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Lidia Maggi "Bonhoeffer. Il suo sguardo come dono per noi"

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Rocca n° 14 
15 luglio 2025

Ottant’anni dopo la sua morte, torniamo ad interrogarci su Dietrich Bonhoeffer. A fare i conti con quanto ci ha lasciato in eredità. La riflessione teologica analizza e discute il lascito testamentario; le Chiese si domandano come gestirlo in questo tempo. L’eredità, se non viene congelata in senso museale, richiede sia il desiderio di capire a fondo il senso di quanto è stato ricevuto, sia l’azzardo necessario di posizionare il bene acquisito in eredità nei nuovi spazi abitati dagli eredi. È quanto hanno provato a fare i diversi contributi ospitati in queste pagine. Ma prima ancora di queste due mosse necessarie, a monte di queste, sta lo stupore per il dono ricevuto. Uno stupore che non si esaurisce in frasi di circostanza, in elogi celebrativi, cui segue inevitabilmente la visita alla discarica per liberarsi di una donazione troppo ingombrante e non in linea con l’attuale design della casa. Nell’elaborazione dell’eredità – se così si può dire – il momento della scoperta del testamento è passaggio decisivo e non solo premessa emotiva. Se l’accuratezza notarile è necessaria per restituire l’esatta portata del lascito; e la successiva gestione di quanto è stato ricevuto determinerà l’effettivo impatto di quella eredità; lo stupore iniziale mostra il grado di coinvolgimento del beneficiario in questa operazione che va oltre la semplice transazione di beni, rivelandosi ingrediente decisivo nella delineazione dell’orizzonte storico entro il quale prende senso il proprio singolare stare al mondo. 
Singolare, perché lo stupore passa per il filtro del proprio vissuto, senza pretendere che lo stesso effetto sia provato da altri. È dell’ordine del “testimoniale”, non dell’oggettività accademica e della plausibilità ecclesiastica. 

LO STUPORE VERSO LA SUA VITA E LA SUA SPIRITUALITÀ 

Da prendere, dunque, con le pinze: non vi è qui nessuna pretesa di dire parole nuove su Bonhoeffer o di introdurre alla sua figura quanti ancora non ne sono a conoscenza. Solo la comunicazione di uno stupore, dell’impatto di una vicenda biografica e spirituale così differente dalla mia. Provo a nominare il mio stupore di fronte a Dietrich Bonhoeffer: è la meraviglia per un uomo che è riuscito ad “andare oltre” la situazione in cui si trovava a vivere. Gli era capitato di nascere in una famiglia altolocata, con ottime entrature nella società che conta. Le sue doti intellettuali gli avevano aperto una carriera da teologo di successo. E come tale gli si era offerta la possibilità di insegnare oltreoceano, in un ambiente al riparo della furia nazista. Lui, però, non si è avvalso di questi privilegi per fuggire, per garantirsi una collocazione sicura. 
Il suo “andare oltre” non ha riguardato solo le condizioni materiali del suo vissuto: è stile che ha penetrato la sua anima. Lui, aristocratico, posizionato cioè in alto, e capace da quella postazione privilegiata di abbracciare con uno sguardo precluso ai più il panorama sociale come quello teologico; eccolo ricercare uno “sguardo dal basso”. 
Non “dall’alto in basso”: proprio “dal basso”, con la pazienza di chi si sbarazza delle grandi deduzioni apprese nel corso di una formazione eccellente e ricomincia a guardare, ad ascoltare, a porre domande, come se si affacciasse alla vita per la prima volta. Com’è possibile abitare la terra in questo modo? E come si vive la fede al di fuori delle certezze catechistiche? Per me lo stupore di fronte a Dietrich Bonhoeffer sta tutto qui. 
Stupore perché noi, perlopiù, siamo degli esecutori del mestiere di vivere. Detto in modo provocatorio: siamo come dei dischi rotti. Abbiamo le nostre solite idee, che ripetiamo con qualche variante; compiamo i soliti gesti. La fede, poi, la viviamo come il territorio delle certezze inscalfibili, soprattutto oggi, in un contesto spiazzante per la velocità dei cambiamenti. 
La fede diviene marcatore identitario, ancoraggio a qualcosa di stabile, che non muta con il variare degli scenari socio-culturali. E proprio a me, figlia di questo tempo, ecco che viene offerta l’eredità di un uomo, un teologo, un credente, che ha vissuto diversamente la sua umanità e la sua fede, in una disponibilità sconcertante alla revisione e al cambiamento. A partire da quello sguardo acceso sulla realtà, sguardo spiazzante perché incapace di giungere alla totalità e alla sicurezza. 

L’AVER IMPARATO UNO SGUARDO DAL BASSO 

Rileggiamo quelle parole che mostrano la sua ipotesi di lavoro: “Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti. Se in questi tempi l’amarezza e l’astio non ci hanno corroso il cuore; se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza; e se la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile; se, anzi, la sofferenza personale è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo accessibile attraverso la riflessione e l’azione: tutto questo è una fortuna personale. Tutto sta nel non far diventare questa prospettiva dal basso un prender partito per gli eterni insoddisfatti, ma nel rispondere alle esigenze della vita in tutte le sue dimensioni; e nell’accettarla nella prospettiva di una soddisfazione più elevata, il cui fondamento sta veramente al di là del punto di vista dal basso e dall’alto”. 
Sguardo lucido, partecipato, libero dal risentimento dell’insoddisfazione, preoccupato di capire, di lasciare che l’ordine del giorno lo detti la realtà e non la propria agenda. Come si matura uno sguardo simile? Perché i miei occhi mettono a fuoco altro? Come mi misuro con quest’uomo che, nel suo lascito testamentario, mi pone la domanda: cosa vedi, quando guardi? Lui, mi sembra di capire, non ha giocato in difesa, non ha guardato la storia e il Dio della storia preoccupato di cercare conferme a quanto già riteneva giusto, vero. 
E dove avrà appreso questa sensibilità, che sento profondamente evangelica, in quanto mette in uno stato perpetuo di conversione? 
Un elemento che ritrovo nel suo testamento — non l’unico, certo — è la cura per le relazioni, per un’amicizia che è affezione e confronto, ascolto attento e discussione. Come dire: uno sguardo del genere non lo si matura in solitudine. Ci vogliono almeno due anime curiose, che si mettono in gioco in prima persona. Che non sono preoccupate di garantire la posizione acquisita o di declamare la bontà dei prodotti esposti nel proprio negozio. Lo sguardo dal basso strappa dall’empireo delle idee già raggiunte e dalla fatica conservativa che cerca conferme. Lo sguardo dal basso è quello che sa riaprire i giochi. 
Inoltre, sento che questo sguardo si è nutrito della sapienza biblica, della polifonia delle sue narrazioni, che aprono sguardi inediti, che bollano come idolatra ogni fissità. 

OLTRE I CONFINI DEL CELEBRATIVO 

Ascoltando alcuni passaggi del testamento, mi è sorta l’immagine di un uomo, un teologo, un credente che si è lasciato attraversare dal sospetto, di cui è portatore il racconto delle Scritture, che la realtà potrebbe essere guardata diversamente da come di solito la si osserva. Il sospetto non è categoria bonhoefferiana; e tuttavia è risuonato proprio così dentro di me. Un sospetto che non ha solo una gratuità di partenza, essendo parola che giunge da altrove, che si offre in modo incondizionato, senza meriti di chi la riceve. 
Oltre alla gratuità dell’origine ve n’è una molto più esigente, o dura da accettare, ed è quella della verifica finale. 
Dietrich Bonhoeffer non ha visto la terra promessa, che lo sguardo dal basso gli aveva mostrato. Ecco la “grazia a caro prezzo”. Noi mettiamo in atto dei cambiamenti perché in questo modo sperimentiamo un miglioramento delle condizioni di vita. Ma quando, mosso dal sospetto del Regno — un altro Reich! — scorgendone le tracce dal basso, Dietrich Bonhoeffer sperimenta il peggioramento, la sconfitta e non può nemmeno sapere se in seguito la storia gli darà ragione, se il suo sforzo ne è valso la candela, allora il mio stupore si intensifica. La sua vicenda storica si è conclusa nella sconfitta. Eppure per lui quella fine era anche un principio. 
L’inizio messo in atto dal sospetto che il mondo e persino Dio potrebbero essere diversi. Che l’umanità come le Chiese non sono destinate ad essere dischi rotti, aggrovigliati attorno a delle presunte verità che solo occhi miopi ritengono essere uniche e immodificabili. 
Mi scuso per aver dato la parola solo al mio personale stupore. Il fatto è che lo sento così promettente, per non ridurre quest’uomo a icona o classico, per farlo uscire dai pur necessari manuali, nei quali peraltro si può leggere con profitto la ricchezza della sua eredità. È lo stupore che tiene desta la domanda su cosa ce ne facciamo dell’eredità lasciataci in dono. Che strappa dalla postura conservativa e ci posiziona in quella generativa, pronte a dare vita a qualcosa di nuovo, oltre i confini del celebrativo. 
Nella tradizione ebraica si dice che non c’è tradizione – il gesto del “tradere”, del consegnare in eredità – senza innovazione. Da Dietrich Bonhoeffer ricevo, grata, l’indicazione dello sguardo dal basso, per poterlo accendere sul panorama sociale ed ecclesiale che mi si dispiega, ora, di fronte. Uno sguardo impegnativo, da maturare a caro prezzo: al prezzo di una vita che prova a ricalcare le orme del profeta di Nazaret, osservando la realtà con i suoi stessi occhi, come ha fatto il suo discepolo Dietrich Bonhoeffer.

 











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