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Franco Garelli "Una liturgia che non parla più?"

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Liturgia del futuro 

Liturgia del futuro? Futuro della liturgia? Due interrogativi interconnessi che trovano senso in quel passato recente che ha visto la riscoperta della liturgia. Perché nel lavoro di riscoperta delle fonti si radica anche la sorprendente scoperta della liturgia come fonte: un obiettivo conciliare ancora mancato! Di fatto possiamo essere anche convinti che la “liturgia” ci doni la grazia, molto ma molto meno che ci induca a cambiare vita! Purtroppo partecipiamo poco da figli di Dio, più da servi spettatori di un "mistero" che pare interessarci limitatamente. La liturgia è un linguaggio comune, di tutti, che abbiamo smarrito ma che dobbiamo urgentemente riapprendere se vogliamo comunità vive e fraterne, popolo sacerdotale che operi la salvezza di Cristo. Servono percorsi di rilettura della tradizione orientandola all’oggi, il superamento di formalismi, la familiarità con i linguaggi rituali e simbolici. 

Liturgia del futuro o futuro della liturgia? In questo interrogativo reverse (caratterizzato dall’inversione dei termini) vi è tutta la preoccupazione degli ambienti ecclesiali per le sorti della partecipazione religiosa dei cattolici italiani, a seguito della drammatica pandemia che ha scombussolato anche a questo livello le nostre vite e i precedenti equilibri. Due anni vissuti a singhiozzo (il 2020 e il 2021), tra un alternarsi di lockdown e sintomi di ripresa, tra un diffuso allarmismo e la voglia di ripartenze, che hanno alterato il campo religioso e le sue normali attività. Lo slogan più ricorrente del periodo è stato quel «nulla sarà come prima» dal sapore “sinistro”, funesto. Che prefigurava un solco incolmabile tra un prima (dove la situazione già non era rosea) e un dopo descritto con quel«sempre peggio» reo di questi tempi d’un abuso ricorrente.
È plausibile etichettare come «sempre peggio» l’attuale stato del-la liturgia cattolica in Italia? Sembra questa una percezione diffusanegli ambienti ecclesiali, all’interno dei quali quando si parla di questi temi si evocano due aspetti diversi: da un lato, appunto, le chiese sempre più vuote, un fenomeno che parte da lontano, ma che si è accentuato nel breve periodo, proprio a seguito del lockdown prolungato; dall’altro, celebrazioni liturgiche che perdono appeal,meno in grado rispetto al passato di coinvolgere le persone, di far vivere loro delle esperienze spirituali significative.
Questa tesi, del resto, fa capolino anche nel tema che mi è stato assegnato da «CredereOggi» che recita: una liturgia che non parla più, in quanto vive una crisi acuta, «emersa con particolare evidenza durante il lockdown», anche se «ha radici ben precedenti».
Davvero la liturgia cattolica è oggi particolarmente afona? Davvero è in forte crisi di partecipazione, nel senso che dopo la pandemia la chiesa non ha più ritrovato il suo popolo?

1. Il trend al ribasso della pratica religiosa

Iniziamo dal discorso della frequenza ai riti religiosi comunitari,sulla quale si sentono le versioni più diverse. Come si sa, i grafici sulla pratica religiosa in Italia sono da alcuni decenni a questa parte rivolti all’ingiù, come rilevato da tutte le indagini demoscopiche che nel tempo si sono occupate di questa dimensione della religiosità. I dati più aggiornati sono quelli offerti dalle rilevazioni Istat (1), svolte ogni anno e che delineano il seguente scenario: negli ultimi vent’anni gli italiani caratterizzati dalla frequenza settimanale di un luogo di culto (per i cattolici la messa domenicale) sono passati dal 36%del 2001 al 19,2% del 2021 (con una diminuzione quindi del 46%dei casi). Per contro, in questo arco di tempo, i «mai praticanti»sono cresciuti dal 16% del 2001 al 32% del 2021 (per cui il loro numero è raddoppiato).
Il trend al ribasso della pratica religiosa è stato perlopiù progressivo, di anno in anno, ad eccezione di quel che è successo nell’ultimo periodo, che è coinciso con l’esplosione del Covid nel nostro paese(e nel mondo intero). Dal 2019 (anno non ancora interessato dalla pandemia) al 2021 (anno perlopiù libero dalle restrizioni del confinamento), i «praticanti regolari» sono passati dal 25% al 19,2%,mentre i «mai praticanti» dal 27% al 32,4%; con uno scarto, quindi, in entrambe le direzioni di circa il 20% dei casi (in negativo peri «praticanti regolari» e in positivo per i «mai praticanti»).

2. Effetto Covid e confronti internazionali

Quali considerazioni si possono trarre da queste indicazioni empiriche?
Anzitutto sembra qui delinearsi una misura dell’effetto Covid-19 sulla pratica religiosa, individuabile nel 20% circa di soggetti che hanno abbandonato o sospeso la pratica religiosa nel breve periodo.
Una seconda considerazione, in termini più generali, riguarda il livello della pratica religiosa in Italia, che risulta ancora “consistente” se la si confronta con quel che accade in altri paesi europei, sia di cultura cattolica che protestante. Ovviamente qui non si tratta di inneggiare al «mal comune è mezzo gaudio», ma solo di constatare che mentre in Italia c’è una pratica religiosa attorno al 20% della popolazione, altrove in Europa (Francia, Germania, Belgio, Olanda) si ha una frequenza settimanale ai riti religiosi comunitari che coinvolge (a seconda dei casi) dal 3% al 7-8% della popolazione.In Norvegia, a fronte del 90% della popolazione che si riconosce nella tradizione luterana, i praticanti regolari non sono più del 3%dei soggetti.
Anche l’Italia, dunque, è alle prese con il fenomeno della disaffezione della gente dai riti religiosi (visto che ancor oggi più del 70%degli italiani dichiara un legame con il cattolicesimo), ma secondo un trend di secolarizzazione meno marcato (o più dolce) di qualche succede altrove.
A fronte di questi dati si può certamente affermare che col passare del tempo la «liturgia» è via via sempre meno in grado di attrarre gli italiani, e tra di essi l’ancor ampio ed eterogeneo insieme dei «cattolici», un trend questo accentuato nell’ultimo periodo dal fattore Covid.
E l’immagine della minore attrazione è quella degli spazi vuoti in chiesa nella maggior parte delle domeniche dell’anno, mentre la presenza cresce nella celebrazione dei riti di passaggio o nelle grandi festività (a Natale, e più ancora nella domenica delle Palme che a Pasqua); o si mantiene elevata nelle manifestazioni della religiosità popolare. 

3. Differenze interne al «mondo cattolico». A chi “parla” la liturgia?

Ma su questo punto occorre introdurre delle distinzioni, in quanto è fuorviante – per la particolare configurazione della presenza cattolica nel nostro paese – parlare di una generalizzata crisi della liturgia nelle condizioni ordinarie dell’esistenza. Ciò in quanto quello che la chiesa continua a considerare il «popolo di Dio» è una realtà assai composita nel nostro paese, è un “ombrello” sotto il quale convivono sensibilità religiose molto diverse tra di loro, che si riflettono anche nella diversa importanza attribuita alla partecipazione ai riti religiosi comunitari. Il «mondo cattolico» italiano– come emerge da tutte le mie indagini (2) – è una categoria astratta,che non ha riscontro nella realtà sociale, perché si compone di una gran varietà di «stili» cattolici.
Semplificando il discorso e guardando ai profili prevalenti, si può affermare che oggi sulla scena cattolica si confrontano due modelli religiosi: da un lato, quello dei cattolici «convinti» e «attivi», un gruppo minoritario che rappresenta lo «zoccolo duro»del cattolicesimo italiano, costituito da soggetti che frequentano con regolarità i rituali religiosi e considerano la fede un principio vitale, alimentano il tessuto di tante parrocchie, comunità e reti di volontariato; dall’altro lato, il modello «religioso» del «cattolicesimo culturale», in cui rientra la maggioranza dei «cattolici» italiani (o degli italiani che si dichiarano cattolici), la cui adesione alla fede cristiana sembra dovuta più a ragioni storico-ambientali (al richiamo della tradizione) che a motivi religiosi o spirituali; orientamento, questo, che si traduce in una pratica religiosa discontinua o vissuta secondo i propri tempi e ritmi.
È solo guardando a queste differenze interne al cattolicesimo italiano (è solo “spacchettando” – per usare un termine non elegante ma efficace – il «mondo cattolico») che pare plausibile porre la questione se oggi si sia di fronte a una crisi della liturgia, magari alimentata di recente dal fattore pandemia. Perché è indubbio che molte liturgie celebrate nelle parrocchie possano essere considerate“insipide’ anche dai fedeli più impegnati; ma è altrettanto evidente che la qualità di un’esperienza religiosa/liturgica dipende anche dalla disposizione interiore di chi vi partecipa (dal significato e dal valore che vengono ad essa attribuiti). Per cui la stessa liturgia ad alcuni “parla”, mentre può lasciare indifferenti altri; per alcuni può essere uno spazio di incontro con Dio, per altri un retaggio della tradizione.
Questo modo differenziato di vedere le cose ci aiuta a comprendere le dinamiche ecclesiali post-Covid. Alla domanda se la chiesa stia ritrovando il suo popolo, non è possibile rispondere in modo uniforme. Le parrocchie e le comunità più feconde e più vivaci dal punto di vista umano e spirituale non sembrano aver patito più di tanto (sia nella presenza liturgica che nelle loro attività formative e sociali) gli effetti negativi del lockdown, per cui hanno perlopiù ritrovato i loro fedeli, magari con la defezione di una quota di anziani; mentre le realtà ecclesiali più composite e tradizionali sono alle prese con un calo sensibile di partecipazione religiosa. Il periodo della pandemia sembra, dunque, aver prodotto un ulteriore “scrollo” dell’albero della fede e della chiesa, che ha interessato soprattutto le persone caratterizzate da un legame religioso più nominale che sostanziale, orientandole verso una presenza ecclesiale più sporadica e occasionale. 

4. La stanchezza della liturgia standard

Molte altre riflessioni si possono fare su questa importante tematica.
Una di queste riguarda la crescente domanda di un liturgia di qualità, che si sta registrando nella cerchia dei credenti più impegnati. È un fenomeno assai interessante, di cui vi sono molte tracce nella recente consultazione di base promossa dalla chiesa italiana nella prima fase del Sinodo nazionale dedicato al valore e al metodo della sinodalità (3).
Tra i nodi ecclesiali da affrontare (emersi dall’«ascolto capillare del popolo di Dio») quello della «revisione del linguaggio e della liturgia» è stato tra i più gettonati, oggetto di molti commenti. Sul banco degli imputati c’è una liturgia «sentita come fredda, astrusa,difficilmente comprensibile», «lontanissima dalla sensibilità culturale odierna», «che sul piano esistenziale nulla dice e nulla evoca»,«incapace di comunicare la bellezza della buona novella», «non in grado di parlare agli uomini e alle donne di oggi, siano essi credenti o non credenti, per non parlare dei giovani e dei bambini»; e ancora,un linguaggio liturgico/ecclesiale «ancorato a vecchie visioni teologiche», un «flusso di parole che non toccano né i cuori né i cervelli»,dove «i simboli diventano puri simulacri», dove «manca l’esperienza del mistero di Dio», con «le omelie che spesso sono piatte e noiose, lontane dai problemi quotidiani, mentre dovrebbero essere fondate su che cosa la Parola dice oggi a noi»; tutte condizioni che «più che avvicinare, possono allontanare le persone dall’esperienza cristiana».
Anche se riferita alla liturgia standard, questa gragnuola di accuse sembra essere un po’ ingenerosa, in quanto frutto di posizioni che forse sottovalutano la difficoltà di far vivere il mistero cri-stiano dentro le condizioni liturgiche ordinarie (come può essere considerata la messa domenicale), anche a fronte di assemblee di fedeli religiosamente assai eterogenee (come si è accennato in precedenza). Inoltre, le riserve di cui sopra rischiano di fare di ogni erba un fascio, in quanto non mancano nella chiesa locale delle parrocchie e comunità ove si vivono delle esperienze liturgiche di buon livello o esemplari; luoghi in cui il raccoglimento, l’invocazione dello Spirito, il discernimento alla luce della Parola, la gioia del ritrovarsi in comunità, la presa in carico delle speranze e delle angosce dell’epoca attuale (4) ... fanno della liturgia un momento umanamente e religiosamente fecondo. Sono queste le comunità ecclesiali che (come s’è detto) meno hanno patito la sospensione delle attività indotta dalla pandemia, ritrovando dunque dopo il lockdown la loro gente.

5. La domanda di una liturgia di qualità

Tornando alle critiche perlopiù applicabili a una situazione liturgica media che non brilla per particolari virtù, esse ci dicono quanto stia diventando esigente sulla questione della liturgia il gruppo dei fedeli più vicino agli ambienti ecclesiali, che chiede in questo campo un deciso cambio di passo alla chiesa; magari per il fatto che la partecipazione ai riti religiosi comunitari è ormai percepita dalla maggior parte dei fedeli più come una scelta volontaria che come un obbligo o un precetto, per cui occorre qualificare verso l’alto una prassi che deve nutrire la vita più che riprodurre una consuetudine. 
Tuttavia, su questo aspetto vorrei spezzare una lancia a favore di quei cattolici «culturali» a cui si guarda sovente con sufficienza negli ambienti ecclesiali, pensando che il loro sia un legame religioso ormai del tutto marginale o “decaduto”. In questo gruppo vi è certamente una quota di soggetti più propensi a una pratica religiosa una tantum, per mantenere un qualche legame religioso col buon Dio perché non si sa mai. Ma altri non sono di per sé insensibili al richiamo di una liturgia di qualità, ricca di riflessioni spirituali, che introduce alle cose che contano, capace di evocare grandi orizzonti. Ciò in quanto, come emerge da molte indicazioni empiriche, la domanda di senso non ha confini, è diffusa o latente anche tra i soggetti che per varie ragioni si collocano ai margini di una vita di fede, o perché non sono mai stati attratti da una prospettiva religiosa o perché hanno alle spalle una socializzazione religiosa interrotta per i motivi più diversi.
Una domanda di senso che può attivarsi in particolari circostanze personali o ambientali, quando queste persone si affacciano a un rito religioso che le coinvolge affettivamente, vengono colpite da una testimonianza di fede, sperimentano la vivacità e il calore di una comunità credente, scoprono un ambiente religioso più accogliente che giudicante... tutti aspetti che interpellano nel profondo e possono far passare in secondo piano quel contenzioso personale che sovente tiene lontani i soggetti da un’esperienza di fede e di chiesa.

6. Le comunità o le parrocchie di «elezione»

In parallelo a quanto qui detto, c’è un altro fenomeno che conferma la tesi del diffondersi nel nostro paese della domanda di una liturgia di qualità: l’appeal oggi esercitato (presso pubblici selezionati, ma non solo su di essi) dalle cosiddette «parrocchie di elezione»,da luoghi o comunità perlopiù incentrate – anche a livello liturgico– su esperienze religiose arricchenti e significative.
Si tratta di un fenomeno (le «parrocchie di elezione») che non nasce oggi, già presente ben prima della pandemia e descritto nella mia ultima ricerca sulla religiosità degli italiani (5); ma che deve la sua espansione alle dinamiche che si sono innescate durante il lockdown.
Un periodo in cui molti credenti/cattolici impegnati, attraverso la pratica dello zapping spirituale, hanno ampliato i loro orizzonti,sono entrati in contatto con le realtà religiose più diverse, maturando nuovi punti di riferimento, scoprendo la varietà dell’espressione religiosa sia dentro che fuori dal proprio mondo.
È a fronte di queste esperienze che un buon numero di persone si è orientato a vivere in modo più flessibile la propria presenza e appartenenza ecclesiale. Di qui la propensione – tra i fedeli più convinti e attivi – a convergere più in una «parrocchia di elezione» che a riconoscersi nella parrocchia territoriale, in linea con quella mobilità geografica che può manifestarsi anche in campo religioso.
O meglio, si valorizza – pure a livello liturgico – la parrocchia del luogo di residenza se essa è ricca di stimoli, se risponde ai criteri della rilevanza umana e spirituale; altrimenti ci si rapporta ad essa per le esigenze ordinarie, aprendosi ad altre appartenenze per un maggior nutrimento spirituale.
Dietro questa propensione non c’è tanto la ricerca di una chiesa o di preti più accomodanti, quanto la voglia di un cristianesimo più connesso alle attuali condizioni di vita, più in grado di rapportarsi alla coscienza moderna. 

1 Cf. l’indagine multiscopo dell’Istat (Istituto Nazionale di Statistica) viene svolta su un campione assai ampio e rappresentativo della popolazione italiana (25 mila famiglie e 45 mila individui residenti), ed è prevista anche una domanda sulla frequenza con cui le persone si recano in chiesa o in altro luogo di culto. L’ultimo anno rilevato è il 2021. Dagli archivi Istat (cf. https://www.istat.it/it/informazioni-e-servizi/per-gli-utenti/archivio-storico), si può ricostruire il trend di questa partecipazione negli ultimi vent’anni, dal 2001 sino appunto al 2021. Si è in attesa del dato del 2022. 

2 Cf. F. Garelli, Religione all’italiana. L’anima del Paese messa a nudo, Il Mulino, Bologna, 2011; Id, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Il Mulino, Bologna, 2006. 

3 Cf. il sito https://camminosinodale.chiesacattolica.it/ (11.4.2023). 

4 Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 1. 

5 Cf. F. Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso in un’Italia incerta di Dio, Il Mulino, Bologna 2020. 


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