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Fede, cuore e desiderio: perché Bergoglio è stato un Papa romantico

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In un'epoca disabituata a sognare, Francesco ha proposto un pensiero vivo, che non ha avuto paura della complessità. Così si spiega anche la sua critica al narcisismo sociale e all'inflazione dell'io.

Il rapporto tra fede e ragione è una colonna portante dell’identità intellettuale cattolica. L’idea che queste due dimensioni dell’umano dovessero dialogare, sostenersi, evitare i reciproci abissi - fanatismo da una parte, nichilismo dall’altra - ha guidato l’elaborazione teologica e ha trovato nel 1998 una elaborazione importante nell’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità», scriveva Wojtyla. Questo equilibrio corre un rischio noto: quello di diventare schema fisso, griglia, teoria che, nel tentativo di tenere insieme il tutto, rischia di escludere la vita nella sua carne e nei suoi contrasti. E Wojtyla stesso ruppe lo schema con la sua opera poetica. 

Papa Francesco ha ereditato questa tensione, e ha scelto di compiere un passo ulteriore: ha spostato il baricentro. Lì dove molti cercavano un nuovo sistema, una teoria alternativa, lui ha operato una mutazione più profonda: un cambio di postura. «La realtà è superiore all’idea», ha scritto in Evangelii gaudium. Frase semplice, ma dal potenziale sovversivo. È un invito a guardare al mondo prima che alle sue rappresentazioni. A fidarsi dell’esperienza, prima che delle formule. E soprattutto, a ridare spazio alle ragioni del cuore. 

È stato il cuore, infatti, la vera posta in gioco del suo pontificato: non come sentimentalismo facile o esaltazione delle emozioni, ma come centro vitale, punto di incontro tra pensiero, volontà e affetto. Il cuore come luogo della verità. Non di una verità astratta, ma di una verità vissuta, incarnata, spesso contraddittoria. 

Jorge Mario Bergoglio è cresciuto in una Buenos Aires impregnata di cultura psicoanalitica. Freud e Lacan facevano parte del paesaggio. I caffè della capitale argentina pullulavano di discussioni sul trauma, sull’inconscio, sulla rimozione. La psicoanalisi, lì, non era solo una disciplina clinica, ma una chiave culturale. Pur senza adottarne il linguaggio - e anzi mettendone in discussione gli esiti più autoreferenziali - Bergoglio ha assorbito qualcosa di quel clima: una certa attenzione al conflitto interiore, alla complessità del soggetto, alla narrazione come spazio di elaborazione. Anche la sua lettura della storia risente di questa sensibilità: basti pensare all’insistenza sulla memoria della dittatura argentina, vissuta non come ferita da chiudere in fretta, ma come trauma da attraversare per fare giustizia. 

Non è Freud, però, il vero punto di riferimento di Francesco. È Ignazio di Loyola. Il suo discernimento, cuore della spiritualità gesuitica, si esercita ascoltando le mozioni interiori: da dove vengono? Portano alla vita o alla morte? Alla verità o all’inganno? L’ombra, qui, non è negata, ma attraversata. Il dubbio non è condannato, ma accolto come passaggio. È un pensiero che accetta il conflitto, non per celebrarlo, ma per non ignorarlo. La verità, suggerisce Francesco, non si dà senza il turbamento del cuore. La vita spirituale è un tango. E soprattutto: non si dà senza passione. Ecco: Francesco è stato un papa «romantico», opponendosi all’illuminismo di una fides che fa pendant esclusivamente con la ratio. Francesco ha chiesto di uscire dalle secche col «recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento». Ha fatto appello a quel Génie du christianisme del quale alla fine del ‘700 aveva scritto Chateaubriand e il suo approccio al pensiero ci ricorda Schlegel e quei «magnifici ribelli» del Circolo di Jena al quale apparteneva il suo adorato Friedrich Hölderlin. Sì, il pontificato di Francesco è stato potentemente romantico. E il suo genio si estendeva ai gesti così potentemente capaci di parlare al cuore. 

Francesco ha portato questa visione nel cuore stesso del papato. Ha infranto le dicotomie facili: giusto e sbagliato, fede e dubbio. Ha mostrato che la persona umana vive in zone grigie, abita ambivalenze, e che proprio lì si gioca il discernimento. La vita, del resto «non è un quadro in bianco e nero. È un quadro a colori», ha scritto Francesco, citando i versi di Baudelaire su Rubens, lì dove scrive che la vita è fluida e si agita senza sosta come si agita l’aria in cielo e il mare nel mare. Per Francesco la verità non è mai stata un oggetto da impugnare, ma una via da percorrere. E il desiderio non è una minaccia da reprimere, ma una forza da ascoltare. 

In questo senso, Francesco inserisce nella riflessione cattolica una componente spesso trascurata: la dinamica del desiderio. La sua lettura della politica, ad esempio, non è mai stata freddamente tecnocratica. Sapeva che il potere si esercita non solo nei meccanismi istituzionali, ma nel simbolico, nell’affettivo, nel subconscio collettivo. Per questo ha riconosciuto nella religione una risposta viva e popolare a bisogni profondi: senso, protezione, appartenenza. E populismi, nazionalismi, ideologie identitarie erano per lui tutte realtà che legge non solo in chiave ideologica, ma come sintomi di un desiderio disorientato, dolente, talvolta manipolato. 

Tutto questo trova una sintesi potente in Dilexit Nos, la sua ultima enciclica. Un testo che non impone tesi, ma propone un’immagine: quella del cuore come crocevia di vita. Lì si incontrano ragione, emozione, azione. Lì si ama, si soffre, si spera. Separare il cuore dalla conoscenza significa spezzare la persona. E Francesco lo rende evidente nella sua passione per la poesia e la letteratura. Con Francesco per la prima volta nei tempi moderni il logos poetico entra a pieno titolo nel magistero pontificio, quindi non solamente come citazione o esemplificazione o come espressione di un genio personale, ma come forma e linguaggio di testi magisteriali. Per questo Bergoglio amava i tragici come Dostoevskij, il quale ci fa capire che la razionalità, se non scaldata dal cuore, può diventare ferocia. E anche la fede, se privata dell’amore, si fa ideologia. 

La critica al neoliberalismo, da parte di Francesco, nasce da qui. Non è solo un’analisi economica, ma una diagnosi spirituale. Il narcisismo sociale, l’individualismo competitivo, l’inflazione dell’io: sono i sintomi di una società che ha separato il cuore dall’intelligenza. Che ha perso la capacità di sentire l’altro. E, con essa, anche la possibilità di generare comunità. 

Il suo linguaggio, per questo, è diretto. Non edulcora. Nomina la povertà strutturale, gli scarti umani e tecnologici, il disamore verso i diversi, la guerra come soluzione. Ma non cade nella trappola del moralismo. 
Francesco non schiaccia la colpa sull’individuo, come un intellettuale di recente ha frainteso. Invita, piuttosto, a un’assunzione adulta di responsabilità. «Chi sono io per giudicare?», disse. Non per relativizzare, ma per liberare il senso morale dall’ossessione del giudizio. Francesco è stato il papa dell’evangelii gaudium, del gaudete et exultate, dell’amoris laetitia, e della joie de vivre, degli abbracci, dei sorrisi non manierati, del «debordare» - la parola da lui più amata, desborde - della vita e della grazia. 

La chiave è il discernimento, che parte da un cuore che sente, che si interroga, che vibra, che - come scrisse in una prefazione a YouCat. Amore per sempre - avverte il «fascino erotico e di attrazione» come nel tango quando «il ballerino e la ballerina si corteggiano, vivono la vicinanza e la distanza, la sensualità, l’attenzione, la disciplina e la dignità»

Francesco non propone un pensiero pacificato, ma un pensiero vivo, non irrigidito in un catechismo dei bullet points. Abita la tensione, non la nega. 
Non ha paura della complessità, ma la frequenta. Non ama l’equilibrio, ma l’armonia delle “opposizioni polari” seguendo in una intuizione comune san Basilio e Romano Guardini. 

Il poliedro, figura ricorrente del suo magistero, è simbolo di questa visione interiore: emozioni, fragilità, dubbi, desideri: tutto trova spazio. Non più solo fede e ragione. Ma quello che lui definì «pensiero aperto», che non chiude e non separa, ma apre e connette. Anzi, precisò Francesco, «pensiero incompleto». Che non semplifica, ma accompagna. Un pensiero che ha il cuore al centro per fedeltà alla carne viva dell’umano. L’eredità di Francesco non sarà proprio anche quella del suo approccio romantico oggi così attuale e necessario per il nostro mondo privo di mete, di ideali, di sogni? 

                                                         Antonio Spadaro
Fonte: Avvenire


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