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Vito Mancuso “Vivere è una lectio divina”

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La letteratura è anche teologia, perché comporta una profonda spiritualità. Il sacerdozio e la scrittura condividono la centralità della parola intesa come azione. La prefazione di Vito Mancuso al libro di Marco Campedelli “Le ossa di Antonia» editore Marietti1820

Che in principio vi sia la parola vale anche per l'esistenza di ognuno di noi. Intendo dire che ognuno di noi ottiene il principio costitutivo della sua esistenza dalle parole che pronuncia e nel modo con cui le pronuncia. Il che vale anche quando si tratta di parole scritte, delle nostre scritture che, per quanto siano profane, hanno sempre la potenzialità di risultare sacre: sacre scritture profane. 

La connessione tra archê («principio») e logos («parola») è decisiva non solo per il Verbo che si fece carne nella notte santa, ma anche per ognuno di noi. Il nostro archê, il nostro principio costitutivo, è dato dal nostro logos, vale a dire dalla logica che governa la nostra mente quale appare in modo esemplare nelle nostre parole. La letteratura, quindi, non è solo letteratura, cioè storie, racconti, narrazioni di fatti veramente accaduti o fantasiose invenzioni; no, la letteratura è anche teologia, filosofia di vita, confessione, anatomia dell'anima; è anche inconscia, e per questo ancora più profonda, spiritualità. 

Quale testo penetra più in profondità nella nostra anima? Una pagina di Dostoevskij o una di san Tommaso d'Aquino? La leggenda del Grande Inquisitore o una quaestio della Summa theologiae? 
Domanda retorica, perché la risposta è universalmente nota. E se le Confessioni di sant'Agostino sono ancora oggi il libro teologico più letto e più amato, lo si deve al fatto che esse sono anche letteratura, oltre che teologia e spiritualità. Anzi, sono teologia e spiritualità in quanto letteratura, racconto, narrazione, storia vissuta e riferita. 

Secondo Gesù la parola ha un'importanza enorme, e non poteva che essere così per lui che fu un profeta, uno cioè che parlava al posto di, o davanti a, sottintendendo ovviamente Dio. Tutta la sua esistenza fu ascolto di una Parola che veniva da altrove ed espressione di una Parola che conduceva altrove. Ecco un suo detto al riguardo: «Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio» (Mt 12,36). L'aggettivo greco che la versione CEI rende con «vana» è argòn, termine formato da alfa privativo e da ergon, «opera, lavoro, azione», e che quindi propriamente significa «senza opera», senza capacità di produrre lavoro, improduttiva, fine a se stessa e non alla vita. Si noti inoltre che l'aggettivo argòn è l'esatto contrario di en-èrgon, «al lavoro, all'opera, in atto», da cui viene il sostantivo enèrgeia, «energia». 

Le parole, per essere autentiche e quindi salvifiche, devono produrre «lavoro», essere operative, creare storia, avere energia. Il linguaggio, quando è vero, possiede questa forza, è sempre performativo. Per questo leggere la grande letteratura dei grandi scrittori può cambiare in profondità la vita e rigenerare la musica del cuore. E noi siamo chiamati, secondo l'esortazione profetica di Gesù, a sorvegliare il nostro dire perché non sia privo di operatività, cioè autocompiacimento, malsana curiosità, frivolo chiacchierare, o, come direbbe papa Francesco, chiacchiericcio. La parola ha un'importanza tale per Gesù che a suo avviso il più grande peccato che un essere umano può compiere, e che non verrà mai perdonato, concerne il parlare: è un peccato di parole, quanto Gesù misteriosamente definisce «bestemmia contro lo Spirito» (Mt 12,31; nell'originale greco: ē toû pneùmatos blasphēmìa). 

Il linguaggio, scritto o parlato, è secondo Gesù il banco di prova di un essere umano, il luogo in cui si gioca il suo destino definitivo: «In base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Mt 12,37). Vista l'importanza che Gesù attribuiva alle azioni, questa sua frase ci insegna a superare la tradizionale, quanto superficiale, contrapposizione tra parole e azioni. Anche le parole sono azioni, e anche le azioni sono parole. Entrambe sono espressioni della nostra interiorità e manifestano chi siamo e chi vogliamo essere; rivelano se miriamo a noi stessi o a qualcosa di più grande di noi, se vogliamo sedurre o se invece vogliamo condurre ed essere noi stessi condotti più in là. 

Da qui scaturisce quella attenzione verso il linguaggio che produce cura, protezione, anzi di più: celebrazione. Da qui una liturgia delle parole e un sacerdozio delle parole; un sacerdozio poetico, per usare la bellissima espressione di Marco Campedelli che più di una volta ho sentito pronunciare da lui con trepidazione nelle nostre amichevoli conversazioni. Il sacerdozio è poetico nel senso greco di poietico, l'aggettivo di poesia e al contempo di azione, perché proviene da poièin, il verbo greco per «fare». La poesia è azione, e ogni vera azione è sempre poetica, anche se non contiene parole. La liturgia della Parola, prima di essere un momento della messa cattolica, è uno stile di vita, un modo di essere, una pratica di comunione ininterrotta con il logos in quanto divina parola. E vivere diviene una lectio divina. 

Questo sacerdozio poetico o delle parole è al centro di questo libro di Marco Campedelli in quanto «letteratura minima». Gli scrittori e i poeti, ma anche i registi, i teologi, gli uomini di Chiesa, i politici qui considerati non vengono analizzati come farebbe un critico letterario dal punto di vista dell'originalità dei contenuti o della bellezza della forma o di altri criteri della critica letteraria e della narratologia; no, Campedelli analizza l'anima dei suoi produttori di letteratura nel senso ampio finora illustrato, andandone a cogliere la profondità spirituale e la capacità di servire il mistero. Come si serve il mistero? 

Il mistero si serve anzitutto tacendo, come indica l'etimologia del termine che rimanda a myo, verbo che in greco significa «chiudere», riferito agli occhi e alla bocca; poi, però, il mistero lo si serve anche parlando o scrivendo o agendo, con quelle parole e quei gesti che provengono dal silenzio e che precisamente per questo sono cariche di saggezza, di sapienza, di verità, di bellezza. 

Quando queste parole o azioni che provengono dal silenzio si configurano come servizio della vita e della sua meraviglia, e al contempo della sua tragicità e della sua ingiustizia, quando questo avviene, si ha letteratura. Ovvero arte. La quale è qualificabile come «minima», non perché vale poco, ma, al contrario, perché è al servizio. Il termine minimo, infatti, ha un'importante assonanza con il termine ministero, ed entrambi derivano dal latino minus. Il ministero della parola è quello di chi anzitutto ascolta le parole degli altri alla ricerca della Parola con la P maiuscola della vita, e poi, da questo ascolto, fa nascere una riproduzione di ciò che ha ascoltato e compreso. 

Concludo con queste bellissime parole tratte dal libro biblico del Siracide: 
«Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti. I vasi del ceramista li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo. Il frutto dimostra come è coltivato l'albero, così la parola rivela i pensieri del cuore. Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini» (Sir 27,4-7). 

Il banco di prova di un uomo è il suo ragionamento, ovvero la concatenazione delle sue parole. 

È esattamente quanto insegnava Gesù e quanto Marco Campedelli ci ritrasmette oggi con queste sue pagine preziose.

Vito MancusoLa Stampa 7 luglio 2025


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