Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi: La sovversione e il paradosso
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Vacanza con le famiglie a Sauze d’Oulx, Piemonte
17 - 24 agosto 2024
L'umanità sovversiva di Gesù
Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi, monaco di Bose
Sommario
4. La sovversione e il paradosso
5. Fronteggiare il male, avere compassione
6. L’umanodivino di Gesù (senza trattino)
7. Il “capolavoro” della crocifissione
8. Tutto è perdonabile
9. Quando l’amore è più forte della morte
10. Il silenzio e il mistero
11. La Legge e la Parola. E la differenza cristiana
La sovversione e il paradosso
Massimo Maffioletti. Mi pare sia stato il grande teologo Johann Baptist Metz a inaugurare la categoria di “memoria sovversiva” a proposito della passione di Gesù e complessivamente della sua umanità [31]. Uno dei capi di accusa contro Gesù è stato proprio la sovversione (per sovversione pedagogica ai danni dei giovani venne condannato anche Socrate). Dunque, in che senso l’umanità di Gesù è stata sovversiva e, come già accennavamo, scandalosa?
Luciano Manicardi. Anche oggi si potrebbe cercare di comprendere la sovversione di Gesù, rispondendo alla domanda: chi è stato Gesù? Ebbene, Gesù è stato un uomo radicato nel suo tempo, un ebreo o, più precisamente, un galileo della prima metà del secolo I dell’era volgare, che pur rimanendo all’interno della fede ebraica ha oltrepassato confini culturali, superato barriere etnico-etiche, abbattuto tabù religiosi.
Dunque, sì, l’umanità di Gesù è stata sovversiva perché non ha camminato solo dentro il perimetro geografico di Israele, ma anche fuori, incontrando molti pagani e stranieri. Gesù ha incluso all’interno del gruppo dei suoi discepoli non solo degli uomini ma anche delle donne: “Egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i dodici e alcune donne” (Lc 8,1-3). Donne che li servivano con i loro beni e che sono ricordate con i loro nomi: “Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni”. Per decidere di includere delle donne nel suo seguito, ci deve essere stato un superamento dell’atteggiamento – diremmo oggi – patriarcale (maschilista?). Il comportamento di Gesù nei confronti delle donne, all’interno di una società che sul piano sia culturale sia religioso era piuttosto rigida e intransigente, è sovversivo.
Noi conosciamo i testi talmudici che apostrofano come stupido un galileo che si ferma a parlare con una donna per strada perché è situazione potenzialmente pericolosa, che può indurre in tentazione.
Ebbene, Gesù invece si ferma a parlare con la Samaritana nell’ora più calda del giorno mentre andava al pozzo (Gv 4). Il pozzo era un luogo di incontro per i beduini. Ancora: Gesù vede l’amore là dove tutti vedono il peccato, come nell’episodio della donna peccatrice, la prostituta che entra in casa del fariseo Simone (Lc 7,36-50), supera i parametri di giudizio e non tiene conto dei pregiudizi di tipo morale: “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!” Per il fariseo la donna è solo una peccatrice che egli cataloga come tale. Ma così la inchioda in uno stereotipo. Gesù, invece, vede in lei l’amore, la gratuità, là dove tutti, per pigrizia intellettuale e abitudine, non vedono altro che una prostituta. La donna lo approccia, sembra quasi instaurare una certa intimità con lui, e lui apprezza il coraggio della donna che sa di esporsi a sguardi certamente non amichevoli quando entra nella casa di Simone. E, infatti, tutti la guardano in modo giudicante. Non si sottolinea mai a sufficienza l’apertura mentale, l’intelligenza acuta di questo singolare ebreo che è Gesù. Il suo modo di interpretare le Scritture, sbalordendo i suoi avversari, lo conferma. Basta ricordare l’episodio della donna colta in adulterio e a rischio lapidazione (Gv 8,1-11). Gesù sa che l’adulterio si fa in due, e quindi anche l’uomo secondo Deuteronomio 22,22-24 dovrebbe essere lapidato insieme con la donna. Con il suo chinarsi e mettersi a scrivere per terra, il suo rialzarsi che sfocia nel “chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”, Gesù corre rischi enormi. In effetti, in tutte le religioni ci sono dei pazzi che pensano di essere davvero senza peccato e si autorizzano a giudicare, condannare, lapidare con atteggiamenti e parole. Nell’episodio giovanneo invece se ne vanno tutti. Decisiva e geniale è la frase di Gesù: “Chi di voi è senza peccato…”. Gesù offre a tutti la possibilità di entrare nella verità. E poi il finale: “Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”. Gesù non abolisce il peccato, riconosce l’affronto all’umano e all’immagine di Dio che è l’uomo, l’offesa contro la carità, la ferita contro l’amore, ma invita la donna, che lui non condanna (“Io non giudico nessuno”: Gv 8,15), a riprendersi la vita ritrovando così un futuro che ormai stava per esserle strappato. Gesù – altro aspetto del suo carattere sovversivo – ha il coraggio di abbattere i dogmi teologici, le affermazioni catechistiche ripetute fino allo sfinimento e che ormai orientavano lo sguardo delle persone. Un esempio su tutti: l’incontro con il cieco nato (Gv 9). I discepoli chiedono: chi ha peccato, lui o i suoi genitori? C’è una malattia, dunque c’è stato un peccato che l’ha originata: questa la mentalità educata dalla teologia corrente e da tutti accettata. Ma Gesù va oltre e dice: “Nessuno ha peccato” e così elimina una scorretta asserzione teologica: che colpa ha questo povero uomo per essere nato cieco? Che peccati dovrebbe mai scontare? Gesù non ci sta, ma quanto resiste ancora oggi nelle nostre comunità questa mentalità? Ricordiamoci cosa si diceva dell’aids o quello che si è detto più recentemente a proposito del Covid come castigo divino. Gesù osa opporsi alle affermazioni teologiche che sembrano acquistare verità a forza di essere ripetute fino a diventare luoghi comuni religiosi. Gesù ha il coraggio della semplicità e dell’essenzialità. E anche questo è un aspetto sovversivo.
In cosa riconosciamo l’essenzialità di Gesù?
Volto dell’uomo, volto di Dio. Amare Dio, amare il prossimo. Cosa vuole Dio? La vita anche per il peccatore. Cosa vuole un uomo? Vuole una vita che sia degna di essere vissuta. Rispetto dell’umano e insieme rispetto di Dio. Il potere di sovversione nasce dall’avere enormemente semplificato i termini del dilemma: la volontà di Dio e nello stesso tempo il rispetto radicale del volto dell’uomo, che è l’unica icona del trascendente a nostra disposizione, quel volto umano che è immagine e somiglianza di Dio, quel “volto dell’uomo che è segretamente il volto di Dio”, come afferma Olivier Clément [32]. La dimensione sovversiva di Gesù la possiamo estendere anche al piano religioso e rituale. Prendiamo, per esempio, la critica aperta che Gesù rivolge agli uomini del sacro: “Se uno dichiara al padre o alla madre: ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio” (Mc 7,11-13). Gesù vuol dire: voi vi esonerate dal dovere etico e dalla fatica di assistere i genitori. Oppure, altro esempio: Gesù che al tempio chiede di abbandonare una prassi pur legittima, quella per la quale per adempiere al precetto del sacrificio occorreva cambiare il denaro dai cambiavalute. Gesù si contrappone in modo radicale e dice: basta con la “delega” sacrificale, basta con i sacrifici che deresponsabilizzano l’uomo. L’invito di Gesù è quello di assumere la propria responsabilità. Gesù abbatte i tabù religiosi anche accostandosi ai lebbrosi (Mc 1,40-45). Si avvicina loro con il rischio – secondo la legge religiosa – di contrarre impurità, mostrando semmai che l’unica reale impurità è il non volersi sporcare le mani con chi è impuro.
Il vangelo è la storia dei gesti quotidiani di Gesù all’insegna di una chiara rivoluzione: quella della mitezza, o della tenerezza, come direbbe papa Francesco. Il coraggio sovversivo tocca il pensiero teologico: le affermazioni su Dio – anche della grande tradizione scritturistica – non sono la verità, sono rivedibili e possono (e devono) anch’esse essere riformulate o perfino smentite. La fede nella giustizia retributiva di Dio all’epoca di Giobbe, per esempio, viene scardinata, scalzata. Dovremmo avere la percezione della relatività delle affermazioni veritative su Dio, anche oggi, perché la verità nello spazio cristiano è la persona di Gesù di Nazareth. Più ci avviciniamo ai tempi apostolici e sub-apostolici (vedi anche gli studi del grande biblista Ignace de la Potterie [33])più dovremmo avere la percezione che le affermazioni, perfino quelle dogmatiche che la Chiesa custodisce e garantisce, stanno sempre nell’alveo dell’approssimazione rispetto a Dio. Sono un movimento di avvicinamento alla verità che è Gesù, ma non sono la verità. E sono verità formulate linguisticamente in un certo momento storico. Approssimarsi a Gesù significa avvicinarsi a una prassi di sovversione, ma sempre in obbedienza a Dio.
A Gesù piaceva molto anche la figura retorica del paradosso, come discorso iperbolico, come ribaltamento dell’ovvio e scardinamento della logica del senso comune. Il paradosso come verità non evidente o sub contrario [34]. Basterebbe l’affermazione presente in tutti e quattro i vangeli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,24-25; Mc 8,34-9,1; Lc 9,23-27; Gv 12,25).
Lo stesso Jullien lo ha sottolineato, così come Ricoeur: dal greco para-doxa, il paradosso sostiene una logica che va contro l’opinione pubblica comune suscitando stupore e meraviglia, domande e interrogazioni. In Luca c’è una bellissima espressione, “Εἴδομεν παράδοξα” (Lc 5,26), che traduciamo così: oggi abbiamo visto paradoxa, “abbiamo visto paradossi”, “cose paradossali”. E sono quelli che emergono dalla vita e dall’agire di Gesù di Nazareth. Il paradosso suscita appunto stupore. Dovremmo chiederci: siamo ancora capaci di stupore quando oggi abbiamo il mondo a portata di touch? Eppure lo stupore nei vangeli è spesso una via verso la fede: cominci a porti una domanda senza sapere bene la risposta e cominci ad andare alla scoperta di chi è veramente Gesù di Nazareth. C’è chi parla di “cristologia dello stupore”. Oserei affermare che tutto il vangelo è paradosso, dall’inizio alla fine: gli ultimi saranno primi (Lc 13,30), beati i poveri (Mt 5,3; Lc 6,20-23), il granello più piccolino è diventato l’albero più grande (Mt 13,31-32). Potremmo continuare a lungo. Ma prendiamo le parabole (sulle quali torneremo alla fine del nostro colloquio): sono racconti della più assoluta normalità perché riguardano pescatori, massaie, agricoltori, pastori, trattano cioè del mondo comune e noto agli ascoltatori delle parabole stesse, e tuttavia spiazzano per riorientare. Rileggiamo la parabola degli operai dell’undicesima ora (o dei vignaioli presi a giornata: Mt 20,1-16): gli ultimi ricevono la stessa paga dei primi. Il paradosso urta le nostre concezioni della giustizia come simmetrica corrispondenza tra la prestazione di manodopera e il dovuto salario. Il primo ha lavorato tutto il giorno, l’ultimo solo un’ora: ci sarà pure una differenza retributiva! Anche noi avvertiamo l’ingiustizia nel trattamento messo in atto dal padrone della vigna. Eppure Gesù vuol far balenare l’idea che c’è un mondo in cui Dio regna, dove non valgono le ferree regole economiche del mercato, del dare-avere, dell’equilibrio tra manodopera prestata e retribuzione. Qui vige la gratuità: “Sei tu invidioso perché io sono buono?”, dice Gesù.
Spiazzante! Questa bontà ferisce ma obbliga a mettere in discussione il meccanismo invidioso, oggi tra i più diffusi, visto che è il meccanismo che sottostà alla pubblicità.
Il paradosso, dunque, è importante perché abita tutto quanto il vangelo.
Mi piace ricordare quello che scriveva De Lubac: “Il paradosso immette in una ricerca di senso che non ha mai fine” [35]. Il teologo gesuita francese arriva a scrivere che “il paradosso è ricerca e attesa della sintesi che sempre ci sfugge”. E ancora: “Per i fatti come per lo spirito, la sintesi non può essere che oggetto di continue ricerche”.
Quamdiu vivimus necesse habemus sempre quaerere: finché viviamo noi necessariamente dobbiamo sempre cercare. Il paradosso – afferma ancora De Lubac – “è provvisoria espressione di una visione sempre incompleta e orientata tuttavia verso la pienezza”. Oserei dire che il paradosso abita la realtà, è la realtà stessa ad essere paradossale, l’essere umano è paradossale, proiettato sempre oltre a sé, ma sempre legato alla sua esistenza segnata dal limite che costituisce l’unico ingresso verso la pienezza di vita. Noi ci situiamo all’interno di questa ricerca di pienezza che storicamente non giungerà mai a conclusione, ma in cui viviamo e camminiamo. Pensiamo al significato dell’utopia. Il grande esegeta Jeremias affermava che il centro della predicazione di Gesù è l’annuncio del Regno di Dio [36]. Ma che cos’è il Regno di Dio? Noi lo possiamo tradurre con le nostre categorie o, meglio, con le parole dell’Apocalisse: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli” (Ap 21,3). La formula di alleanza con il popolo di Israele diventa formula di alleanza con tutta l’umanità: l’umanità in Dio. Questo è il sogno di Dio sul mondo, questo è il Regno di Dio, questo è quello che noi speriamo quando nella preghiera del Padre nostro diciamo “venga il tuo Regno”. Possiamo anche chiamarlo fraternità o sororità universale.
Quando mai ci sarà fraternità e sororità universale? Scoppia una guerra al giorno.
È un’utopia. Non troverà mai un luogo di realizzazione.
E allora cos’è un’utopia?
Lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano [37] in un suo bellissimo testo scrive che l’utopia è come un orizzonte. Ti avvicini di dieci passi, l’orizzonte si allontana di dieci passi. Ti avvicini di cento passi, si allontana di cento passi. L’utopia serve a continuare a camminare, pur sapendo che storicamente non si verificherà mai pienamente, sempre, per tutti. Noi la possiamo re-interpretare con la categoria della eu-topia, cioè la creazione di luoghi, associazioni, gruppi, comunità di “Noi” in cui si dà forma nell’oggi a ciò che è implicato dal prefisso “eu” cioè bene.
Possiamo dirlo con le parole di Martini (lettera pastorale Ripartiamo da Dio del 1995-’96) quando definiva la chiesa una comunità alternativa al cui interno si vivono quei valori forti che mondanamente sono trascurati o misconosciuti: il servizio, il primato degli ultimi, il perdono, la riconciliazione, il riconoscimento, l’essere servi gli uni degli altri, l’inclusività. Qui la testimonianza cristiana ha più che mai valore e, secondo me, acquista eloquenza anche per i non credenti che spesso sono raggiunti da un linguaggio significativo perché vedono qualcosa di autentico e credibile nello spendersi per l’altro gratuitamente, nel donare la vita gratuitamente.
Ed è così che si può dare realtà alla speranza. La speranza, noi, non la possiamo relegare all’aldilà, al paradiso, al mondo a venire, ma la dobbiamo rendere visibile nella realtà: essa ha bisogno di zone di realtà nell’oggi, di concretizzazioni nell’oggi di quanto sperato per sempre e per tutti nel domani. E questo sempre all’interno della logica del piccolo resto, del piccolo numero, come amava ripetere scherzosamente il pastore e teologo svizzero Jean-Jacques Von Allmen: i cristiani sono chiamati a essere sale della terra, non a far diventare il mondo una saliera. E aveva ragione. La comunità cristiana, con le sue azioni di gratuità, di accoglienza, di perdono, di riconciliazione, di condivisione, è un’anticipazione del mondo redento. È così che diventa credibile la speranza cristiana. Non si dimentichi che la speranza cristiana nasce accanto a una tomba, il mattino del primo giorno dopo il sabato. La speranza cristiana è autentica quando integra il tragico della vita umana, la morte, il lutto, la lacerazione. Solo una speranza che sa toccare il tragico della vita umana è credibile. La speranza del sorriso sempre sulla bocca è francamente un po’ ebete, no?
Continuiamo a indagare l’umanità sovversiva di questo singolare ebreo perché a bocce ferme non si capisce come mai così tanto astio e livore nei confronti del "passatore" itinerante da essere messo a morte. In cosa consiste il carattere innovatore, dissidente, “eretico” e perfino “ribelle” [38] dell’umanità di Gesù? Elenco una serie di capitoli a complemento di quello che tu hai già rilevato: per esempio, Gesù è un uomo che nasce ai margini dell’impero (Betlemme) e vive in una Nazaret sostanzialmente ininfluente, non fa di Gerusalemme il quartiere generale del suo movimento (sempre che abbia voluto creare un movimento), anzi dal Tempio se ne sta volentieri alla larga frequentando preferibilmente sinagoghe o meglio l’aria aperta del lago e dei monti, non pare interessato alla carriera, non ha famiglia (non la vuole?) e quella che ha non intende riconoscerla (“Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”: Mt 12,48), non ha nemmeno una casa (una pietra dove posare il capo), decide di non sposarsi ma inaugura un rapporto decisamente rivoluzionario con il mondo femminile (Samaritana, Cananea, Maddalena…) abbattendo ogni tabù (del sangue, del puro/impuro), le sue “opzioni preferenziali” lo portano a stare dalla parte degli ultimi e non dei poteri forti, sceglie di essere servo e non re (anche se l’insegna della condanna gli affibbia il titolo regale), preferisce cucirsi addosso l’abito del profeta itinerante piuttosto che vestire i panni sacerdotali dell’uomo del sacro (per dirla alla Drewermann, Gesù non è certo stato un “funzionario di Dio” [39), frequenta gente poco affidabile e certamente ritenuta non credibile come prostitute e pubblicani, è capace di emozioni forti e di empatia (piange sulla città santa, nel Getsemani e per l’amico Lazzaro, ma si accende d’ira per come viene trattato il tempio), la sua non è un’umanità indifferente, tra i verbi che più contraddistinguono il suo stile c’è “toccare” [40]: è un uomo che tocca soprattutto i malati condividendo l’“umano soffrire” [41] e si lascia toccare, e si lascia anche correggere e rimproverare (vedi ancora l’incontro con la donna di Canaan, che hai già affrontato), sfoggia una dialettica particolarmente autorevole nel dibattito pubblico con gli uomini della religione – divertendosi a sbugiardarli o farli cadere in contraddizione – ma anche nei confronti dei demoni o degli spiriti impuri (questa sua familiarità con le ombre dell’anima e le oscurità dello spirito è tutta da esplorare); domina le forze della natura senza essere uno stregone (altro tema piuttosto complicato da tener insieme con un’umanità che non vuole fare sfoggio della propria onnipotenza); è un rabbino che ama stare a tavola [42]; cammina molto e dà la sensazione di essere sempre in viaggio, in perenne esodo, quasi un essere inquieto…
Già lo accennavamo: Gesù è un galileo del primo secolo dell’era volgare. Già questo è importante, non solo perché il dialetto galileo aveva le sue particolarità linguistiche, ma perché sancisce una distanza tra nord e sud, Galilea e Gerusalemme. La Galilea era culturalmente, storicamente, tradizionalmente molto più libera nei confronti dell’obbedienza alla Torah e di quel rigorismo tipico degli ambienti gerosolimitani. Era da lì che provenivano i rivoltosi, gli zeloti. Quindi, in Galilea, c’è un imprinting culturale che lui, Gesù, ha certamente respirato. È nato e cresciuto nell’alveo famigliare, ha poi ricevuto la fede in un contesto sinagogale, dove per altro ha imparato a pregare. Ci sono inoltre elementi che presentano una certa discontinuità nel rapporto con il giudaismo dell’epoca, pur essendo lui vissuto all’interno del giudaismo. Gesù non è mai stato un fondatore di religione ma il modo in cui ha testimoniato il Dio d’Israele, in cui ha vissuto l’obbedienza al Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe – che è il suo Dio e che lui invoca come Abbà – è in totale continuità con la tradizione ebraica (vedi la genealogia di Luca 3,23-38 e di Matteo Mt 1,1-17). Eppure, indubbiamente conosce elementi di rottura. Per esempio, Gesù stando a quello che ci dicono i vangeli, non si è sposato: è una scelta abbastanza dirompente, perché nella letteratura rabbinica sono diversi i testi che mostrano come il compito dell’uomo sia sposarsi e mandare avanti il mondo. Inoltre è attraverso la discendenza che passa la benedizione di Dio (Gen 1).
Qualcosa di analogo lo ritroviamo anche nel primo secolo dell’era cristiana: rabbi Shimon ben Azzai [43] decide di non sposarsi asserendo che la sua anima ha sposato la Torah e che altri manderanno avanti il mondo: è una scelta rara e inconsueta all’epoca ma che ha caratterizzato anche la vita di Gesù. Il movimento dei discepoli di Gesù incontrerà delle opposizioni proprio su questo versante. Leggiamo il discorso di Gesù sugli eunuchi: “Vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca” (Mt 19,12). Stando alle ipotesi esegetiche più accreditate, qui Gesù riprende un insulto – "eunuchi" – con cui venivano bollati denigratoriamente lui e i suoi discepoli proprio per la scelta che – almeno alcuni di loro, non tutti – avevano avevano fatto di non avere una famiglia, di non avere una discendenza e dunque sottrarsi all’impegno di trasmettere la benedizione divina. Diversi testi rabbinici dicono che chi non genera è come un assassino. Inoltre, anche da un punto di vista storico, sociale, economico, astenersi dal matrimonio è un gesto – diremmo oggi – “politicamente scorretto”: sanciva una rottura profonda nel sistema delle alleanze clanico-familiari dell’epoca. Mauro Pesce, storico delle origini cristiane, ha mostrato che la scelta di Gesù era decisamente controcorrente: predicatore itinerante che vive il celibato con un piccolo gruppo di seguaci. Questa sua situazione viene sentita come irricevibile da parte dei suoi famigliari: troppo diversa, troppo contrastante con gli interessi di un gruppo famigliare che è arricchito da matrimoni e alleanze con altri clan famigliari. Sicché “i suoi” lo dichiarano “pazzo”: “I suoi uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: ‘È fuori di sé’” (Mc 3,21). Gesù sceglie la precarietà, un ministero itinerante: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). Vive di ospitalità: altro elemento inedito che genera molti sospetti nei suoi confronti. Alcune persone decidono di seguire il suo stile di vita. La sua piccola comunità itinerante prevede che ci siano anche delle donne, elemento, questo, non molto sottolineato nella tradizione cristiana.
NOTE
31 Johann Baptist Metz, Sulla teologia del mondo, ed. Queriniana 1969.
32 Olivier Clément, Rome, autrement. Une réflexion orthodoxe sur la papauté, Desclée, Paris 1997, p. 114.
33 Ignace de la Potterie, La vérité dans saint Jean, 2 voll., P.I.B., Roma 1977.
34 Élian Cuvillier, Paradossi del vangelo, ed. Qiqajon, Bose 2015.
35 Henri De Lubac, Paradossi e nuovi paradossi. L’uomo davanti a Dio, ed. Jaca Book 1989.
36 Joachim Jeremias, Le parabole di Gesù, ed. Paideia 1973.
37 Eduardo Galeano, Finestra sull’utopia, in Parole in cammino, Sperling & Kupfer-Mondadori, Milano 2006, p. 255.
38 Giulio Busi, Gesù il re ribelle. Una storia ebraica, ed. Mondadori 2023.
39 Eugen Drewermann, Funzionari di Dio. Psicogramma di un ideale, ed. Raetia 2008.
40 Marie-Laure Veyron, “Tese la mano e lo toccò”. Il gesto di toccare nei vangeli, ed. Qiqajon, Bose 2019.
41 Luciano Manicardi, L’umano soffrire, ed. Qiqajon, Bose 2006.
42 Enzo Bianchi, Un Rabbi che amava i banchetti. L’Eucaristia narrata ai bambini (Illustrazioni di Emanuele Luzzati), ed. Marietti 1820, 1985.
43 Cf. Enzo Bianchi, «Il celibato nella tradizione rabbinica», in Parola, Spirito e Vita 12 1985), pp. 75-91.