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Piero Stefani “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo...”

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Piero Stefani, teologo e saggista, sottolinea che non sono le creature umane che, con atti penitenziali, cercano di riacquisire il favore divino; è Gesù Cristo, l’Agnello, il Servo, a consentire a Dio la riconciliazione. Se è l’Agnello che toglie il peccato del mondo, bisogna però che ci si lasci riconciliare con Dio. La nostra responsabilità è grande.


È una venerabile espressione liturgica che è nell’orecchio anche dei non praticanti (forse soprattutto nella sua forma latina); eppure ci sono fondati motivi per chiedersi se corrisponda davvero al messaggio originario. A cosa ci si riferisce? Ad “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo abbi pietà di noi”. L’asserzione secondo cui un testo non si conforma appieno al passo evangelico da cui trae origine è lungi dallo squalificarlo. Si tratta solo di un’espressione dotata di un’altra intenzione. O, più precisamente, è una frase rivolta a scorgere la stessa realtà sotto una diversa angolatura. 
Nel testo la scena è incentrata, lo si afferma apertis verbis, sulla testimonianza di Giovanni il Battista. Cosa comprende la sezione che inizia con le parole: “Questa è la testimonianza di Giovanni” (Gv 1, 19)? L’incipit è contraddistinto da una formula, “non lo sono”, che marca una differenza con i tanti “io sono” che nel Vangelo di Giovanni contraddistingueranno le autorivelazioni di Gesù (cfr. per es. Gv 6,35; 10,7; 14,6; 15, 5...). Il Battista nega di essere il Cristo (il Messia), Elia, il profeta (1)  (Gv 1, 20-21). 
In questa breve sequenza, le qualifiche prospettate dai suoi interlocutori decrescono, le negazioni poste in bocca a Giovanni invece proseguono. In affermativo, il Battista dichiara: “Io sono voce di uno che grida nel deserto. 
Rendete dritta la via del Signore (cfr. Is 40,3)” (Gv 1,23). È l’inizio del “libro delle consolazioni” del rotolo di Isaia contraddistinto dall’annuncio, rivolto al popolo, che la sua colpa è stata scontata (Is 40,2). Alla domanda perché battezzi pur non essendo né il Cristo, né Elia, né il profeta, Giovanni risponde che egli lo fa con l’acqua, ma c’è qualcuno più grande di lui che verrà dopo di lui (Gv 1,27). 
Il giorno dopo Giovanni vede venire (verbo dotato di un ruolo strategico in tutti i restanti versetti del capitolo) Gesù verso di lui. Anche il più grande tra i nati da donna (cfr. Mt 11,11) ha bisogno che sia Gesù a venire a lui. È a questo punto che erompe l’appellativo “Agnello di Dio”, qualifica che sarà riproposta anche il giorno dopo (Gv 1,37). La motivazione addotta per giustificare un’espressione così alta è il ricordo di un fatto, assai recente, che il quarto Vangelo, a differenza dei Sinottici, non descrive in modo diretto. 
Giovanni proclama, infatti, che Gesù è più grande di lui perché era prima di lui (Gv 1,29); lo fa ricordando il battesimo che gli aveva amministrato; in quel frangente testimonia di aver visto lo Spirito discendere come una colomba e rimanere su Gesù, il Figlio di Dio (Gv 1, 33-34). Il giorno dopo, quasi come fosse un primo corollario alla testimonianza, due discepoli di Giovanni scelgono di seguire Gesù. Inizia così un itinerario che si concluderà quando, dopo le nozze di Cana, Giovanni, di fronte allo sconcerto di alcuni discepoli, dichiara che lui deve diminuire e Gesù crescere (Gv 3, 29). 
La testimonianza trova il proprio centro nella parola “agnello” (greco, amnos); si tratta di un termine che nel quarto Vangelo non tornerà più. La mancata ripresa ne rende più complessa l’interpretazione. Tuttavia non occorre focalizzarsi solo su questa parola; il prendere in considerazione l’espressione nel suo complesso potrebbe rivelarsi un modo per avviarci a cogliere, con più fondamento, il senso specifico anche del sostantivo iniziale. 
Il paradosso è che ciò può avvenire anche se la sua interpretazione è a propria volta incerta. La domanda decisiva sta nel chiedersi quale sia il soggetto della frase “che toglie il peccato del mondo”. La prima impressione è che sia l’Agnello e che “di Dio” costituisca solo una sua specificazione. 
Tuttavia è stata avanzata l’ipotesi secondo cui l’Agnello sarebbe piuttosto la figura di cui Dio si serve per togliere il peccato del mondo. Il tal caso il “che” sarebbe riferito a Dio, è lui a togliere (in greco vi è un participio presente ho airon, alla lettera “il togliente”). (2)  Non è sicuro che sia così. Se si guarda allo sviluppo del Vangelo, lo sarebbe solo se ci fosse il termine “Padre” (e non già “Dio”). Resta comunque saldo il fatto che, mentre il rito del battesimo di Giovanni ha una funzione penitenziale legata ai peccati di ciascuno, l’Agnello è in grado di togliere il peccato del mondo. 
La presenza di un singolare attesta una dimensione del tutto diversa da quella delle colpe personali espiate attraverso prassi penitenziali. Nel quarto Vangelo mondo (kosmos) ha un significato ambivalente: da un lato indica il polo del rifiuto radicale (“prego per loro; non prego per il mondo” Gv 17,9), ma dall’altro si riferisce a una realtà salvata: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). L’Agnello è inviato nel mondo per togliere il peccato. Giovanni attesta, non supplica. Non si chiede misericordia; sulle labbra del Battista non compare alcun miserere nobis. La sua è una proclamazione dell’opera salvifica compiuta dall’Agnello. 
Il termine non torna più, al contrario le allusioni all’agnello, inteso in senso pasquale, sono attestate nell’evento supremo della morte in croce. La prima di esse è alquanto indiretta. Consapevole che tutto si era adempiuto, Gesù, per compiere ulteriormente la Scrittura, disse: “Ho sete” (Gv 19, 28; Sal 69,22). L’esclamazione potrebbe riferirsi al calice che si dichiarò disposto a bere (Gv 18,11). 
Il simbolismo, però, sembra riguardare soprattutto l’atto successivo in cui a Gesù fu offerto di bere aceto con una spugna posta sopra un issopo. L’insolita specificazione rimanda al passo dell’Esodo in base al quale proprio quel vegetale fu usato per spruzzare il sangue dell’agnello sugli stipiti delle porte degli ebrei all’immediata vigilia dell’esodo dall’Egitto (Es 12,22). Anche per questa via viene, dunque, confermata la centralità attribuita alla simbologia dell’agnello. Infine Gesù disse: “’È compiuto!’. E, chinato il capo, consegnò lo spirito” (Gv 19,30). Gesù vive attivamente la propria morte. Anzi, in un certo senso è dato affermare che l’adempimento definitivo viene portato a termine dopo la morte. Infatti la fuoruscita di sangue e acqua dal fianco trafitto dalla lancia è posta anch’essa sotto l’insistita cifra della testimonianza, questa volta compiuta dal discepolo amato e non da Giovanni Battista: “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli dice il vero, perché anche voi crediate. Questo avvenne perché si compisse la Scrittura: ‘Non gli sarà spezzato alcun osso’” (Gv 19,36-37; cfr. Es 12,46). Colto in senso proprio, l’agnello pasquale esodico è lungi dall’essere un sacrificio di espiazione: “è la Pasqua del Signore” (Es 12,11). Il popolo schiavo non confessa le proprie colpe, beneficia invece del- l’azione del Signore che passa e libera. 
Oltre che nel quarto Vangelo, la parola amnos negli scritti ora raccolti nel Nuovo Testamento, appare solo in altre due occasioni. In una di esse il richiamo pasquale è ben riconoscibile: “Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vuota condotta ereditata dai padri, ma dal sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetto e senza macchia” (1Pt 1,19). L’altra occorrenza sposta l’accento su quanto, anche dal punto di vista esegetico, è un riferimento più volte ripreso per spiegare l’espressione “Agnello di Dio”. Si tratta di un passo degli Atti degli apostoli nel corso del quale l’eunuco etiope, mentre sta scendendo da Gerusalemme, legge un brano di Isaia dedicato al Servo: “Come una pecora egli fu condotto al macello e come un agnello senza voce davanti a chi lo tosa, così egli non aprì la sua bocca [...]” (Is 53,7). Il funzionario etiope si rivolge a Filippo per chiedere come vada inteso il testo e l’apostolo, partendo da questo brano, gli annuncia Gesù (At 8, 32-34). 
Il riferimento è una delle tracce, non certo l’unica, che hanno indotto vari, autorevoli interpreti a intendere l’espressione “Agnello di Dio” sulla scorta della figura del “Servo del Signore”. L’accostamento, così come è testimoniato da un passo della sua celebre lettera del 18 luglio 1944, colpì Dietrich Bonhoeffer: “Questa è la metanoia: non pensare anzitutto alle proprie tribolazioni, ai propri problemi, ai propri peccati, alle proprie angosce, ma lasciarsi trascinare con Gesù Cristo sulla strada dell’evento messianico costituito dal fatto che Is 53 si compie ora! Donde: ‘credete all’evangelo’, ovvero in Giovanni, il richiamo all’‘agnello di Dio che porta i peccati del mondo’ (tra parentesi: Jeremias recentemente ha sostenuto che ‘agnello’ in aramaico può essere tradotto anche con ‘servo’. Molto bello in relazione ad Is 53!)” (3). L’interpretazione, di grande profondità spirituale, dipende non tanto dall’ipotesi filologica di Jeremias (4), quanto dall’aver inteso il verbo airein come “prendere” (su di sé) piuttosto che come “togliere”. Per quanto la scelta sia opinabile, resta fermo il fatto che le due prospettive sono tutt’altro che incompatibili nel caso in cui la prima (“prendere su di sé”) conduca alla seconda (“togliere”). 
L’opera di Gesù ha tolto il peccato dal mondo. In altre parole, Dio tramite l’Agnello si è riconciliato con il mondo. Non sono le creature umane che, con atti penitenziali o con offerta di sacrifici, cercano di riacquisire il favore divino; è Gesù Cristo a consentire a Dio di riconciliarsi con gli esseri umani. 
L’andamento è esattamente opposto. L’Agnello toglie il peccato del mondo, eppure tuttora la realtà è appesantita dalla moltitudine dei nostri peccati. 
Quest’ultima constatazione rende forse vana l’azione del Figlio venuto nel mondo? La risposta è decisamente negativa se quel “togliere” dischiude la possibilità che tutti i peccati di ciascuno siano perdonati. Ecco perché occorre che si riapra il tempo della supplica: “Agnello di Dio che togli il peccato del mondo”. Il plurale qui è più che opportuno proprio perché ci si colloca nell’orizzonte della richiesta di misericordia. La remissione dei nostri peccati è ormai certa per il fatto che è già stato tolto il peccato. 
Nella formula liturgica per due volte si ripete “misere nobis”. È una invocazione pronunciata da peccatori fiduciosi di essere perdonati. Segue la terza invocazione: “dona a noi la pace”. Anche qui si potrebbe affermare che la pace è frutto del perdono. Il dono può anche essere inteso come il venir resi a propria volta capaci, dopo aver ricevuto misericordia, di riconciliarci reciprocamente. In questa luce la pace contenuta nella terza invocazione è a un tempo dono e compito. O ancor meglio: è un compito proprio perché è un dono. 
Il messaggio profondo contenuto nella frase “Agnello di Dio che togli il peccato del mondo” è trascrivibile anche in un linguaggio proprio di Paolo: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2Cor 5, 18-21). 
Qui è di nuovo sia un portare, sia un togliere il peccato (anche ora detto necessariamente al singolare); è di nuovo Dio a riconciliarsi con il mondo. La supplica di Paolo, invece di essere rivolta verso l’alto, è diretta alle creature umane che devono far proprio quanto c’è già. La prospettiva è più radicale di quella contenuta nell’invocazione diretta a ottenere misericordia: il perdono ci precede. Bisogna però accoglierlo; occorre lasciarsi riconciliare con Dio. La nostra responsabilità è grande. Ci è infatti concessa la libertà di rendere vano quanto Dio ha operato mediante Cristo inviato nel mondo. È sufficiente uno sguardo rivolto alla storia umana passata e presente per far sorgere il lancinante dubbio che non si tratti affatto di una possibilità teorica. È tuttora il tempo di chiedere all’Agnello di aver pietà di noi e di donarci infine la pace.  


Piero Stefani


Note 


1) Secondo la spiegazione più diffusa l’articolo determinativo si spiega in riferimento a: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole” (Dt 18, 18). 


2) Cfr. X. Leon-Dufour, Lettura del Vangelo secondo Giovanni, (Capitoli 1-4), Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1989, p. 240. 


3) D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettera e scritti dal carcere, a cura di E. Bethge, ed. it. a cura di A. Gallas, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, p. 441. 


4) L’ipotesi è che nel quarto Vangelo “agnello” sia la traduzione erronea dell’aramaico talyâ che può significare sia “servo” sia “agnello”.



Esodo n° 2 aprile-giugno 2025

Perdono,giustizia, riconciliazione

contributi di

Arcidiacono, Bachelet, Bolpin, Borraccetti, Cortella, Fattori, Maggi, Manicardi, Manziega, Noffke, Reginato, Rubini, Scrivanti, Ska, Stefani,Trabucco





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