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Lidia Maggi “Rimetti a noi... come noi rimettiamo...”

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Lidia Maggi, pastora battista, sottolinea come la traduzione letterale di Matteo 6,12, parte della preghiera insegnata da Gesù ai discepoli, suoni così: “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori”. Dunque Dio ci perdona nella misura in cui noi abbiamo perdonato, a condizione che abbiamo rimessi i debiti.


Ma quando mai! 
“Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”? 
Ma quando mai noi rimettiamo i debiti! Siamo figli di un sistema giustizialista che ci è entrato nel sangue. Troviamo normale che quando non possiamo pagare la rata del mutuo l’immobile venga pignorato dalle banche, e se, non hai garanzie per accedere a un credito ci sono sempre le finanziarie con i loro tassi di interesse speciali e, una volta dentro quel giro(ne) sarà difficile uscirne. Questo clima culturale è l’aria che respiriamo ed è ben rappresentato nel film del 2018 di Antonio Morabito il cui titolo, non a caso, rimanda al Padre Nostro. Rimetti a noi i nostri debiti è la storia di Guido, un disoccupato con l’acqua alla gola, che, per poter saldare i suoi debiti accetta di andare a riscuotere per conto di una finanziaria i debiti di poveracci come lui con metodi mafiosi e da strozzini. L’esempio è estremo? Riguarda gli altri? 
Mi piacerebbe crederlo, sono invece convinta che anche noi cristiani siamo dentro questa logica giustizialista e persino forcaiola. Sì, proprio noi che guardiamo con supponenza all’occhio per occhio degli ebrei e alle misure retributive dei musulmani. Noi che ci commuoviamo quando dal pulpito si proclama con parole solenni la misericordia di Dio, ma poi non sappiamo fare altrettanto. E ci giustifichiamo argomentando che questa è l’opera di Dio, impossibile per noi umani. E noi cristiani siamo umani... troppo umani. 

E la grazia? 
Non c’è solo un impedimento di fatto. Quella reciprocità di perdoni fa a pugni con la realtà attorno a noi come con quel modo di vivere la fede cristiana che sottolinea l’asimmetria tra l’agire divino e quello umano. Parlo della mia fede, così come ha preso forma nelle chiese della Riforma, così sospettosa delle opere umane. L’evangelista Matteo, invece, attento al “fare” umano, attesta che Gesù stesso, nel momento in cui ammaestra i suoi discepoli nell’arte della preghiera, parla di una simmetria nel perdono. Una traduzione letterale di quelle parole suona così: “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori”. Dunque, Dio ci perdona nella misura in cui anche noi perdoniamo, a condizione che noi rimettiamo i debiti. Parola quasi irricevibile, essendo tratta dal vocabolario delle equivalenze: come facciamo noi, così fai anche tu, e viceversa. Ed esprimere la relazione con Dio in termini di equivalenza significa pensarla entro un quadro economico: “ti do affinché tu mi dia”. In un quadro simile non c’è posto per la grazia, per quell’amore gratuito, capace di porre gesti unilaterali, al di là delle equivalenze e delle simmetrie. 

Una richiesta ambigua? 
Ho smesso di pregare la preghiera del Padre Nostro con le ragazze nigeriane schiavizzate nella tratta. Ho accompagnato per diverso tempo le ragazze sulla strada con momenti di preghiera, strutturati o improvvisati. 
Alcune parrocchie della periferia di Milano si affidavano a me per questi incontri. Molte di queste ragazze, almeno quelle della prima ora, venivano da chiese evangeliche. Avevano una buona conoscenza della Bibbia, dei salmi e conoscevano gli stessi inni in inglese che, da bambina, ho imparato con i missionari americani. Questo mi dava il linguaggio per una comunicazione immediata che aiutasse a ritrovare forza nella fede nella speranza di avviare processi di liberazione. Ma quando Joice, una ragazzina di 19 anni, in strada già da due, mi ha spiegato che il suo pastore in chiesa, la domenica, la esorta a non sottrarsi alla strada fino a quando non abbia pagato il suo debito, citando proprio la richiesta del Padre Nostro sono inorridita. “Cosa dice il Signore Gesù? Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Un debito va rimesso, sempre. Anche se per saldarlo sei costretta a lavorare sulla strada. Lo dice il Signore”. 
Da quella volta il Padre Nostro è scomparso dalle mie proposte liturgiche. 
Siamo bravi a insudiciare tutto, anche questa bellissima preghiera, interpretata in modo perverso con la logica economica della simmetria, così lontana dal vocabolario della grazia. Certo, nel vocabolario della grazia, la responsabilità umana è a rischio di sottovalutazione, mentre in quello delle equivalenze è posta in primo piano. Ma se la grazia può risultare essere “a buon mercato”, l’equivalenza rischia di rendere commerciale anche il “più-che-necessario”. Un rischio non da poco, in questo nostro presente dove tutti parlano la lingua del mercato. 

Perché questa equivalenza? 
Possibile che Gesù, nonostante l’evangelo della grazia da lui predicato e vissuto, alla fine si sia ricreduto e abbia ancorato anche l’esperienza del divino al regime economico dello scambio? Magari l’ha fatto per buone ragioni, non certo per manipolare una ragazza con un debito da saldare, ma l’equivoco o quanto meno l’ambiguità si sono aperti un varco. E perché non ha usato questo stesso linguaggio a proposito del pane? Anche in quella domanda della preghiera avrebbe potuto dire: “dacci oggi il nostro pane quotidiano come noi, proprio oggi e non in un secondo tempo, lo doniamo agli affamati...”. E a proposito della tentazione? “Non esporci, non abbandonarci alla tentazione, come anche noi non lasciamo sola la sorella, il fratello nel momento della prova”. Perché questa formulazione controversa solo a proposito del perdono? È vero, anche il pane trova una simmetria nella parabola escatologica delle pecore e dei caproni, ma lì si parla del tempo ultimo, quando Dio giudicherà la storia e noi con lei. L’asimmetria è spiazzante: il Signore si identifica, a nostra sorpresa in quel povero a cui hai negato o dato il pane. Non siamo esenti dall’assumerci le nostre responsabilità. 

Uno statuto speciale del perdono 
Già nella prima parte del suo insegnamento sulla preghiera è presente un certo dosaggio tra l’iniziativa divina - “venga il tuo Regno” - e l’impegno umano - “sia fatta la tua volontà”. Ma l’accostamento non ha la forza di quella simmetria espressa a proposito del perdono. La sensazione che prova chi legge questo insegnamento di Gesù è quella di uno statuto speciale del perdono. Il Gesù di Matteo, del resto, ne parla poco prima: “Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta” (Mt 5,23-24). Ovvero, bisogna riconciliarsi col proprio fratello prima di presentarsi a Dio. È la cura per le relazioni che fa da presupposto a un’esperienza del divino liberata da distorsioni religiose. È questo che avrei voluto spiegare a Joice. Ma a suo tempo non sono stata in grado di farlo. Mi sono limitata a bandire il Padre Nostro. La cura per le relazioni umane sono il presupposto e, insieme la conseguenza della fede nel Dio di Gesù, ma fuori da una logica simmetrica. L’insistenza dell’evangelista in tutto il cosiddetto Discorso della montagna (Matteo 5-7) è notevole. È come se il Maestro di Nazaret, in quel suo primo discorso programmatico, volesse strappare i suoi ascoltatori dall’automaticità delle re-azioni - se l’altro ti dà uno schiaffo, daglielo anche tu: non funziona così? - per diventare soggetti di un’azione che non sia semplicemente simmetrica, mimetica ma dia inizio a qualcosa di nuovo e, dunque, di inatteso, spiazzante per chi ci ha colpito in faccia. 

Ristabilire la relazione 
C’è nell’insegnamento di Gesù una sapienza delle relazioni, in grado di reggere alla crisi dei conflitti, mettendo in atto risposte creative, nonviolente, tese a ricucire lo strappo dell’inimicizia, a tentare percorsi di riconciliazione. 
La giustizia superiore che deve ispirare i discepoli di Gesù (Matteo 5,20) è una giustizia riparativa, che affronta il conflitto col desiderio della riconciliazione. È alla luce di questa preoccupazione per i legami che inizio a comprendere meglio quella equivalenza dapprima scandalosa ai miei orecchi. Perché, in effetti, non si tratta di una vera e propria equivalenza. Gesù non insegna a chiedere al Padre: rimetti a noi, come noi rimettiamo a Te! E non perché Dio non ha niente da farsi perdonare: chiedetelo a Giobbe! Piuttosto perché Dio non è narcisista, non è preoccupato di sé, del riconoscimento del suo operato. Il suo cuore batte per i viventi da Lui desiderati e creati; batte perché si sperimenti quella vita buona che lui ha sognato fin dal principio. Un sogno subito infranto per voler essere come Dio, potremmo dire “per motivi religiosi”. Di questo parlano le Scritture: che il Dio che è sorgente di vita buona per tutte e tutti viene in fretta sostituito dall’idolo, in nome del quale viene rinnegata quella vita buona. Come nella scena-madre dell’idolatria, il noto racconto del vitello d’oro, dove la sostituzione tra il Dio e l’idolo non si presenta come alternativa ma come svuotamento dall’interno del medesimo Dio. All’idolo, infatti, il popolo si rivolge con le parole “ortodosse”, previste per rivolgersi al Dio biblico: “O Israele, questo è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!” (Esodo 32,4). E i profeti, che desiderano ristabilire la giustizia della vita buona, indirizzano parole di fuoco a un popolo che ama frequentare il Tempio, compiere sacrifici e praticare digiuni in onore di Dio. Il caso serio delle Scritture sta nell’indicare il tranello del “nominare invano il nome di Dio”. Esempio unico di critica religiosa alla religione, di storia di un popolo eletto passata al contropelo. È in questo orizzonte che fa la sua comparsa Gesù di Nazaret. E per l’evangelista Matteo l’elemento decisivo per districare quel groviglio religioso che usa spudoratamente Dio per tutto e per il suo opposto consiste nella qualità del proprio operare. “Non chiunque mi dice: Signore, Signore; ma chi fa la volontà del Padre mio...” (7,21). 

Come in terra così in cielo 
Nel racconto evangelico di Matteo non c’è nessuna scalata nostra al cielo o esaltazione dei meriti umani - obiettivo polemico della Riforma. C’è, invece, la passione per il “non nominare invano”, per misurarsi col Dio-con-noi prendendo le distanze dal noi al posto di Dio. Ora, il perdono costituisce il caso serio di questa discriminante. Perché nell’immaginario di sempre Dio bisogna tenerselo buono; e al suo cospetto si risulta sempre manchevoli. Di qui le pratiche religiose, le invocazioni, i voti per implorare il suo perdono. Senza che poi quanto chiediamo all’Essere supremo divenga stile nelle relazioni umane. Che c’entra? La religione è un conto, mentre gli affari sono affari! C’è una logica del cielo, che non ha niente a che vedere con quella che vige sulla terra. Il profeta di Nazaret non ci sta e proclama a chiare lettere che la fede è un modo di abitare la terra: “come in cielo, così in terra”. E dunque: come invocate il Padre perché rimetta i vostri debiti, allo stesso modo anche voi dovete rimettere quei debiti che altri hanno maturato nei vostri confronti. Anzi, proprio perché qui si gioca la possibilità di una relazione non strumentale con Dio, proprio perché è questo il rischio che insidia ogni esperienza di fede, allora facciamo “come in terra, così in cielo”. Invertiamo la sequenza, come viene precisato nella coda dell’insegnamento del Padre nostro: “Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (6,14-15). Parole che smentiscono la grazia? A una prima lettura, questa è l’impressione. Ma, alla luce del percorso che l’evangelista Matteo intende far fare ai seguaci di Gesù, queste parole di Gesù intendono salvaguardare la grazia divina dal suo più radicale fraintendimento: quello di invocarla per vivere una vita sgraziata, incapace di farsi carico della cura dei legami, privata dalla passione per la soluzione dei conflitti e la riconciliazione. 
Non c’è la resa alla logica economica dell’equivalenza commerciale, nelle parole di Gesù. C’è l’azzardo di liberare Dio dalla cattività in cui lo costringe la nostra idea di religione per giungere a farne esperienza nella terra promessa delle differenze riconciliate, di quella vita buona che è possibile solo se siamo capaci di perdono. Sarà là che Dio rivelerà il suo volto e noi capiremo che quei debiti, che tanto ci hanno afflitti e incattiviti, non erano altro che invocazioni d’amore.  


Lidia Maggi




Esodo n° 2 aprile-giugno 2025

Perdono,giustizia, riconciliazione

contributi di

Arcidiacono, Bachelet, Bolpin, Borraccetti, Cortella, Fattori, Maggi, Manicardi, Manziega, Noffke, Reginato, Rubini, Scrivanti, Ska, Stefani,Trabucco





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