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Luciano Manicardi “Il perdono: incondizionato?”

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Luciano Manicardi, monaco della comunità di Bose, della quale ha ricoperto la carica di priore per 5 anni (2017-2022) afferma che Gesù parla del perdono non come una ricetta, ma come rivelazione di una via percorribile a misura della maturità della persona. Vale per il perdono come per il comando dell’amore per i nemici.


Settanta volte sette 
 Nel vangelo secondo Matteo, Gesù, insegnando a pregare ai suoi discepoli con il Padre nostro, consegna loro anche queste parole: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). E aggiunge una condizione: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, nep- pure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). L’insegnamento è chiaro: la richiesta di perdono a Dio è credibile se accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno. Analogo insegnamento è presente nella liturgia ebraica che afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello” (Mishnà, Yomà 8,9). La parabola del servo spietato, che non perdona il debito risibile che un altro gli doveva dopo che “il re” gli aveva condonato un debito stratosferico e che mai egli avrebbe potuto saldare (Mt 18,23-35), è illustrazione esemplare di tale insegnamento. 
 Gesù racconta tale parabola dopo aver pronunciato un insegnamento sulla correzione fraterna circa le colpe pubbliche (Mt 18,15-18). Che si tratti di colpe pubbliche esige però una precisazione. Per quanto non si possa avere la sicurezza assoluta, è altamente probabile che la lezione preferibile nel v. 15 sia “Se tuo fratello peccherà”, tralasciando quel “contro di te” presente nella traduzione della Bibbia di Gerusalemme, che va spiegato come armonizzazione con il v. 21 (“Se mio fratello commette colpe contro di me”). Subito dopo, Pietro interroga Gesù sulla misura del perdono nei confronti dell’offesa personale (“se mio fratello pecca contro di me”: Mt 18,21). Si tratta di un’offesa a cui non segue il pentimento né la richiesta di perdono da parte dell’offensore. 
 Questo emerge dal testo parallelo di Luca dove si dice invece: “Se tuo fratello peccherà sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà da te dicendo: ‘Mi pento’, tu gli perdonerai” (Lc 17,4). In Luca la concessione del perdono è legata al pentimento dell’offensore. In Matteo il perdono è incondizionato, unilaterale, non preparato da alcuna dichiarazione di pentimento. 
Ma si tratta di una colpa personale, non nei confronti di altri. Questo perdono è possibile quando chi è chiamato a perdonare si ricorda del perdono incommensurabile che ha già ricevuto lui stesso in Cristo. In altre parole: ciascun cristiano si trova, nei confronti del proprio fratello, nella stessa situazione del servo a cui è stato condonato il debito inestinguibile. Stando dunque al nostro testo evangelico, nel rapporto tra due persone il perdono è potenzialmente illimitato. Il problema inizia quando entra in scena il terzo. Se infatti posso perdonare infinite volte il peccato contro di me, non ho l’autorità di perdonare il male che un altro fa a un terzo. E, ugualmente, devo tener conto del terzo di cui ho la responsabilità. Allora è la giustizia che deve intervenire. E la giustizia, a differenza della vendetta che tiene conto unicamente del punto di vista dell’offeso, tiene presente anche il punto di vista dell’offensore. 

Vendetta, perdono, potere 
 Pietro, inoltre, interroga Gesù sul limite del perdono: “quante volte dovrò perdonargli?”. E abbozza una risposta che nelle sue intenzioni è già decisamente ampia, forse perfino esagerata: “fino a sette volte?”. La risposta di Gesù ricorre a una quantità che, se normalmente esprime qualcosa di misurabile, in realtà qui è usata per indicare l’incommensurabile. Sia poi che tale quantità debba intendersi con “settanta volte sette” sia con “settantasette volte”, essa significa il rovesciamento radicale della misura della vendetta formulata da Lamech: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette” (Gen 4,24). Si istituisce un confronto tra vendetta e perdono. E la differenza tra i due atti si gioca essenzialmente sulla temporalità. 
 La vendetta non accetta che il passato sia ciò che è, ovvero passato. La vendetta rende il passato sempre presente, sempre attuale e bruciante. La vendetta rende attuale anche il dolore, la vergogna, l’umiliazione subita un tempo, e ne sente ogni giorno e ogni momento, il carattere abrasivo sulla pelle dell’anima. Così la vendetta instaura un nuovo ordine del tempo e, in questo senso, sembra dotata di un potere divino: il tempo e il suo ordine vengono sconvolti e ricreati. Si pensi all’aura misteriosa e al fascino divino del protagonista de Il Conte di Montecristo: il romanzo è una straordinaria architettura della vendetta messa in atto grazie a un potere di volizione che rasenta il sovrannaturale. Il vendicatore incute timore, è figura divina: egli compie ciò che vuole, sa tutto, domina gli eventi perché sa in anticipo ciò che sta per compiere. Egli sa mentre gli altri non sanno. E così può attuare con devastante efficacia il progetto vendicativo. Egli conosce mentre lui è sconosciuto agli occhi degli altri. Qual è il nome del vendicatore? Il Conte di Montecristo è in realtà Edmond Dantès, ma nessuno lo sa. Dietro la vendetta si profila il problema del potere. 
 La vendetta intende agire sul passato, condannandosi all’impossibile. 
L’ordine temporale ricreato dalla vendetta è tutto centrato sul passato, dunque regressivo, in quanto blocca il tempo a un momento preciso del passato. La vendetta è chiusura che non accetta il novum portato dagli eventi, rifiuta che il futuro possa avere altro segno che quello dell’indefinita ripetizione del già avvenuto, del già visto. La vendetta instaura il tempo seriale, ripetitivo, senza alcuna novità. 
 Ora, anche il perdono è esercizio di un potere e di un potere che è essenzialmente divino: rimettere i peccati. Tuttavia, esso è apertura di futuro e volontà di ripresa di relazione, di ricominciamento. La sua temporalità sana il passato, si volge all’oggi e si protende verso il futuro. Come emerge dalle parole di Gesù rivolte alla donna colta in adulterio: “Va’, e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,11). Colei che non aveva più un futuro adesso ha un presente che si apre al futuro: “d’ora in poi”. Al potere di chiusura della vendetta, si oppone il potere di apertura del perdono. Il perdono apre e libera il passato con la forza della promessa, la vendetta lo chiude assolutizzandolo con la logica del controllo e del dominio. La vendetta chiude nella ripetitività del medesimo, il perdono apre alla novità dell’inedito. Inoltre, mentre il perdono guarda alla persona, la vendetta vede solo l’atto. Il perdono perdona la persona, non l’atto commesso (si perdona l’omicida, non l’omicidio), mentre la vendetta sente solo l’atto e non guarda alla persona. 

Il perdono secondo i vangeli: rivelazione di un possibile 
 Poste queste premesse, posso affrontare la domanda che mi è stata rivolta chiedendomi questo articolo. E la domanda suona così: “Il perdono deve essere incondizionato? Devo perdonare anche a chi non ammette la sua offesa e non fa un cammino di ravvedimento?”. La prima risposta è un no secco a quella doppia ricorrenza del verbo “dovere” che fa del perdono un’imposizione. Il perdono ha senso se è un atto di libertà. Imporre alla vittima il perdono come un dovere è aggiungere violenza alla violenza subita. E le parole dei vangeli sul perdono? Queste parole intravedono diverse risposte e possibilità: si perdona a chi ti ferisce e continua a offenderti, ma sempre si pente (Lc 17,4); si perdona infinite volte a chi pecca contro di te anche se non si pente: l’offeso ha il potere di decidere il perdono per il male che ha subito (Mt 18,21-22); la parabola del padre misericordioso dice che “perdono” è il nome che il figlio, che si è allontanato da casa e ha vissuto in modo dissennato, potrà dare all’amore del padre che non è mai venuto meno. 
Ovvero, la parabola insegna che il pentimento può nascere dal perdono e farvi seguito, non il contrario (Lc 15,11-32). 
 C’è poi un primato del perdono e della riconciliazione sulla liturgia e sul culto per cui l’atto cultuale (Mt 5,23-24) e la preghiera (Mc 11,25) devono essere posposti al preliminare incontro di riconciliazione con colui che ha qualcosa contro di noi o contro cui noi abbiamo qualcosa. Sempre si tratta di offese personali, non riguardanti un terzo. Possiamo dire che le parole e la vita di Gesù indicano una direzione ma non forniscono una ricetta. All’uomo non è certo tolta la fatica del discernimento e del mettere in campo la propria fede e la propria capacità di amare, di assumere il male subito, di elaborarlo, di farne qualcosa a misura delle proprie capacità e possibilità. Se infatti l’esercizio del perdono si esprime nella pronuncia delle parole “Ti perdono”, questo avviene autenticamente al termine di un processo lungo e faticoso, che richiede tempo e passaggi interiori e non solo (1). Anche il comando di perdonare (Mc 11,25: “perdonate”) va inteso come rivelazione di una potenzialità, di una possibilità, come apertura di una via percorribile a misura della maturità della persona, delle sue forze e dei suoi limiti. Vale per il perdono come per il comando dell’amore per i nemici: la fede in Cristo che ha amato anche il nemico personale, Giuda, apre questa possibilità al credente. Ma di possibilità si tratta, non di imposizione, e ciascuno tradurrà nel proprio vissuto tale possibilità a seconda delle sue capacità e della sua fede. 
 Quanto al “potere” del perdono occorre ricordare che Gesù stesso, sulla croce, ha invocato il perdono di Dio per i suoi aguzzini: il che significa la sua personale disponibilità al perdono, ma anche che il perdono spetta a Dio. 
Quando Gesù afferma che vi è un “imperdonabile”, il peccato contro lo Spirito santo (Mt 12,31-32), lo fa subito dopo aver affermato che “qualunque peccato o bestemmia sarà perdonata agli uomini” e il soggetto di tale perdono è evidentemente Dio stesso. Tutto dunque può essere perdonato, ma l’uomo può sottrarsi al perdono, può negare il proprio bisogno di perdono, stravolgendo la realtà propria e personale e misconoscendo l’azione compiuta da Dio per mezzo dello Spirito. Quelle parole Gesù le pronuncia nel contesto della discussione con avversari che lo accusano di scacciare demoni per mezzo del capo dei demoni. Mi chiedo se quel peccato che non sarà perdonato “né in questo mondo né in quello futuro” (Mt 12,32; cf. Mc 3,29) non esprima un rispetto della libertà umana fino in fondo, anche quando questa libertà si rende cieca annegando nella menzogna e nella distorsione della realtà e della verità. Al tempo stesso, poiché tale parola è pronunciata nel contesto di una discussione, si può pensare che essa sia anche un avvertimento verso una resipiscenza ancora e sempre possibile. 
 E comunque, mentre ci si interroga sui limiti del perdono, se sia condizionato o incondizionato, occorre chiedersi che cos’è il perdono. Che cosa avviene quando si pronuncia la frase “Ti perdono”? Che cosa cambia rispetto a prima? E cosa cambia, o, più realisticamente, che cosa è già cambiato in colui che pronuncia la frase, e che cosa cambia in colui che ascolta tale frase? 
E a questo punto dovremmo aprirci alle miriadi di risposte e atteggiamenti possibili che ciascuno, tanto l’offeso quanto l’offensore, possono realisticamente arrivare a vivere a partire dalla loro biografia, dalla loro condizione spirituale. La domanda esplode in una miriade di risposte che equivalgono a dire che non c’è la risposta. 
 Accenno poi soltanto al fatto che il perdono è oggi reso oggetto di consumo sui media come appare dalle interviste a persone lese nei loro diritti o colpite da crimini e che assistiamo a una banalizzazione del perdono che dimentica completamente la serietà e la gravitas dell’atto del perdono. E inoltre al fatto che, come ogni realtà umana e spirituale, anche il perdono va soggetto a manipolazioni e strumentalizzazioni, a distorsioni e pervertimenti. Nell’ampia e purtroppo variegata pratica di abusi nella chiesa spesso l’abusante colpevolizza la vittima e presenta sé stesso come vittima a cui l’altro dovrebbe chiedere perdono. 

Di fronte all’estremo 
 La domanda che mi è stata rivolta con la richiesta dell’articolo mi ha indotto a rileggere Il girasole di Simon Wiesenthal (2). Il libro è celebre ma forse occorre ricordare di cosa tratta. Il testo racconta un episodio realmente accaduto a Simon Wiesenthal mentre era internato in un campo di concentramento nazista durante la Seconda guerra mondiale. Si viene a trovare al capezzale di una giovane SS morente che gli racconta la sua vita, la sua partecipazione a un’orrenda carneficina in cui sono stati brutalmente uccisi uomini, donne e bambini, e implora Simon, in quanto ebreo, di perdonarlo per poter morire in pace. L’autore del libro ascolta il suo racconto, ma se ne va senza accordargli il perdono. Dopo la guerra Wiesenthal manda il suo racconto a molte personalità afferenti ad ambienti politici, diplomatici, religiosi, intellettuali per avere una risposta alla domanda che continuava a tormentarlo: “Ho avuto ragione o torto negando il perdono?” (3). La situazione di Wiesenthal è interna all’“estremo” di cui parla Tzvetan Todorov e dunque potremmo giudicare insensato riferirci a essa per parlare di quel perdono che nella normalità delle nostre esistenze riguarda eventi di solito decisamente meno tragici. 
L’autenticità di un evento di perdono è connessa alla situazione concreta in cui questo viene dato o rifiutato. 
 A questo proposito, penso utile riportare due stralci del libro di Wiesenthal. Arthur, un compagno di detenzione di Wiesenthal gli dice: “Se domani tornerà a esistere un mondo ragionevole, abitato da uomini che si considerano esseri umani tra loro, avremo tutto il tempo di discutere sul perdono. E si leveranno voci pro e contro, e forse ci sarà anche chi non ti perdonerà di non aver perdonato... ma chi non ha provato sulla sua pelle non potrà mai capire” (4). Poi lo stesso autore annota: “Dopo la guerra, preti, filantropi e filosofi si presentarono per chiedere al mondo di perdonare ai nazisti. Erano per lo più anime belle, che non avrebbero mai perdonato a nessuno uno schiaffo ricevuto, ma che non trovavano difficile perdonare in nome di milioni di innocenti assassinati” (5). Il che ci dice che non solo l’atto del perdono, ma anche il parlarne o lo scriverne, il farne oggetto di discorso è oltremodo delicato ed esposto a molti e gravi rischi. 
 Personalmente condivido l’idea che l’estremo riveli “la verità di situazioni normali” (6). E una lezione che si ricava dall’esperienza estrema vissuta da Wiesenthal è quella della spesso inestricabile complessità del perdono, dei suoi notevoli limiti, dell’ingiudicabilità dei comportamenti di chi si trova di fronte al male commesso e a chi l’ha compiuto, come anche di chi il perdono lo chiede. Si è, infatti, posti davanti all’intimo della persona, alla sua vita spirituale, emotiva, psichica; ci si trova di fronte alla persona nel suo nucleo intangibile e impenetrabile di mistero. Questo ovviamente quando richiesta e concessione del perdono sono autentiche e sottratte agli usi strumentali e interessati, alle manipolazioni e distorsioni sempre possibili. 
 Che dedurre dal testo di Wiesenthal? Che posso perdonare il male fatto a me, ma non posso perdonare per conto terzi. Forse può dire una parola di perdono chi era così strettamente legato alla vittima che l’offesa all’altro ha colpito anche lui e messo a morte almeno una parte di sé e della propria vita. 
La SS morente è sinceramente pentita: era condizione sufficiente per accordare il perdono? I due che si trovano davanti sono sconosciuti l’uno all’altro. Wiesenthal è lì come “rappresentante” degli ebrei. Perdonare non avrebbe significato perdonare anche il mondo di cui di fatto era rappresentante il nazista? E questo non sarebbe forse stato un atto blasfemo? E che avrebbe significato? Il sollievo psicologico di un morente? Wiesenthal avrebbe dovuto resecare via il morente dal mondo nazista a cui aveva aderito e considerare solamente la sua situazione di individuo prossimo alla morte e divorato dal rimorso per ciò che aveva compiuto? 
 Mi ribello interiormente al solo scrivere le parole “avrebbe dovuto”. La shoah è crimine talmente eccedente la misura umana che rientra nella categoria dell’“inespiabile”. Ma questa misura diabolicamente sovrumana, è stata resa possibile dallo zelo di tanti volenterosi umani operai. Come del resto è avvenuto dopo la shoah e avviene ancora oggi in altri genocidi. 
 E poi: non pensiamo solo all’accordare il perdono, ma chiediamoci: che significa chiedere perdono? Che cosa cercava la SS chiedendo perdono a Wiesenthal? Non è significativo che essa abbia voluto lasciare a lui le poche cose che possedeva, incaricando l’infermiera che lo curava di consegnargliele? Wiesenthal ha ascoltato per ore la confessione del morente, dandogli tempo, ascolto, parola e presenza. Dandogli relazione. Chiedere perdono, non è forse una maniera di invocare una qualche forma di relazione con chi si è offeso o con chi era in contatto con chi si è colpito e ora non c’è più? 
 Wiesenthal riporta queste parole del morente: “Io sono qui con la mia colpa. Nelle ultime ore della mia vita lei è vicino a me. Non so chi è lei, so solo che è un ebreo. E questo basta” (7). Dunque: che significa chiedere perdono? 
Anche qui, probabilmente, come uno specchio che si rompe e va in mille pezzi, la domanda si frantuma in mille risposte tutte attinenti al mistero della persona. E allora la migliore risposta alla richiesta che mi è stata fatta chiedendomi questo articolo è quella di abitare la domanda. E di leggere e rileggere il libro di Wiesenthal, accompagnando la lettura con l’osservazione che, a suo proposito, ha fatto Paolo De Benedetti: “Esprimendomi con un paradosso, direi che chiedere perdono e non riceverlo era la condizione necessaria per entrare nell’altra vita dove Dio può - ma solo là, non quaggiù - perdonare i morti a nome dei morti. Se il secolo XX dovesse trasmettere al secolo XXI un solo messaggio, vorrei che fosse l’angosciosa domanda del Girasole” (8).  


Luciano Manicardi


Note 


1) Cf. L. Manicardi, “Pace, giustizia, perdono”, in “Esodo” 2 (2002), pp. 57-61. 

2) S. Wiesenthal, Il girasole. I limiti del perdono, Garzanti, Milano 1970. 

3) Wiesenthal, Il girasole, p. 97. 

4) Ivi, p. 74. 

5) Ivi, p. 83. 

6) T. Todorov, Di fronte all’estremo. Quale etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio?, Garzanti, Milano 1992, p. 275. 

7) Wiesenthal, Il girasole, p. 54. 

8) Ivi, p. 111.



Esodo n° 2 aprile-giugno 2025

Perdono,giustizia, riconciliazione

contributi di

Arcidiacono, Bachelet, Bolpin, Borraccetti, Cortella, Fattori, Maggi, Manicardi, Manziega, Noffke, Reginato, Rubini, Scrivanti, Ska, Stefani,Trabucco





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