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Brunetto Salvarani "La shoà, spartiacque tra cristiani ed ebrei"

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Rocca n° 13 del 1 luglio 2023

Dopo che i forni crematori di Auschwitz ebbero finito di fumare, dopo che l’ebraismo, contrariamente alle aspettative di molti, ebbe di nuovo messo radice in Israele, dopo che molti si resero conto della corresponsabilità cristiana per lo sterminio in massa degli ebrei nella seconda guerra mondiale e dopo che la situazione del Medio Oriente si rivelò estremamente pericolosa per la pace mondiale, ebrei e cristiani hanno finalmente – purtroppo con notevole ritardo – intavolato un dialogo e messo mano a nuove riflessioni dall’una e dall’altra parte su vasta scala...»: lucida e condivisibile, la lettura offerta da Clemens Thoma sul fatto che al cuore del nuovo atteggiamento cristiano nei confronti di Israele – di cui il Poliedro si è occupato a più riprese – stia l’evento drammatico della Shoà. Ciò che un pensatore ebreo ortodosso come Eliezer Berkovits, già nel 1979, nel volume With God in Hell si era spinto apertamente a definire la «bancarotta morale e spirituale della civiltà e della religione cristiane». Del resto, è opinione incontestata che, dietro la svolta vistosa operata dalle chiese cristiane nella loro visione del popolo ebraico, l’autentico e traumatico spartiacque sia rappresentato dallo sterminio nazista: e che Auschwitz svolga dunque, come ha ben colto Franz Mussner, «una funzione ermeneutica», perché il mutamento di idee implica sempre una nuova comprensione. E come conferma, autorevolmente, il cardinale Walter Kasper: «Paradossalmente i primi avvicinamenti risalgono ai campi di concentramento nazisti, dove ebrei e cristiani impegnati si trovarono accomunati nella resistenza contro un sistema totalitario neopagano spregiatore dell’umanità, scoprendo così la loro comune eredità e le loro comuni concezioni dei valori umani». 
Affermazioni che vanno accompagnate, peraltro, a quella che pone l’accento sulla complessità di una rielaborazione soddisfacente di quanto sia centrale lo scenario del dopo Auschwitz, tanto sul piano teologico quanto su quello della ricezione da parte del magistero cattolico. 

riumanizzare Gesù 

Già lo stesso cardinal Bea – l’architetto della dichiarazione Nostra aetate – l’aveva ammesso, durante il dibattito conciliare, inserendo la prospettiva della Shoà fra le ragioni impellenti che imponevano finalmente uno sguardo nuovo da parte dei cristiani: «Il bimillenario problema, vecchio quanto il cristianesimo stesso, delle relazioni della Chiesa col popolo ebraico, è stato reso più acuto, e si è quindi imposto all’attenzione del concilio ecumenico Vaticano II, soprattutto per lo spaventoso sterminio di milioni di ebrei da parte del regime nazista in Germania». Mentre il neotestamentarista ebreo Pinchas Lapide coglieva uno stretto collegamento fra la riscoperta ebraica della figura di Gesù – di cui si è già detto in questa rubrica – e l’esperienza della Shoà: «Solo dopo Auschwitz, da parte dei cristiani si torna, per così dire, a riumanizzare Gesù, e precisamente spostando l’accento sul vere homo, sull’uomo vero, in un’epoca nella quale così pochi bipedi sono uomini veri; Gesù diventa così un uomo ideale. E presso gli ebrei egli ora esce dall’inferno della polemica, che ha caratterizzato l’intero medioevo, per fare ritorno all’ebraismo della sua patria. Il fratello Gesù viene finalmente riportato a casa sua come compagno, come connazionale e consanguineo – tutte operazioni queste che non è difficile ricavare dalla lettura dei vangeli –, anzi perfino come sionista e compagno di lotta». Toni accorati, da parte di questo coraggioso autore, che segnalano in ogni caso un cambio di registro rispetto al passato, almeno da parte di alcune élites ebraiche. 
In realtà, va detto con la dovuta parresìa che, nonostante le ripetute condanne dell’antisemitismo dopo la fine della seconda guerra mondiale da parte di vari organismi e assemblee ecclesiali, studiando bene simili documenti, la presa di coscienza dei cristiani si presentò all’inizio ancora piuttosto superficiale, e non produsse una riflessione davvero approfondita sulle loro responsabilità vicine e remote nel tempo. Mentre appare indicativo il fatto che nella Confessione delle nostre colpe dell’ottobre 1945, votata dal Consiglio delle Chiese evangeliche a Stoccarda, non ci sia neppure un accenno alla tragedia degli ebrei. Sarà solo con il trascorrere degli anni che, seppure lentamente, la coscienza cristiana procederà nella consapevolezza della centralità strategica del fare memoria affinché non abbia mai più a rinnovarsi un dramma simile; ma soprattutto della necessità del riconoscimento delle colpe, anche dei cristiani e del loro antigiudaismo costitutivo, al riguardo. Fino al documento stilato dalla Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo intitolato Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoà, del 1998, significativamente preceduto da una lettera dello stesso Giovanni Paolo II al presidente di quell’organismo, cardinal Edward Cassidy, in cui riconosceva che «il crimine che è diventato noto come la Shoà rimane un’indicibile macchia nella storia del secolo che si sta concludendo». Auspicando caldamente, nel contempo, che questo testo – non a caso chiuso dopo un’incubazione particolarmente lunga e sofferta – «aiuti a guarire le ferite delle incomprensioni e ingiustizie del passato». Nel capitolo V, il documento si sofferma sull’impegno vincolante a una propria teshuvà (pentimento) da parte della chiesa cattolica, che condivide «sia i peccati sia i meriti di tutti i suoi figli»: «Ricordare questo terribile dramma significa prendere piena coscienza del salutare monito che esso comporta: ai semi infetti dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo non si deve mai più consentire di mettere radice nel cuore dell’uomo». Noi ricordiamo rappresenta dunque un passo notevole, ma – a ben vedere – ancora venato di ambiguità, stando alla puntuale analisi offerta in proposito da Stefano Levi Della Torre nel 2000 in un volume dal titolo Errare e perseverare, in particolare riguardo alle colpe della Chiesa in quanto tale (e non solo di alcuni dei suoi figli, come sostiene il documento vaticano). 

il dovere di ricordare 

Renzo Fabris sottolinea come una simile, orrenda esperienza abbia impresso durevolmente nell’animo ebraico i tratti del dolore, della solitudine e della morte. Le testimonianze sulla Shoà, del resto, sono offerte dagli ebrei all’umanità più perché non si dimentichi quanto è accaduto, che perché si leggano in un modo preciso quei terribili fatti: «Per un ebreo che ascolta la voce imperativa di Auschwitz – l’autore nell’occasione si rifà al pensiero del rabbino Emil L. Fackenheim – il dovere di ricordare e di raccontare non è negoziabile. È sacro… ma la teologia ebraica continua a non sapere rispondere ad Auschwitz». All’interno della riflessione ebraica, in genere, si possono infatti appena cogliere dei frammenti, delle intuizioni isolate: perché di fronte alla nudità terribile di fatti quali quelli avvenuti in occasione della Shoà non contano le spiegazioni tradizionali che ricorrevano in qualche modo a Dio, mediante i concetti di peccato, espiazione, martirio, e così via. In particolare, risulta evidente l’insofferenza ebraica per qualsiasi argomentazione tradizionale su quanto accadde ad Auschwitz: basterebbe ricordare la posizione di Elie Wiesel – sopravvissuto al lager, scrittore e premio Nobel per la pace – quando nel Processo di Shamgorod suggerisce che solo Satana può pretendere di spiegare lo sterminio nel processo che i sopravvissuti intentano contro Dio, imputandogli la colpa di avere abbandonato il proprio popolo. Ecco allora la domanda fatidica: quale Dio ha potuto far sì che accadesse Auschwitz? E che senso ha oggi, dopo Auschwitz, parlare di Dio? Il filosofo ebreo Hans Jonas ritiene che, di fronte alla Shoà, per l’ebreo è possibile ammettere la comprensibilità e la bontà di Dio – che sono due dei suoi attributi biblici fondamentali – soltanto al prezzo di fare a meno dell’onnipotenza divina. Jonas ricorre ai concetti del Dio sofferente, del Dio diveniente, del Dio che si prende cura, ma avverte che il suo non è che un balbettio. 
Il suo saggio si conclude, esemplarmente, con la seguente considerazione: «Dopo essersi affidato interamente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora chi deve dare è l’uomo. E l’uomo può dare nella misura in cui non faccia sì che, per il suo comportamento o per sua colpa, Dio si penta di avere tollerato il divenire del mondo ». 
Tale forza provocatoria raggiunge, o dovrebbe raggiungere, anche il cristiano. Che è messo in questione in primo luogo dal problema della responsabilità delle chiese, perché non c’è dubbio che Auschwitz non sarebbe accaduto se non ci fossero stati i secoli precedenti dell’antigiudaismo cristiano; e poi, perciò, dalla necessità di chiedere perdono a Israele (penso alla preghiera di perdono di papa Wojtyla durante l’Anno Santo del 2000), e ancora, di convertirsi a Dio. C’è quindi la questione, per il cristiano, di realizzare una figura di cristianesimo che – dopo la Shoà – gli è concessa, in qualche modo imposta: «Di fronte ad Auschwitz – afferma con forza il teologo Johann Baptist Metz – non è in gioco semplicemente una revisione della teologia cristiana dell’ebraismo, ma una revisione della teologia cristiana come tale». 

Dio dopo Auschwitz 

«In qualità di storica è piuttosto facile per me descrivere Auschwitz, raccontare come si è svolto il genocidio degli ebrei. A un certo punto ci si scontra, però, con un nocciolo assolutamente incomprensibile e quindi inspiegabile: perché i nazisti decisero di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra? Perché spesero tanta energia per andare a scovare vecchi e bambini ai quattro angoli dell’Europa che occupavano – da Amsterdam a Bordeaux, da Varsavia a Salonicco – soltanto per sterminarli?». A tali domande intendeva rispondere la storica francese Annette Wievorka, che dirige il Centro nazionale per la ricerca scientifica alla Sorbona di Parigi e ha all’attivo numerosi volumi sulla Shoà, nel fortunato Auschwitz spiegato a mia figlia. Domande che però, nell’arco di un periodo non troppo ampio, rischiano di apparire superate. 
Non per la loro ovvietà, bensì perché il progressivo venir meno dei testimoni diretti di quel dramma indicibile potrebbe favorire le ragioni – per dir così – dei negazionisti, di chi sostiene che la Shoà non avvenne, o almeno non con le proporzioni immani che purtroppo conosciamo bene. 
Mentre invece, in realtà, lo sterminio di un terzo della popolazione ebraica nel mondo, la brusca fine della felice simbiosi tra cultura tedesca ed ebraismo illuminato (che, com’è noto, aveva prodotto esperienze intellettuali straordinarie, da Buber a Scholem), la distruzione del microcosmo yiddish nell’Europa dell’est hanno avuto un impatto profondo e permanente nella coscienza religiosa e politica ebraica. 
La complessità dei problemi che la lettura di tale evento ha causato, non solo all’ebraismo, è davvero inimmaginabile. Lo testimonia persino la questione relativa alla modalità più corretta per nominarlo, di cui si è dibattuto a lungo (ed è appena il caso di rammentare la densità simbolica del nome nella tradizione biblica). Se il termine ebraico Shoà – disastro, catastrofe – nell’ultimo quarto di secolo si è ormai imposto su scala europea, nell’universo anglosassone si ricorre ancora a Holocaust: parola venata di ambiguità perché rischia di collegare l’accaduto a una sorta di sacrificio rituale. Mentre in ambito ortodosso ebraico (haredim, chassidim) si preferisce parlare di khurbn, adottando dallo yiddish un lemma a metà fra distruzione totale e sacrificio, e alludendo anche ad altre catastrofi della propria storia, dalle varie distruzioni del tempio di Gerusalemme alla cacciata dalla Spagna del 1492 e ai massacri per mano cosacca del 1648. In ogni caso, c’è consenso generale sul fatto che la Shoà, per gli obiettivi di sterminio e le modalità tecnico- burocratiche della sua attuazione, rappresenti un unicum nella vicenda umana; e come tale è stata elaborata da teologi e filosofi, non solo ebrei. Ma l’interrogativo chiave, sul versante di Israele, resta se la Shoà costituisca un nuovo paradigma nella storia e nella memoria ebraiche, a partire dal quale sarebbe necessario ripensare la presenza ebraica nel mondo, il suo rapporto con le nazioni e persino quello con Dio. 
Riprendendo Jonas e il suo Il concetto di Dio dopo Auschwitz: «Per il cristiano, che attende la vera salvezza dall’al di là, questo mondo (e in particolare il mondo umano, colpito dal peccato originale) appartiene comunque al diavolo e va considerato con sfiducia. Per l’ebreo, invece, che vede nell’al di qua il luogo della creazione divina, della giustizia e della salvezza, Dio è soprattutto il Signore della storia: per il credente Auschwitz rende quindi problematico lo stesso concetto di Dio trasmesso dalla Rivelazione ». E ancora: «Nulla (dell’antica tradizione ebraica) può essere di una qualche utilità per comprendere l’evento che ha nome Auschwitz. Non vi è più posto per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa o pena, o per termini come testimonianza, prova, e speranza di salvezza e neppure per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione. Di tutto ciò non sapeva nulla Auschwitz che divorò bambini che non possedevano ancora l’uso della parola e ai quali questa opportunità non fu neppure concessa...». 

una preghiera sputata a terra 

Chiudo con un autore della nostra letteratura, lo scrittore ebreo torinese Primo Levi, che a partire dall’esperienza-limite di Auschwitz, trovava conferma dell’impronunciabilità del nome di Dio, appeso alla forca – l’angelo dagli occhi tristi de La notte di Wiesel – ma anche, in parallelo, l’assoluta necessità, per una coscienza coerente, di accettare umilmente le radici del popolo che Dio si era scelto: con estrema laicità, e utilizzando quale testimonianza unica lo strumento così laico del narrare storie. 
Quel Dio che, come fece notare in una pagina famosa di Se questo un uomo, sputerebbe a terra la preghiera del pio ebreo Kuhn, che nel lager – al termine di una selezione di prigionieri destinati alla camera a gas – lo aveva pregato ad alta voce, ringraziandolo di non essere stato sommerso nell’occasione ma dimenticando troppo in fretta l’abominio che pure era stato compiuto. Sia pure di riflesso, anche la sua, come quella di ogni ebreo moderno, era destinata a essere, irrimediabilmente, una «vita spezzata» (H. Arendt).










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