Massimo Recalcati "Una morte dignitosa"
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8 Luglio 2025
Manca nel nostro Paese una legge sul fine vita. Da tempo lo sottolineo sulle pagine di questo giornale. Di questa legge esiste una esigenza collettiva tanto ampia quanto
sistematicamente misconosciuta dalla politica di destra e di sinistra, salvo rarissime
eccezioni, per esempio quella di Marco Cappato. Il silenzio della politica parlamentare
è divenuto nel tempo sempre più assordante. Eppure sono migliaia le persone e i loro
famigliari che si trovano di fronte all’urgenza drammatica di affrontare una vita esposta
ad una sofferenza senza più alcuna speranza.
La legge 219 sul biotestamento non può essere sufficiente. Il suicidio assistito rimane
in ogni caso fuori legge con la conseguenza che i medici e tutti coloro che lo
favoriscono sono esposti a pesanti rischi penali. Per questa ragione migliaia di italiani
sono costretti all’esilio in Svizzera o al suicidio solitario. Anche le recenti sentenze
della Corte costituzionale — come è avvenuto col caso Cappato-Dj Fabo — pur
aprendo delle brecce importanti, non riempiono questo vuoto legislativo che resta uno
scandalo tutto italiano. Serve al contrario una Legge che riconosca a chi è sconfitto
dalla malattia e non ha più speranze né di guarigione né, soprattutto, di una vita
dignitosa, il diritto di scegliere di morire anticipando la cosiddetta morte naturale. Ma
si può pensare davvero che coloro che estenuati da una malattia che non lascia scampo
e che magari li ha consumati crudelmente per anni o addirittura decenni, non abbiano
desiderato profondamente di continuare a vivere? Che cosa li avrebbe spinti se non il
desiderio di vita a sostenere la lotta impari contro la tragedia della malattia? E poi che
cosa significa davvero “vivere”? Significa essere semplicemente vivi? Vivere coincide
davvero con questa visione brutalmente materialistica della vita come mero respiro
vitale, come mera sopravvivenza? Si può ridurre l’essere dell’uomo al suo corpo
biologico? Non è questa una opzione rozzamente materialistica?
Le cure palliative, come sappiamo, si rivelano essenziali per accompagnare con la
massima umanità e cura una vita alla sua fine. Ma cosa accade quando questo passaggio
dura dieci o vent’anni? La cura palliativa non perde in questo caso il suo senso e non
si trasforma inevitabilmente in un accanimento terapeutico? Non si dovrebbe invece
lasciare al soggetto sofferente la decisione relativa alla sua capacità di resistenza, alla
sua capacità di sopportare un’esistenza mutilata e oppressa da una sofferenza che
esclude ogni possibilità terapeutica e ogni possibile speranza di miglioramento?
Una legge sul fine vita non sancirebbe un diritto alla morte, ma quello a una vita
dignitosa in grado di decidere il suo termine. In questo senso essa dovrebbe
accompagnarsi a un potenziamento delle cure palliative per rendere l’eventuale
decisione di porre fine alla propria vita la più libera possibile. Riconoscere il diritto
alla resa non sponsorizza la morte come soluzione, ma tiene conto dei limiti umani
della vita. La resa di chi decide per la propria morte di fronte all’inesorabilità del male
non è un atto di viltà ma una presa d’atto di una sconfitta drammatica che merita tutto
il nostro rispetto e la nostra solidarietà. Come si fa a non capire? Come si fa a imporre
ad altri la nostra misura della vita? Come si può costringere altri a vivere una vita che
non è più la loro e che assomiglia giorno dopo giorno sempre più alla morte? In questo
senso la dichiarazione di resa deve poter essere sovrana. Solo la filosofia
dell’hitlerismo, solo coloro che credono che la vita sia puro acciaio destinato a non
piegarsi mai, possono escludere la possibilità umanissima della resa. In un tempo come
il nostro dominato dall’ideologia della prestazione, dal mito della giovinezza e dalla
volontà di potenza del proprio Ego, morire è diventato un tabù assai più ingombrante
del sesso. Con la conseguenza che la nostra civiltà ha completamente smarrito la
grammatica della resa. L’idea stessa che ci si possa arrendere alla sventura e all’atrocità
di una malattia che non lascia scampo, l’idea che ci si possa congedare con dignità dal
tempo del mondo, può apparire intollerabile, quasi oscena. Eppure, è proprio nella resa
che risuona una verità profonda. Non sempre il desiderio di vivere può trovare la gioia
della sua affermazione. Non si ammala solo chi non vuole vivere. Si ammala anche chi
vorrebbe vivere ancora. È una cattiva psicologia quella che vorrebbe sopprimere il
carattere fatale del male. Quando un soggetto dichiara sconsolato che “è diventato
troppo per me” o che “non ne posso più”, quando, esausto, dichiara la sua resa, chi può
permettersi di giudicare la giusta misura di questa dichiarazione? Chi può permettersi
di esigere che tutto quel dolore che ha reso quella vita incompatibile con la vita debba
continuare sino a “morte naturale”? Nessuno di noi dovrebbe essere chiamato a
giudicare, a correggere, a moralizzare, ma, casomai, ad ascoltare, a offrire uno spazio
in cui la parola del soggetto sofferente trovi accoglienza, senza essere violata dalla
nostra paura o dalle nostre convinzioni ideologiche.
L’atto della resa di chi chiede di poter morire non è mai un atto irresponsabile. È,
piuttosto, la testimonianza estrema di una soggettività che non vuole essere ridotta a
sopravvivere ad ogni costo. In quel “no!” a una vita divenuta simile alla morte, la vita
rivela tutta la sua umanità. È quel “no!” che la vita solo animale, governata pienamente
dall’istinto, non può mai pronunciare. È un “no!” alla vita divenuta morte. È un “no!”
non nel nome della morte ma nel nome della vita che reclama sino all’ultimo respiro il
diritto alla sua dignità. In gioco è l’assunzione del proprio limite, il riconoscimento che
ogni esistenza è finita, esposta al male e al suo destino. Una civiltà matura non si misura
solo dalla capacità di difendere la vita, ma anche da quella di accompagnarla nel suo
congedo con dignità.
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