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Brunetto Salvarani "Ripensare Dio nel tempo del pluralismo religioso"

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Rocca n° 15 del 1 agosto 2023

Non è un caso che stiano comparendo sul mercato editoriale diversi libri su Dio (l’ultimo che ho letto, molto volentieri, è quello del pastore Paolo Ricca Dio. Apologia, uscito l’anno scorso da Claudiana). A confermare che l’attuale crisi acuta delle chiese non è che riflesso e conseguenza diretta della crisi dell’immagine di Dio, sia dell’immagine del Dio della tradizione giudaico-cristiana sia dell’immaginario collegato. Per una cifra consistente, oltre che crescente, di nostri contemporanei, in effetti, l’immagine di Dio è passata da familiare e prossima a reliquia del passato, estranea alla cultura moderna, nebulosa, e in molti casi impersonale e apatica.


Dio nel post-moderno


L’idea tradizionale di Dio espressa dal mondo occidentale, in sintesi, è quella di un Essere che risiede in cielo (Padre Nostro che sei nei cieli), dato che il cielo è sempre stato considerato il luogo cosmologico più adeguato ad esprimere la sua sovranità, inaccessibile ai più. Dio? Un essere onnipotente, creatore del cielo e della terra, e così via. Ora, la post-modernità non intende direttamente mettere in dubbio l’esistenza di Dio, quanto discutere delle sue qualità.

Il Dio post-moderno, non più onnipotente, privato della sua interpretazione metafisica ed esposto al linguaggio apofatico, fugge da ogni concettualizzazione. Se la teologia scolastica ha sviluppato la via positiva analogica che le ha permesso di affermare qualcosa a proposito di Dio alla luce sia della rivelazione sia della ragione naturale, aveva anche pensato la via negativa apofatica per ricordare che tutte le definizioni non dicono interamente il Mistero. Tuttavia, tale difficile equilibrio non resiste all’imperialismo della ragione moderna, che vuole comprendere tutto. Così, il post-moderno sceglie, in reazione a quella, l’apofatismo per poter pensare il reale senza esaurirne il mistero. Concettualizzare Dio rischia di trasportare nel linguaggio la nostra idea metafisica dell’intelligibilità cosmica (è l’idea di Jacques Derrida in Psyché). Altri autori, invece, sostengono che l’idea del Dio detto nella filosofia dell’essere è un linguaggio idolatrico, nel senso che imprigiona il Totalmente Altro nell’essere, definendolo e quasi misurandolo. Occorre, semmai, il linguaggio iconico che svela e al tempo stesso vela il Mistero, che dice, ma anche non dice, la differenza del Totalmente Altro. Così Jean-Luc Marion, in Dio senza essere, opta per la via mistica e  la decostruzione di ogni concettualizzazione di Dio.

Altra caratteristica dell’idea di Dio nel post-moderno è quella di promuovere il sentimento umano come luogo di incontro col divino. Si vuole non tanto conoscere Dio, quanto sentirlo. Questo spiega, ad esempio, il fenomeno carismatico e pentecostale, così diffuso dentro e fuori le chiese, che privilegia non la comunità o la religione istituzionale, ma il sentimento privato, l’emozione personale, il vissuto intimo e caldo. Tale tipo di teologia post-moderna è talora descritto, come fa Salvatore Natoli ne La salvezza senza fede, quale ripresa della visione e dell’etica pagana che, preoccupata di sentire la presenza divina come sentimento che ispira allegria e bellezza, accetta la contingenza come realtà ultima.
Con tali categorie il dialogo con i mondi religiosi altri, ad esempio con le tradizioni orientali, sembrerebbe più agevole.

Ri-pensare l’uomo 


Assumere responsabilmente il segno dei tempi rappresentato dalla cultura post-moderna obbliga, altresì, a un ripensamento antropologico. L’uomo che era, nella teologia cristiana, pensato al centro dell’universo, apice della creazione per il linguaggio conciliare (Gaudium et spes n.12), subisce ora il disincanto del mondo (M. Gauchet) e la sua umanità non è più riferita al Dio creatore, ma alla propria identità e realtà che lo circonda. Questa è la solitudine post-moderna (Z.Bauman). La sacralità e la centralità dell’umano passano oggi al biologico. Il pensiero olistico ed ecologico, ad esempio, ritiene che la razionalità non rappresenti più lo specifico umano e ciò che lo distingue dal mondo animale, poiché l’essere umano è un animale tra i tanti, senza particolari differenze qualitative. Così la libertà umana, al cuore della riflessione dell’antropologia teologica tradizionale, in tempi post-moderni è riletta a partire da forze e spinte che se non la negano, certo la determinano. Smette di essere assoluta: l’identità umana è rimessa in discussione. 

La centralità dello spirituale, dello psichico, dell’intellettivo sostenuta dal pensiero moderno è relativizzata, e apertamente criticata, dalla centralità post-moderna che privilegia il mondano, il carnale, il somatico. Peraltro, questa de-centralizzazione può aiutare la teologia a riscoprire degli aspetti biblici, come l’importanza del corpo e delle cose, che una filosofia greca di stampo neoplatonico, sposata dal pensiero teologico classico, impediva di valorizzare. Tale modo di pensare l’umano richiede alle religioni in dialogo di adottare un linguaggio aperto, simbolico, iconico, capace di dire l’inedito dell’uomo e del suo mistero. Alle religioni che assumono come caso serio il post-moderno è consegnato un compito umanizzante. Certo, le tradizioni abramitiche vantano, al proposito, un patrimonio comune. Ma tali esperienze religiose possono impegnarsi a rendere umano l’umano solo se scelgono il dialogo e il confronto, dal momento che, come per il divino, anche l’umano è un mistero troppo grande per capirlo da soli.


Ri-pensare il mondo


Infine, la post-modernità impone di ri-pensare anche il mondo. Oltre al livello teologico e a quello antropologico, l’epoca attuale ha l’urgenza di rivedere la cosmologia. Il mondo misurato e a servizio della tecnica ha smarrito il suo mistero, e non appare più la patria dell’essere umano, perché il successo economico non elimina la ricerca di senso da parte dell’uomo. E se la techne al servizio dell’economia garantisce il primo (anche se la crisi finanziaria globale sembra smentire tante sicurezze), non è capace di rispondere al secondo. Una volta abolita la religione come integratore di senso, tocca al singolo individuo cimentarsi nel fare sintesi; ma sono soluzioni biografiche, dicono i sociologi, a problemi strutturali. Fragili, dunque. Un nomadismo etico e una pluralità di sistemi di significati non sono solo virtù, quasi ad allargare le proposte di senso, ma appaiono, in tempi post-moderni, come reali necessità. Il rilevante contributo che questo nuovo discorso sul mondo, purificato dei suoi aspetti problematici, può dare alla teologia all’altezza dei tempi che viviamo è  di dare legittimità alla dimensione estetica e simbolica, di dimostrare che non si agisce solo in nome della verità o a causa dell’urgenza dell’azione etica, ma che si può prendere la parola e agire anche per le piccole narrazioni che fanno parte del nostro stare bene con il mondo e la vita in esso. Qui c’è posto per il dialogo e l’incontro con le tante narrazioni religiose, comprese quelle di tipo tradizionale, che abitano il mondo e da sempre lo descrivono.


Una grammatica della diversità


A rompere il circolo mimetico e violento della società attuale, può inoltre contribuire una riflessione teologica che pensa a partire dalla forza della debolezza. Il perdono al posto della vendetta aiuta a vivere la relazione non nello spirito di rivalità risentita, ma in quello della relazione dentro la differenza.  

La religione e la riflessione su di essa in tempi post-moderni, oltre al carattere critico e decostruttivo, portano in dote anche una grammatica della diversità. Liberata dalla tentazione sacrificale della modernità, in cui la competizione, la rivalità, il risentimento sono i tratti dominanti, la teologia post-moderna vive una grammatica escatologica che apre al dialogo. A partire, cioè, da una nuova intelligenza sulla realtà che lo sguardo della vittima, libera dal rancore e disposta al perdono, offre. Il Regno di cui parla tale teologia, allora, è una realtà dinamica, capace di accogliere anche altre utopie come il paradiso musulmano o il nirvana buddhista. Il futuro sognato dalla vittima è un desiderio liberato dal mimetismo, spazio simbolico e insieme reale da vivere non contro l’altro, ma insieme all’altro; e il perdono cui la vittima perdonante richiama apre un presente nuovo, dove l’ideologia del nemico, dell’infedele, dell’eretico non può essere coltivata o alimentata.
Davanti al mondo così com’è s’inaugura la possibilità di vivere relazioni gratuite: e il mondo fratricida può essere luogo di compassione. La riflessione sulla fede in tempi post-moderni, così, è fides quaerens gratuitatem, fede che cerca la gratuità. La diversità è accolta non solo come esigenza etica, ma anche come imperativo teologico: vedere la realtà a partire dall’altra storia, quella delle vittime. La teologia del dialogo in epoca post-moderna, perciò, è una diversità trascendente: non si tratta solo di una politica attenta alle minoranze, ma di uno sguardo diverso sulla realtà. Qui il carattere teologico della diversità.
Siamo di fronte, cioè, ad un’intelligenza teologica del reale che sa vedere l’immanenza come via alla trascendenza, ricordano i padri: gloria Dei vivens homo (Ireneo di Lione). Qui le religioni concordano e il dialogo che ne esce produce una diversa interpretazione del reale. Ciò non significa che la teologia post-moderna del dialogo non sappia riconoscere il carattere conflittuale della società in cui vive. Tra la rivalità narcisistica che sembra presiedere i rapporti e piccole esperienze etiche in cui riconoscere l’altro non più come rivale, ma come compagno di viaggio, la teologia del dialogo s’impegna a costruire, già qui, una comunità non dominata dal risentimento, dove la differenza abbia spazio. Le identità mimetiche e reattive possono divenire identità plurali e ospitali. La categoria fondamentale di tale teologia del dialogo, allora, è quella della gratuità-ospitalità.

Gratuità e ospitalità


Fra le motivazioni delle prospettive suggerite c’è la necessità di lasciarsi interrogare a fondo dalla complessità dell’oggi, dalla condizione permanente di esodo esistenziale provocata dalla precarietà del vivere in tempi di crisi, dalla consapevolezza dell’urgenza della sfida della coabitazione. Assumere la gratuità e l’ospitalità come categorie fondanti presuppone infatti il ripensare e praticare in altro modo il dialogo interreligioso e intra-religioso. Al centro di esso non risiedono più i sistemi dogmatici, preoccupati di dare credibilità alla fede, come non si trovano gli impianti ecclesiologici, le realtà istituzionali anch’esse tese a giustificare la propria credibilità davanti al mondo. Questi sono temi secondi. Il dialogo, invece, si fa autentico quando mette al centro la grammatica sulla gratuità come senso ultimo della realtà. L’illuminazione buddhista, la misericordia musulmana, l’agape cristiana, l’ospitalità ebraica sono esperienze gratuite, in grado di dire la trascendenza dentro l’immanenza non a partire da una grammatica razionale, ma dal principio gratuità. La logica della vita donata, irrazionale e immorale per la visione dominante, presiede l’intelligenza sul reale delle diverse religioni. Qui il dialogo acquista fondamento. Non solo una vita donata, ma anche una vita perdonata: un nuovo dono, quello di una relazione che non si chiude nel risentimento. E il perdono è parola religiosa per eccellenza; appartiene, pur se spesso tradita, al linguaggio delle religioni. Infine, lo sguardo della gratuità, tra dono e perdono, offre anche un nuovo modo di stare nel fallimento, nella crisi: l’avvenire è una promessa divina, dicono le religioni abramitiche, ma tutto è impermanente e quindi passa, ripetono le spiritualità orientali. Così, la teologia post-moderna è dialogica perché narra la trascendenza a partire dall’esperienza della gratuità e dell’ospitalità. Se ospitata, la persona umana può imparare che l’altro-nemico diviene, invece, fratello, e che più della reciprocità (do ut des) valgono la gratuità e il disinteresse per vivere nuove relazioni.










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