Severino Dianich “Il Vangelo: una notizia o una nozione?”
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Previsione fantascientifica. Ma non poi tanto. Che, da un certo giorno in poi, nessun cristiano manifesti ad altri la sua fede, né padre o madre insegni a un bambino a fare il segno della croce. Accadesse, nell’arco di due o tre generazioni, la Chiesa scomparirebbe dalla faccia della terra.
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Le notizie sono notizie in quanto chi viene a conoscenza di qualcosa che altri non sanno, lo riferisce a tutti. Le notizie si comunicano a chi non sa nulla di un certo importante evento. O, eventualmente, a chi, pur avendolo conosciuto, ne ha sottovalutato l’importanza. Non è quindi, propriamente, atto di vangelo il parlare di Gesù a un credente cristiano, ma parlarne a chi non lo conosce o, pur conoscendolo, non crede in lui.
Sorge immediatamente una domanda, che risulta imbarazzante: nel nostro parlare da cristiani quante volte parliamo di Gesù e della fede in lui a chi non ne sa nulla? O a chi ha dimenticato? Il vangelo è una notizia sulla bocca dei cristiani o una nozione?
Che evangelizzare costituisca l’imprescindibile missione della Chiesa, lo scopo stesso della sua esistenza, tutti lo sanno e nessuno ne dubita. Ma è accaduto, paradossalmente, che abitualmente si evangelizzano i credenti e non i non credenti. Gran parte di ciò che fa la Chiesa è un’attività pastorale, che presuppone l’esistenza del gregge.
Ben poco si fa evangelizzazione, senza la quale, se si continua così, non avremo più il gregge. Della fede di coloro che già ne godono, ci si preoccupa molto; poco, della fede di coloro che non ne godono.
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Si prenda in mano il notiziario di una parrocchia qualsiasi e si veda quante volte vi compare, come destinatario della “notizia delle notizie”, l’uomo e la donna che non hanno ricevuta la grande notizia o, ricevutala da bambini, l’hanno dimenticata. In genere, ricevuta una notizia, buona o cattiva che sia, si è presi dalla smania di dirla a questo e a quello. Non sembra che accada così fra cristiani con la buona notizia di Gesù, il vangelo.
La prima ragione di questa anomalia è certamente il costume di battezzare i bambini, per cui l’impegno che si ha davanti è quello di prendersi cura dei battezzati, perché mantengano la fede, la maturino e la vivano con coerenza.
Sembra che il non cristiano da evangelizzare non esista. Degli adulti si presuppone ancora, diffusamente, che siano tutti battezzati e che siano credenti. Ma questo non è più vero. In Italia negli ultimi trent’anni il battesimo dei bambini è sceso dal 90 al 70% dei neonati. La percentuale è destinata a scendere ulteriormente se si pensa che, nel 2023 in Italia, solo il 41% dei matrimoni è stato celebrato secondo il rito religioso. Secondo una stima prudenziale, inoltre, rispetto ai 180.000 matrimoni che vi si sono celebrati, ben 200.000 sarebbero state le convivenze more uxorio instauratesi nello stesso anno. È prevedibile, quindi, che nei prossimi anni il numero dei battesimi dei bambini si riduca drasticamente.
Per avere un’idea adeguata della mutazione del quadro religioso della popolazione, che sta avvenendo in Europa, vi si aggiunga il fenomeno dell’immigrazione di persone di altra e di nessuna religione.
Non dovrebbe stupire più di tanto la notizia, pubblicata dagli istituti di statistica, ironia della sorte, negli stessi giorni in cui l’arcivescovo di Canterbury ungeva col sacro crisma Carlo III, “per grazia di Dio, Re del Regno Unito e Difensore della Fede”, che i cristiani nel suo reame erano solo il 49 % della popolazione totale. Porre al primo posto, nelle Chiese d’Europa, il compito dell’evangelizzazione è condizione di sopravvivenza del cristianesimo nel vecchio continente.
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L’evangelizzazione è, per natura sua, opera del popolo di Dio. Non è inquadrabile in determinate attività gerarchicamente organizzate, tant’è vero che, giustamente, il Codice di diritto canonico, colloca fra i diritti fondamentali dei fedeli il canone che determina «il dovere e il diritto» di tutti i fedeli «di operare perché l’annuncio divino della salvezza giunga sempre di più a tutti gli uomini di tutti i tempi in tutti i luoghi della terra» (can. 211).
Viene da pensare, poi, che gli estensori di questo testo, consapevoli del clericalismo dominante, per il quale questo diritto-dovere rischiava di venire scaricato istintivamente sulle spalle di preti, frati e suore, hanno sentito il bisogno, qualche canone più in là, di ritornarci su e richiamare i fedeli laici a prendere atto che in certe situazioni, quando essi solo sono in grado di evangelizzare, la missione sta tutta sulle loro spalle (can. 225).
Evangelizzare dovrebbe far parte della vita quotidiana del cristiano, che passa la sua giornata di lavoro e, non di rado, anche la sua vita di famiglia, a fianco di persone che non si manifestano interessate a credere e vivere da cristiani. Lo si fa – si dice – con i fatti, non con le parole. È vero, ma fino a un certo punto.
I cristiani devono riprodurre la vita di Gesù nei loro comportamenti, ma, allo stesso tempo, non possono permettere che sia ignorato il nome di Gesù e si estingua la sua memoria. La fede cristiana porta nel cuore, al suo centro, una persona concreta, vissuta in un certo tempo e in un certo luogo di questa terra, Gesù di Nazaret. Essa non può essere sostituita da un codice morale. Non c’è evangelizzazione senza la testimonianza di vite vissute secondo il vangelo, ma neppure c’è evangelizzazione senza il pronunciamento del Nome.
Elementare e imponente è la missione della Chiesa, prolungare nella storia la memoria di Gesù. Non permettere in alcun modo che l’umanità abbia mai a dimenticarlo. Non c’è cristianesimo là dove non lo si ricorda, dove non si racconta cosa egli diceva, come egli è vissuto e perché e come l’hanno ucciso. È, questa, una memoria storica che resta un valore per l’umanità indipendentemente dalla condivisione della fede in lui.
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Resta comunque vero che, se nessuno avesse creduto e diffuso nel mondo la fede nella sua risurrezione, anche la sua memoria storica avrebbe potuto andare perduta. Quindi non è vero che bastano i fatti a testimoniare la fede. Non c’è cristianesimo là dove non risuona il nome di Gesù. Ci può essere un modo di vivere da cristiani, ma non l’essere cristiani. Ciò che caratterizza il cristiano è la speranza e la speranza germoglia dalla fede nella risurrezione del Signore.
Romano Guardini, negli anni Cinquanta del secolo scorso, denunciava l’immane tentativo, compiuto dalla modernità, di voler conservare il cristianesimo senza il Cristo e vedeva la fine dell’epoca moderna come l’impressionante svelarsi del grande inganno.
Ci resta da porre, però, la domanda decisiva: perché evangelizzare? La risposta è semplice: per amicizia. Chi gode di una qualche ricchezza interiore, non può fare a meno di desiderare di poterla condividere con gli amici. Ma, poiché il vangelo non tollera confini, si vorrebbe condividerlo con tutti. L’evangelizzazione non è proselitismo. Non si evangelizza per allargare i ranghi della Chiesa. Si evangelizza per seminare speranza e rendere più vivibile il mondo.