione è un caposaldo del messaggio e della fede cristiana, ed è
stato, nei secoli, il movente principale di tutta la vasta e variegata opera missionaria nel mondo (1).
La salvezza - ripetiamolo ancora una volta - è per tutti. Questo però non significa che tutti la
gradiscano e l’accettino. Ci sono tanto negli evangeli quanto nelle lettere apostoliche non poche
parole (anche di Gesù) che lasciano intendere che non tutti si approprino di una salvezza che è e
resta per tutti. Sono due, infatti, i fattori che qui entrano in gioco: il primo è l’elezione divina, il
secondo è la volontà umana. Riguardo al primo fattore si possono citare due parole di Gesù e una
dell’apostolo Paolo. Le due di Gesù: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre, che mi ha
mandato» (Giovanni 6,44), e «Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti» (Matteo 22,14). La parola
di Paolo: « [L’elezione divina] non dipende né da chi vuole, né da chi corre, ma da Dio che fa
misericordia» (Romani 9,16). Quindi: se Dio non ci attira a Cristo, noi, di nostra iniziativa, non lo
facciamo. L’elezione divina è un atto di grazia che non dipende da noi, ma da Dio; nessuno la
merita, e giunge inattesa e immotivata; chi è eletto non sa perché lo sia, e non sa perché non lo siano
altri, né perché non lo siano tutti.
Qui entra in campo la libertà di Dio nel chiamare o non chiamare una persona. Possiamo pensare
che sia proprio pensando a questa libertà che Gesù, in due sue parole-chiave, parla di «molti» e non
di «tutti». La prima: «Il Figlio dell’uomo è venuto [...] per dare la sua vita come prezzo di riscatto
per molti». La seconda, distribuendo il vino della Cena: «Questo è il mio sangue, il sangue del
patto, il quale è sparso per molti» (Marco 10,45 e 14,24).
«Molti», qui, non vuol dire «non tutti», ma «non pochi». Però Gesù dice «molti», e non «tutti». I
«molti» non possono essere «pochi», mentre potrebbero anche essere «tutti». Ma c’è una riserva:
non siamo noi a poter sostituire «molti» con «tutti». Noi dobbiamo dire, con Gesù, «molti».
Riguardo al secondo fattore - la volontà umana - è quella di chi non permette alla parola di Dio di
prendere posto nel suo cuore e nella sua vita e così si tiene lontano dal Dio che gli è vicino. C’è chi
non apre a Colui che bussa (Apocalisse 3,20), c’è chi «abbandona il primo amore» (Apocalisse 2,4).
C’è, nel racconto evangelico, un personaggio che illustra in modo emblematico il dramma
dell’eletto (Giuda era stato scelto da Gesù nel gruppo dei Dodici) che svende la sua elezione
consegnando Gesù ai suoi nemici, come Esaù aveva svenduto la sua primogenitura per un piatto di
lenticchie. Ma «i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili» (Romani 11,29). Perciò nel suo
tradimento con il quale ha tradito anche se stesso, Giuda resta l’eletto, la sua elezione divina
«supera, eclissa controlla e governa il suo ripudio, non solo parzialmente, ma completamente, in
maniera non solo relativa, ma assoluta (2).
Anche per Giuda vale la parola antica, pronunciata davanti alle rovine di Gerusalemme e del suo
Tempio: «Le sue [di Dio] compassioni non sono esaurite. Si rinnovano ogni mattina» (Lamentazioni
3,22). Ma allora: Giuda sarà salvato?
Secondo la giustizia umana, no: il suo tradimento è
imperdonabile.
Secondo la giustizia divina, che giustifica l’empio («Cristo è morto per gli empi» Romani 5,6, cioè
«al posto loro»), sì. Ma è Dio che amministra la sua giustizia, non siamo noi.
In conclusione, l’elezione è opera esclusiva e insindacabile di Dio. Che essa debba abbracciare
l’intera umanità «è una tesi che non abbiamo il diritto di formulare, per rispetto della libertà di Dio.
La libertà di Dio non è un codice dal quale si possono trarre diritti e obblighi. Come il Dio della
grazia non ha alcun obbligo di eleggere e chiamare a sé un solo individuo, così non è in obbligo di
eleggere e chiamare a sé tutta l’umanità [...]. Inversamente, la conoscenza della grazia propria della
libertà divina deve impedirci di formulare la tesi contraria, cioè di affermare che è impossibile
aspettarsi l’allargamento totale e supremo dell’elezione e della vocazione, così da includere l’intera
umanità» (3).
2. Le vie di accesso alla salvezza
Se, come s’è detto, non c’è altro nome, tranne quello di Gesù, che sia stato dato agli uomini per il
quale noi possiamo essere salvati (Atti 4,12), e se Gesù è «il Salvatore del mondo» (Giovanni 4,42),
non possiamo pensare che ci possa essere salvezza all’infuori di Gesù. Questo però non significa
che la via cristiana a Gesù sia l’unica che porta a lui. L’unicità e l’universalità della salvezza in
Gesù non significa che, prima o poi, tutti debbano diventare cristiani per essere salvati, cioè che non
si possa essere salvati se non si diventa cristiani. Gesù Cristo e il cristianesimo non possono essere
separati, ma ancora meno identificati.
Il cristianesimo si è sviluppato e diffuso in stretto rapporto con la Chiesa, ma tra Gesù e la Chiesa
nelle sue varie forme c’è senza dubbio una certa continuità, ma ci sono anche dei «salti», cioè
appunto delle discontinuità, non facili da colmare. Chiedersi quale Chiesa Gesù oggi
frequenterebbe, e addirittura se ne frequenterebbe una, riconoscendola come sua comunità, non è
una domanda frivola o sconveniente. Dire «Gesù» e Chiesa« significa evocare due realtà, nelle quali
le diversità sono forse maggiori delle affinità, le distanze maggiori delle prossimità. Questo non
significa sminuire l’importanza della Chiesa mediante la quale la conoscenza di Gesù e la fede in lui
sono giunte fino a noi, ma significa anzitutto non far dipendere il rapporto con Gesù dal rapporto
con la Chiesa, ma far dipendere il rapporto con la Chiesa dal rapporto con Gesù e, in secondo luogo,
significa affermare che Gesù è una realtà più grande della Chiesa, e quindi ci sono vie d’accesso a
Gesù, cioè alla salvezza, diverse da quelle, pur molteplici, della Chiesa.
Le vie d’accesso a Gesù che possiamo oggi indicare sono quattro.
[a] La prima è ovviamente la via della fede in Gesù, che abitualmente si percorre e vive nella
Chiesa. «Credi nel Signore Gesù, e sarai salvato tu e la casa tua» (Atti 16,31). E ancora: «Se con la
bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto col cuore che Dio lo ha risuscitato dai
morti, sarai salvato» (Romani 10,9). Questa è la via maestra per la salvezza. La fede nasce
dall’ascolto della parola evangelica della grazia e del perdono; accogliendola si entra in comunione
con Gesù stesso, e questa è la salvezza. Non è la fede che salva, bensì Gesù, però è per mezzo della
fede che entro in relazione con Gesù e che mi approprio della salvezza.
[b] Gesù ha instancabilmente predicato la fede dicendo addirittura: «Chi crede nel Figlio ha vita
eterna» (Giovanni 3,36), e l’ha cercata nei suoi discepoli, trovandone sempre «poca», e alla fine
nessuna, mentre, a sorpresa, l’ha «trovata» o scoperta in due pagani, in un uomo, un centurione
romano (Matteo 8,10), e in una donna sirofenicia (Marco 7,24-30); nell’uomo ha addirittura trovato
«una grande fede». La qualità della fede di questi pagani pare persino superiore a quella dei
discepoli. Per tutti, comunque, vale l’avvertimento di Gesù: «Non chiunque mi dice: “Signore,
Signore!” entrerà nel regno dei cieli [un altro modo per dire: «sarà salvato»], ma chi fa la volontà
del Padre mio che è nei cieli». Per fare questa volontà non basta neppure profetizzare e fare miracoli
nel nome di Gesù (Matteo 7,21-23).
Abbiamo due indicazioni chiarissime su quale sia la volontà di Dio: i Dieci Comandamenti riassunti
da Gesù nel doppio comandamento dell’amore (Marco 12,28-34), e le opere descritte in Matteo 25,35-40. Questo significa che anche l’amore, che è «più grande» sia della fede sia della speranza,
perché, a differenza di queste due, «l’amore non verrà mai meno» (1Corinzi 13,8), unisce a Gesù e
a Dio, come dice e ripete la Prima Lettera di Giovanni: «Dio è amore, e chi dimora nell’amore,
dimora in Dio, e Dio dimora in lui» (4,16). Che cos’è questo «rimanere» reciproco di Dio in noi e di
noi in Dio se non la perfetta salvezza? Questo amore, nella Prima Giovanni, è inseparabile dalla
fede in Dio come amore, ma la grande descrizione del giudizio finale in Matteo 25 ci dice, tra le
tante, una cosa molto importante, e cioè che è possibile compiere gesti inequivocabili di autentico
amore del prossimo senza conoscerne la segreta origine e qualità divina: sono gesti umani dettati
dalla compassione, che però, all’insaputa di chi li compie, hanno a che fare con Dio; in quella che,
vista da fuori, è una semplice relazione umana molto bella, è intrecciata una profonda relazione
divina. Dobbiamo allora concludere che anche la via dell’amore conduce, attraverso Gesù, a Dio e
quindi alla salvezza? La risposta è: Sì.
[c] Nella stessa linea or ora tracciata si colloca una parola dell’apostolo Pietro che, sulla base di una
visione inviatagli da Dio (Atti 10,10-16), capì, tra le altre cose, che «in qualunque nazione, chi lo
teme e opera giustamente, gli è gradito» (Atti 10,35). Anche qui c’è un accenno alla fede, ma
alquanto sfumato, ma ciò che più rende gradita a Dio qualunque persona sono le «opere giuste»,
quelle cioè che, perché giuste, corrispondono alla volontà di Dio. È un’altra versione della parola di
Gesù sul fare la volontà di Dio se si vuole entrare nel suo regno. A Dio importa di più essere
ubbidito (consapevolmente o no, come in Matteo 25) che essere celebrato. Preferisce la giustizia e il
diritto piuttosto che le liturgie solenni. Chiunque, in qualunque nazione, cultura o religione o,
indipendentemente da ogni religione, compie le opere che Dio gradisce, è gradito a Dio che,
sicuramente, lo accoglie volentieri nel suo regno.
[d] Una quarta via di accesso alla salvezza fu elaborata già nel II secolo della storia cristiana da
alcuni teologi, tra i quali il principale fu Giustino Martire (100 ca.-165 ca.), filosofo di origine
pagana, diventato cristiano e morto martire a Roma intorno al 165 d.C. A lui si deve la dottrina della
Parola divina (Lògos) diffusa dovunque si coltivino valori e virtù (Lògos spermatikòs).
«Tutto ciò che è stato detto di vero da chiunque, è di noi cristiani» dice Giustino (4) , non nel senso che
ci appartiene, ma nel senso che l’azione della Parola divina, il Lògos, ha agito ben oltre i confini
della comunità cristiana.
Perciò, secondo Giustino, Socrate ed Eraclito, come del resto Abramo, erano cristiani quanto meno
potenziali, anche se incompleti o parziali, perché la Parola divina aveva diffuso dei «semi di Cristo»
anche fra loro, cristianizzando, almeno in parte, quel mondo prima ancora che venisse
evangelizzato. In questa ottica lo sguardo sul mondo allora considerato pagano, e comunque non
cristiano, cambia completamente. Il mondo che non conosce Dio non è senza Dio perché Dio non è
senza il mondo, anzi egli agisce in esso mediante il Lògos. Proprio perché Gesù è il Salvatore del
mondo e Dio, in lui, ha riconciliato il mondo a sé, possiamo vedere il vuole saperlo. In una
prospettiva di questo genere i contenuti del dialogo con le altre religioni cambia completamente e
può essere impostato in modo nuovo rispetto al passato. Questo non significa relativizzare la fede
cristiana ma, al contrario, scoprirne delle tracce anche là dove non ci aspetteremmo di trovarne. Un
po’ come Gesù che trova «una grande fede» proprio in due pagani.
3. La libertà di Dio
Della libertà di Dio abbiamo già parlato svolgendo il punto [a]. È una libertà che si manifesta
perfettamente nel soffio dello Spirito, che non sai né da dove viene, né dove va (Giovanni 3,8): è
imprevedibile e incontrollabile; appunto, è libero. Come è libero di chiamare chi vuole, così Dio è
libero di salvare chi vuole. La libertà di Dio è certamente libertà di amare (Egli è «Colui che ama
nella libertà») (5), quindi anche libertà di salvare, la libertà più grande e gloriosa che ci sia. Perciò, la
parola finale sul destino ultraterreno di ogni persona, a cominciare da noi stessi, spetta a Dio.
Questo ci libera da ogni ansia e ci rende più liberi, perché liberati da qualunque giudizio sugli altri e
su noi stessi. Creati a immagine di Dio, anche la nostra libertà è chiamata a riflettere qualche
barlume della sua. Sarebbe bello, ad esempio, se la vivessimo soprattutto come libertà di amare.
Potremmo allora apprezzare ancora di più lo splendido poema di Paul Eluard sulla libertà, che si
conclude con questi versi:
E per il potere di una parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti per nome:
Libertà (6).
Note
1) L’affermazione di Pietro ora citata è stata messa in dubbio anche in casa cristiana, da chi l’ha interpretata come affermazione arrogante dettata da
una presunzione di superiorità del cristianesimo sulle altre religioni, dalla quale invece dovremmo, come cristiani, liberarci. Ma affermare che Gesù è
l'unico Salvatore del mondo non implica affatto coltivare o alimentare sentimenti di superiorità, né è in sé un atto di arroganza. È semplicemente una
delle convinzioni centrali della fede cristiana. Si può non condividerla, ma è difficile immaginare un cristianesimo che ne prescinda.
2) Karl Barth, Dogmatique, vol, 8, Labor et Fides, Ginevra 1958, p. 498.
3) Karl Barth, op. cit. [Nota 1], p. 414.
4) Giustino, Seconda Apologia, 13.
5) Karl Barth, Dogmatique, vol. 7, Labor et Fides, Ginevra 1957, pp. 1-69.
6) L’originale dice: “Et par le pouvoir d’un mot/Je recommence ma vie/Je suis né pour te connaître/Pour te nommer/Liberté”.