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Chiara Giaccardi «Un dialogo che va ricucito»

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L'osservatore romano 1 luglio 2023 inserto Donne Chiesa Mondo

Viviamo in un mondo entropico. Il disordine cresce, la frammentazione anche. La perdita di varietà investe ogni ambito, da quello biologico a quello dell’opinione pubblica. Tutto si slega, ma non siamo più nella società liquida: la digitalizzazione sta riorganizzando il sociale in maniera sempre più verticistica, attraverso procedure rigide e forme pervasive di influenza e controllo.

Il Metaverso assorbirà il mondo, senza più un fuori? Siamo destinati a un universo di segni funzionali, e a quella che grandi interpreti della contemporaneità hanno chiamato «miseria simbolica»?

L’immanenza non ci rende più liberi, anzi! Perdere la dimensione del sacro, della trascendenza, del mistero ci impoverisce inesorabilmente. Sacro viene da sacer, che significa separato. E il luogo del sacro è il Templum, da temno, che significa ritagliare, segnare una discontinuità. Il grande antropologo Mircea Eliade riconosceva la reciprocità dei termini sacro/profano, che si definiscono l’uno in relazione all’altro; dove il profano è il pro-fanum, ciò che sta davanti al tempio. Non dualismo e contrapposizione, dunque, ma relazione originaria.

Tra i due spazi c’è una soglia, un limen, un passaggio che separa e insieme mette in comunicazione il dentro e il fuori: il portale, come ci ricorda la bellissima analisi di Romano Guardini sullo spirito della liturgia e i sacri segni. Oltrepassare la soglia significa abbandonare l'ordinario, cambiare atteggiamento, abbigliamento; raccogliersi. Passare dalla concentrazione su di sé alla ricettività. Predisporsi a una comunione basata sul con-venire attorno a una mensa comune. Dove, per dirla con Pessoa, «la terra è impastata di cielo». Il tempio ha infatti un “occhio”: l’oculus, l’apertura circolare che si trova alla sommità della cupola per far entrare la luce, ma soprattutto per mettere in comunicazione con l’esterno “verticale”. Uno spazio, ma anche un tempo altro. Lo psicanalista Jung sottolineava l’ordine extratemporale della messa, uno «squarciarsi del velo della relatività temporale e spaziale che separa lo spirito umano dalla visione dell'eterno». Un tempo discontinuo indicato anche dalla solennità dei gesti, dalla lentezza che rompe la frenesia, dalle pause che mettono a distanza il rumore della vita. Entrare nello spazio sacro, convergere attorno a un centro comune, stare in comunione orizzontale e verticale sono passi di un processo trasformativo, che risignifica la quotidianità una volta che si ritorna all’ordinario. Nella liturgia la corporeità ha un ruolo centrale, e il corpo è coinvolto in ogni sua dimensione: percettiva, posturale, motoria. «L’uomo che prega è un albero di gesti», scriveva Michel De Certeau. La vista, l’olfatto con gli incensi, l’udito con la voce, il canto, i campanelli, il gusto del pane e del vino… tutte le nostre finestre percettive sono risvegliate, sollecitate, invitate. Ci inginocchiamo, ci alziamo, ci diamo la mano, percorriamo la navata per portare i doni (gesto che in molte culture ha le movenze e il ritmo di una danza) e per ricevere l’eucarestia. In sintonia con l’incarnazione, il corpo è al centro, e il corpo significa l’essere umano tutto intero. Un corpo che non ha bisogno di protesi tecnologiche per entrare in comunione. La liturgia rinsalda il legame. Come scrive Romano Guardini «L'io della liturgia è l'unione della comunità credente, è qualcosa che trascende la semplice somma del singoli credenti». In un tempo di individualismo estremo, che sta mostrando tutto il suo lato problematico, «la liturgia non dice io, dice noi». Liturgia significa letteralmente azione di popolo. Ma la liturgia, così come la viviamo oggi, è ancora capace di esprimerla? E per tornare alle domande iniziali, non sarebbe la liturgia, con il suo linguaggio simbolico e la concretezza del convenire, del riconoscersi, dell’aprirsi alla trascendenza un luogo di ricomposizione, di contrasto alla miseria simbolica, di libertà dalle pressioni di un sistema tecnoeconomico sempre più pervasivo e potente?

Quello della liturgia è un linguaggio concreto, che restituisce carne all’astrazione delle nostre vite sempre più digitalizzate; ed è un linguaggio corale, una esperienza di comunione in un mondo sempre più individualizzato. Forse anche per questo imparare da epoche e culture altre può essere di aiuto oggi.

Il simbolo, il corpo, la comunità. Il nostro tempo ha bisogno di questo linguaggio, di questo tempo e spazio altro, di una discontinuità che paradossalmente aiuta a rilegare i pezzi delle nostre esistenze. Ma oggi la liturgia fatica a svolgere questo ruolo, più prezioso che mai. E anche questo, insieme ad altri, è un motivo delle chiese vuote. Liturgie poco sentite e poco curate, e soprattutto poca cura dei simboli e troppo intellettualismo, scambiato per spiritualità. Uno sguardo femminile sulla liturgia oggi può essere prezioso per de-intellettualizzarla. Come scrive ancora Guardini «spirito non è concettuale, astrazione. Spirituale è concreto».

Le donne sono concrete, nel senso più alto del termine. Forse per questo la liturgia fatica a parlare loro, ma il dialogo va ricucito, per ridare concretezza allo spirito.

Un paradosso che dice la verità eccedente della via cristiana. Una via che, se recupera la freschezza delle origini, ha tanto da dire a questo tempo: «In un mondo sempre più astratto, il cattolico sta dalla parte della concretezza della vita umana fatta di gioie e dolori, successi e fallimenti, vittorie e sconfitte, di forza e debolezza, centralità e marginalità, vita e morte» (Guardini).



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