Massimo Recalcati e monsignor Renzo Pegoraro a confronto: "Chi decide sulla vita?"
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Laura Santi, consigliera generale dell’Associazione Luca Coscioni, nata nel 1975, affetta da oltre 25 anni da una forma progressiva e avanzata di sclerosi multipla, che ha iniziato il suo decorso progressivo nel 2014, fino ad arrivare alla forma attuale.“Non voglio morire oggi e nemmeno domani. Anzi, se la mia malattia restasse così, ve lo dico, io resterei qui. Amo la vita, ho un marito meraviglioso”, scriveva. Ma conosceva bene il futuro che l’aspettava. Dopo 25 anni di malattia, era completamente tetraplegica, dipendente in tutto e per tutto dall’assistenza. “Vorrei, un giorno, poter dire basta. Vado via. Aiutatemi a morire”, spiegava con lucidità, mentre chiedeva di poter scegliere, come previsto dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, quando e come porre fine alla sua sofferenza.
La sua battaglia è giunta alla fine martedì 22 luglio 2025.
Pubblichiamo due articoli che affrontano la scelta di Laura con taglio differente.
La lettera-testamento di Laura Santi
la Repubblica, 23 luglio 2025
La lettera-testamento con la quale Laura Santi ha deciso di congedarsi dalla vita, scritta
con una straordinaria lucidità che contrasta con il momento tragico di questa ultima scelta,
non può essere considerata un epilogo. Il suo ultimo gesto non è stato di chiusura ma di
apertura. In primo piano non è, infatti, la morte ma la vita e il suo diritto a poter essere
vissuta degnamente sino alla fine. In gioco non è il rifiuto della vita nel nome della morte,
ma un appello affinchè sia preservata la possibilità di una vita che possa custodire sino al
suo termine la propria umanità. Si tratta di un gesto di chi reclama il diritto a morire non
come un animale braccato dal male, ma come un soggetto che decide quale è il limite della
propria resistenza. Se leggiamo con attenzione questa ultima lettera-testamento non si può
ignorare ancora una volta la violenza con la quale la malattia ha strappato Laura dalla
propria vita e in seguito la sua tenace resistenza durata anni, settimane, giorni, ad un dolore
che non le lasciava tregua.
Dovremmo allora santificare quel dolore, imporlo come una purificazione dell’anima dai
suoi peccati, secondo una follia teologica che fa del dolore stesso il segno di una impurità
morale? Non è stato proprio Giobbe, in realtà, il primo a denunciare questa impostura? Il
male non è segno di una impurità perché può colpire anche la vita dei giusti e degli
innocenti. Non è, dunque, solo un pregiudizio religioso che impedisce che si pratichi un
atto di pietas autentico che possa alleviare la vita di chi soffre senza alcuna speranza di
guarigione? Il dolore e la malattia che non lasciano scampo, non sono il segno di un
significato recondito, ma solo di una aspra avversità che può costringerci alla resa. Il rifiuto
di chi sceglie il suicidio assistito non è mai rifiuto della vita, ma è rifiuto di ridurre la vita
ad una vita già morta.
Se Laura Santi ha compiuto questa scelta drammatica è perchè la sua vita non aveva più ai
suoi occhi i tratti fondamentali della dimensione umana della vita, perché era divenuta
semplicemente una vita impossibile da sopportare. Ma si tratta di una resa che non è affatto
una capitolazione. Piuttosto, è la rivolta alla retorica tossica della "lotta" che trasforma il
malato in un gladiatore costretto a combattere per il voyeurismo di chi magari non conosce
quel dolore senza scampo e si permette di giudicarlo considerandolo come necessario. Ma
necessario a cosa? Nessun sostenitore dell’eutanasia pretenderebbe di imporla come la sola
scelta possibile. È solo il soggetto sofferente e senza speranza che dovrebbe poter
domandare liberamente di essere accompagnato a lasciare una vita divenuta irriconoscibile
perché fonte continua di strazio.
L’esperienza umana del limite non può essere, come tale, normata universalmente.
Ciascuno deve avere la possibilità di confrontarvisi in totale libertà. Esiste un giusto modo
di morire? La morte giusta sarebbe la morte naturale? Ma ogni soggetto non si umanizza
proprio nel separarsi dall’immediatezza dell’istinto animale facendosi responsabile della
propria vita? Per questo il suicidio è un atto tanto tragico quanto massimamente umano.
Si dovrebbe sempre nutrire rispetto nei confronti di chi si consegna alla morte perché
straziato da una malattia che non può essere curata. Il legislatore terrà conto
adeguatamente di questo principio? Se Laura Santi ha deciso con la sua lettera-testamento
di rendere la sua morte un evento pubblico è per testimoniare la necessità di salvaguardare
la dimensione umana della vita e non per sponsorizzare la morte come soluzione al dolore
della vita. Anzi, scrive di avere goduto della vita sino alla fine, fino all’ultimo e che
sicuramente ne avrebbe voluta ancora di vita se non fosse stata schiacciata dai dolori
estenuanti imposti dalla malattia.
Come è possibile non esserle vicini, non essere solidali con la sua scelta, non sentirsi uniti
a tutte le persone che le sono state al fianco, che ha amato e che ringrazia nelle sue ultime
parole? Il supplizio di una vita fatta di dolore e di mancanza assoluta di speranza rende la
sua negazione un paradossale atto vitale. In questi casi, come ho già avuto modo di scrivere
sulle pagine di questo giornale, la morte stessa può diventare un dono. Diversamente,
l’accanimento terapeutico può essere considerato come una nuova forma efferata di
biopotere che scambia la sopravvivenza con il diritto alla vita.
Laura Santi ha trasformato il suo corpo devastato dal male in un magistero mostrandoci
che spetta solo al malato la libertà di decidere come incontrare il proprio limite. Non come
uno schiavo incatenato a delle macchine o a delle cure palliative che non possono più
lenire il dolore. Nella sua lettera-testamento non c’è solo la inevitabile tristezza di chi ha
dovuto lasciare prematuramente i suoi affetti e la sua stessa esistenza, ma c’è anche un
gesto politico coraggioso che ci ricorda che le leggi servono a tutelare l’umanità dell’essere
umano e non a violarla sadicamente. Le sue parole ci obbligano a scegliere da che parte
stare: dalla parte di chi pretende di imporre la propria misura di vita dignitosa agli altri o
dalla parte di chi reclama il diritto di ciascuno di confrontarsi liberamente con il proprio
limite?
«Il suicidio è sconfitta, valutino commissioni medico legali regionali»
Avvenire giovedì 24 luglio 2025
intervista di Angelo Picariello
Monsignor Pegoraro, presidente della Pontificia accademia per la vita. «Non basta un comitato nazionale, occorre discernimento. L'esclusione del servizio sanitario nazionale può creare derive»
«Prossimità e discernimento per evitare una deriva nella tutela della vita che è alla base del rapporto medico-paziente». È questa la principale raccomandazione che rivolge al legislatore monsignor Renzo Pegoraro, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, dalla quale ne discendono, in concreto, altre tre. Rendere davvero accessibili a tutti le cure palliative, per offrire un efficace trattamento del dolore e della sofferenza e consentire così un reale discernimento sulle decisioni da prendere. Valutare attentamente, poi, se l’esclusione del Servizio sanitario nazionale dalla normativa non rischi di produrre effetti contrari a quelli che ci si ripropone di realizzare. No, infine a un Comitato etico nazionale. «C’è già un comitato nazionale di bioetica», ricorda Pegoraro. Mentre, proprio per garantire prossimità e discernimento, «potrebbe essere opportuno dar vita a delle commissioni medico-legali su base regionale».
Ma intanto si continua a invocare un diritto al suicidio che l’ordinamento esclude e la Consulta non chiede di introdurre...
È bene precisare che non è in discussione la riconferma dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio come reati, si sta discutendo solo dell’introduzione, sulla scorta della sentenza della Corte Costituzionale, di una depenalizzazione dell’aiuto al suicidio quando ricorrono le ben note quattro condizioni poste dalla Corte: malattia incurabile, sofferenza insostenibile, dipendenza da sostegni vitali e piena capacità di intendere e di volere.
Una casistica in larga misura originata dall’evoluzione delle tecnologie e della scienza. Il Magistero della Chiesa cattolica da tempo condanna però l’accanimento terapeutico. Come discernere?
Finora in Italia il problema si è posto soprattutto in relazione a casi di sclerosi laterale amiotrofica, o di sclerosi multipla, o di tetraplegia post-incidenti. Di fronte alle singole situazioni solo un rapporto diretto medico-paziente, che coinvolga le famiglie, può consentire un vero discernimento. Solo in una condizione di relazione diretta e di ascolto si può valutare la sussistenza o meno dell’accanimento terapeutico, che nell’enciclica “Evangelium Vitae” del 1995 viene configurato in relazione ai soli casi di trattamenti «sproporzionati», in riferimento ai quali «si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato».
Fra queste, evidentemente, rientrano anche le cure palliative...
Sicuramente: perché questa valutazione non risulti influenzata ideologicamente debbono essere rese disponibili le terapie del dolore e, ove necessario, anche la sedazione palliativa profonda. Solo in questo modo si può venire concretamente incontro al bisogno del paziente.
Lei ha detto che l’aiuto al suicidio è una sconfitta per tutti.
Lo è per il paziente che rinuncia al suo diritto a vivere, lo è per il medico, che viene meno ai suoi principi deontologici. Per questo va valutato ogni caso attentamente, evitando che si consideri il suicidio una soluzione ai problemi delle sofferenze del paziente.
Un solo Comitato di valutazione nazionale non è insufficiente per rispondere allo scopo?
Bisogna distinguere i livelli. C’è un livello di valutazione etica che in alcune Regioni (Veneto, Toscana) si attua con i Comitati etici per la pratica clinica, che esprimono pareri non vincolanti e aiutano a comprendere e analizzare la singola situazione. Ma si potrebbe considerare l’istituzione di commissioni medico-legali a livello regionale che valutino le condizioni richiamate dalla sentenza della Corte e le eventuali modalità di attuazione del suicidio assistito.
L’esclusione dalla norma del Servizio sanitario nazionale è un errore?
Occorre una valutazione attenta per evitare di reintrodurre dalla finestra ciò che si è escluso dalla porta. Si rischia di affidare queste pratiche a strutture già orientate al suicidio assistito, che sfuggono ad ogni controllo. Se l’obiettivo è non istituzionalizzare queste procedure bisogna attentamente valutare se non si rischia invece, così, di introdurre una deriva di segno opposto.