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Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi: Quell’umano ci parla

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Vacanza con le famiglie a Sauze d’Oulx, Piemonte
17 - 24 agosto 2024

L'umanità sovversiva di Gesù
Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi, monaco di Bose


Sommario 

1. Premessa  
3. Quell’umano ci parla 
5. Fronteggiare il male, avere compassione 
6. L’umanodivino di Gesù (senza trattino) 
7. Il “capolavoro” della crocifissione 
8. Tutto è perdonabile 
9. Quando l’amore è più forte della morte 
10. Il silenzio e il mistero 
11. La Legge e la Parola. E la differenza cristiana 

Quell’umano ci parla 

Massimo Maffioletti.
“Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). La chiusa del Prologo di Giovanni è imprescindibile, un punto di non ritorno ma anche l’unico punto di partenza per tornare a parlare in modo corretto di Gesù: per sapere qualcosa di Dio occorre attraversare l’umanità di Gesù. Mi viene in soccorso l’illuminante considerazione del teologo francese, Joseph Moingt, citato anche nei tuoi lavori. Scrive: “Ciò che Gesù ha di eccezionale non è di ordine religioso, ma umano: proprio perché porta in se stesso l’immagine eterna del Dio invisibile, a somiglianza del quale siamo stati creati e diveniamo uomini, ci è dato di vedere la luce di Dio riflettersi dalla sua figura umana su ogni volto umano e possiamo lasciarci guidare da essa fino a Dio sulle vie di umanità che Gesù ha tracciato” [23]. Grandi teologi come Barth avevano già guadagnato questa verità: L’umanità di Dio è il titolo di un suo saggio (così come L’umanità del Dio è quello recentissimo di Sequeri). A volte si ha la netta sensazione che i cristiani non prendano seriamente fino in fondo la questione dell’umanità di Gesù, come se fossero in ostaggio di una nuova forma di docetismo. Tu stesso affermi che “la sensazione è che nella chiesa si sia ancora molto distanti dal percepire la conversione radicale che esige questa presa sul serio della pratica di umanità di Gesù come attestata dai vangeli” [24]. È come se la chiesa (i cristiani) non avesse il coraggio di trarre tutte le necessarie conseguenze dalla maniera con cui il maestro ha vissuto il proprio essere umano perché trarle significherebbe “rottamare” o, meglio, rivedere un bel po’ di teo-cristologie. 

Luciano ManicardiIl versetto di Giovanni è capitale anche per me perché questo ci obbliga a guardare a Gesù Cristo per parlare, pensare e relazionarci con Dio: “Dio nessuno l’ha mai visto. Il Figlio unigenito ce lo ha raccontato”; e come già accennavamo: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Dev’essere chiaro a tutti: il cristianesimo non è una forma di teismo. Al cuore della nostra fede c’è Gesù di Nazareth, il Cristo, il Messia, cioè colui che ha adempiuto la storia di Dio condotta con Israele. “Gesù è ebreo e lo è per sempre”, come dice un testo del magistero cattolico degli anni Ottanta [25]. È in lui, attraverso di lui, che noi conosciamo Dio e possiamo dire qualche cosa di Dio. Quello che vediamo in Gesù lo possiamo dire di Dio. Qui si apre il problema dell’ermeneutica e dell’interpretazione della figura di Gesù, perché Gesù non lo incontriamo tutti i giorni come ci incontriamo tra di noi (anche se, certamente, nella fede, lo possiamo incontrare tutti i giorni nel fratello). Occorre un discernimento, occorrono i vangeli, occorre dunque una permanente lettura dei vangeli. A me piaceva molto quando il cardinale Martini parlava della Bibbia come il “libro del futuro dell’Europa” [26]. 

Il punto è: come la leggo la Bibbia?

Si può fare un buon uso o un pessimo uso del testo biblico. Due esempi: Agostino – ed è il primo – interpreta il compelle intrare della parabola del padrone che, al rifiuto degli invitati, comanda ai servi di uscire a cercare poveri, storpi, ciechi e zoppi, per farli entrare (Lc 14,16-24) usando l’espressione “spingere a entrare”: se questo testo viene adottato come giustificazione di alcuni metodi di evangelizzazione coercitiva, allora qualche problema in me lo provoca. Dobbiamo accettare il fatto che purtroppo la storia della chiesa, e in genere dell’Occidente, è stata molto segnata da una certa lettura della Bibbia: alcuni passaggi o frasi hanno generato convinzioni mentali da cui è ancora oggi difficilissimo liberarsi. Un secondo esempio: l’idea del peccato originale. Oggi, alla luce delle scienze moderne, dobbiamo rivedere l’interpretazione della narrazione della creazione, recependo l’idea che non c’è tanto un “prius cronologico” quanto un’ermeneutica sapienziale dei comportamenti dell’uomo di tutti i giorni trasferiti nell’“in principio” di Genesi (bereshît in ebraico), al momento delle origini. Occorre un rinnovamento importante del modo con cui noi leggiamo, studiamo, comprendiamo le Scritture oggi. Se il vangelo è universale e, dunque, parla agli uomini di tutte le generazioni, di tutti i tempi, di tutte le epoche, allora dobbiamo coltivare un’attitudine alla recezione e una maggior simpatia nei confronti di quello che la cultura ci offre, ben sapendo che occorre fare un serio discernimento. Nel pensiero contemporaneo c’è del buono e positivo e per questo va assunto. Gesù Cristo va narrato proprio all’uomo di oggi. I cristiani, le comunità ecclesiali, devono oggi più che mai attivare, per un corretto annuncio del vangelo, quelle risorse che si chiamano immaginazione, coraggio, creatività. Il mondo sta cambiando. Papa Francesco ha veramente ragione quando dice che “quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca” [27], il che può significare soltanto un cambiamento di paradigma antropologico. Occorre veramente togliersi gli occhiali e inforcarne di nuovi, altrimenti se noi continuiamo a guardare la realtà con gli occhiali con cui la guardavamo cinquant’anni fa siamo già fuori asse. E negli ultimi tempi i cambiamenti sono stati di una rapidità veramente impressionante.

Mi sono tornate alla mente anche le considerazioni di un controverso biblista, il francescano Ortensio da Spinetoli: “Gesù ha sbalordito i connazionali, i suoi contemporanei e sbalordisce tuttora chi si ferma a contemplare la sua immagine, a meditare sulla sua esperienza per la carica di bontà e di amore, del tutto inediti, di cui ha dato prova. I nazaretani e gli abitanti delle contrade galilee non hanno avuto la gioia di vedere il ‘Verbo di Dio’ prendere dimora in mezzo a loro quanto un concittadino, un conterraneo che ha provato a schierarsi dalla parte delle frange più indifese, quindi più bisognose della popolazione. In lui finalmente poterono trovare fiducia quanti non avevano potuto mai averla; gli ultimi, i poveri, i peccatori, gli ammalati, gli esclusi, persino i pubblicani, e le stesse meretrici”. E ancora: “I nazaretani non hanno visto alcun Logos nascere in mezzo a loro, ma il figlio del carpentiere; né l’hanno mai incontrato i suoi discepoli.
Essi hanno visto solo un profeta potente in opere e in parole, un ‘amico’ indistinto dei giusti e dei peccatori, dei connazionali e dei gentili, un vero uomo, ma che riesce a far propri dei comportamenti che si addicono solo a Dio. Lo straordinario di Gesù infatti è la sua capacità di approccio e di amore verso le creature, in particolare l’uomo, come solo Dio sa fare, per questo ne è ‘il figlio’” [28]. Che cosa hanno visto o creduto di vedere i concittadini di Gesù? Davvero hanno visto soltanto un uomo che a un certo punto si è pensato figlio di Dio o qualcuno chiamato dall’alto a un’ampia missione? C’è dell’altro? Stupisce molto che nell’avventura umana di Gesù – a quanto pare abbastanza normale, periferica, senza grandi colpi di scena né effetti roboanti – qualcuno abbia potuto percepire qualcosa di divino. Noi non abbiamo altro che l’umanità di Gesù per dire che quell’uomo era Dio e per dire qualcosa di appropriato di Dio. Cosa ha permesso di vedere il divino nell’umano?

Mi ha sempre molto colpito il testo evangelico che racconta l’incontro di Gesù con la donna cananea (Mt 15,21-28; Mc 7,24-30). Lo trovo estremamente interessante, è un testo che a un primo sguardo lascia un po’ interdetti, perché non ti aspetteresti da Gesù un comportamento così. Gesù sta andando verso i territori di Tiro e Sidone, non c’è ancora arrivato, è ancora in territorio israelitico. Una donna esce incontro a lui. Già questo è bellissimo: affinché ci sia un incontro, occorre “uscire da” per andare “incontro a”. La donna è uscita e ha fatto propria l’intenzione dell’incontro. Gesù è a metà strada, non è ancora arrivato, sta “dirigendosi verso”. La donna, determinata da un motivo robusto – la sofferenza di sua figlia – fa una confessione di fede in pieno stile ebraico (pur essendo cananea): “Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio”.
Gesù non le rivolge la parola. Intervengono i discepoli chiedendo di esaudirla perché “ci viene dietro gridando”: cosa ti costa? Sembrano dirgli. E lui risponde: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”. La sua missione è soltanto per i figli di Israele. Nella versione marciana si dice “prima i figli di Israele e poi i pagani”, che è il leitmotiv della Chiesa primitiva. Gesù liquida così la donna, ma lei non demorde, è ostinata, gli blocca la strada e gli si prostra davanti. Di nuovo “Signore, aiutami”. E Gesù finalmente le rivolge la parola, ritenendola partner degna di dialogo; le sue parole, però, sono molto dure: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. L’allusione è ai cani domestici, non tanto ai randagi impuri perché a rischio di contatto con i cadaveri.
“Cani” era il termine che veniva dato ai pagani. Non era un epiteto politicamente corretto. E la donna replica: “È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”.
Anche Gesù, che ovviamente si muove all’interno delle categorie culturali e religiose del suo tempo, ha posizioni estremamente rigide e chiuse (quasi scioviniste?). Tuttavia si lascia vincere. Questo è l’elemento decisivo: chi di noi non ha delle rigidità? Poi scopri che quello che a te sembrava ultimativo viene messo in crisi da una donna: “Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”. A questo punto nasce il dubbio: ma qui il miracolo chi lo fa?

Anche Gesù si lascia vincere. Allora la domanda che ponevamo ha maggior forza: cosa sappiamo di Gesù?

Sappiamo qualcosa ma sempre attraverso i racconti. Tra il testo e la vita c’è sempre uno scarto incolmabile – i discepoli selezionano – ma anche attraverso narrazioni un tantino agiografiche noi veniamo a conoscenza delle pratiche quotidiane di Gesù. Per esempio, per narrare la comunione di Dio con tutti gli uomini, Gesù si lascia avvicinare dalle prostitute, siede a mensa con chi era ritenuto pubblicamente peccatore, estendendo la comunione anche a lui. E tutto questo ci dice uno stile umano di vita. Difficile pensare che proprio tutti i suoi comportamenti fossero stati “addomesticati”, anche se nella lettura tramandata dai padri della Chiesa – Giovanni Crisostomo e tanti altri – ad esempio si dice che Gesù non ha mai riso; lo si dice perché non c’è mai scritto nei vangeli, mentre si sa che Gesù ha pianto su Gerusalemme e per Lazzaro. Ma se Gesù va a un pranzo di nozze (Gv 2) non avrà mai riso? Sarà sempre rimasto lì con il muso? Ecco questo è il tradimento dell’umanità semplice di Gesù. Abbiamo paura di pensarlo un uomo come noi – magari lo reputiamo un po’ migliore di noi invece la sua umanità era come la nostra, perciò anche lui ha dovuto lavorare sulla propria interiorità, sulla propria coscienza, conoscendo come tutti resistenze e conversioni etc. Cosa vedevano i suoi concittadini? Lo dice benissimo Marco: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?” (Mc 6,3). Quelli che l’hanno conosciuto hanno semplicemente visto una persona singolare che poteva essere un po’ meglio o un po’ peggio di altri ma certamente non hanno visto un uomo su cui risplendevano aureole particolari. Noi siamo abituati ai santini. Abbiamo fatto anche della croce – il più orribile degli strumenti di tortura e di morte – un gingillo da portare al collo e da esibire. Va bene come segno di distinzione, però non ne cogliamo più lo scandalo. C’è una distanza tra noi e il Gesù dei vangeli. Lo abbiamo sostituito con le immaginette un po’ stereotipate del Gesù biondo, un po’ scandinavo, con gli occhi azzurri e così via.

L’incontro con la cananea mette in scena un Gesù pressoché inedito e inaudito che si lascia perfino “convertire” dall’insistenza di una donna per di più straniera.
Se vogliamo assumere fino in fondo l’umanità di Gesù, noi dobbiamo accettare il fatto che anche Gesù ha vissuto i suoi cambiamenti e la sua coscienza non è stata qualcosa di lineare, fissata una volta per tutte.
Anche lui ha dovuto inevitabilmente attraversare le sue fatiche, anche relazionali. E mi pare evidente il fatto che la madre e “i suoi” corrano a prenderlo perché dicevano che era “fuori di sé” (“Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: ‘È fuori di sé’”: Mc 3,21). L’umanità di quell’uomo impressiona: ha sbigottito la cerchia delle persone che lo hanno frequentato, tenendo conto che lui, Gesù, non si è mai presentato immediatamente come il Figlio di Dio. Mi piace molto l’espressione del sociologo francese delle religioni Luneau [29] quando parla di Gesù come “l’uomo che ha evangelizzato Dio”, con la sua umanità ha reso Dio una buona notizia.

Possiamo premettere un’affermazione: Gesù è divenuto Gesù, nella sua esistenza è cambiato, ha conosciuto il divenire, il crescere e il mutare. La Lettera agli Ebrei è il testo per eccellenza che ci dice che Gesù ha imparato l’obbedienza dà ciò che ha vissuto e sofferto: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,8). La Lettera agli Ebrei è il testo biblico che meglio di altri suggerisce come in Gesù ci sia stato un divenire sul piano umano, una crescita della coscienza di sé e della sua missione. E, dunque, anche una maturazione nei confronti degli altri. L’esito di tutto questo lo si può proprio definire “aver evangelizzato Dio”, avere mostrato che Dio non abita il settimo cielo, ma è qui sulla terra, nel senso che è vicino a te ed è nel tuo cuore, sulla tua bocca. Soprattutto, è un Dio accessibile che si fa prossimo. Non sono le categorie della sacralità, della distanza, a interpretare al meglio l’umano di Gesù. La sua non è più la sacralità o la santità vissuta come separazione, ma la santità come inclusione.
Penso alla categoria di “santità ospitale” di Christoph Theobald [30]. La santità non è più vissuta come nel tempio di Gerusalemme, per distinzioni e separazioni progressive, ma per inclusioni: Gesù instaura relazioni con i pubblicani e i peccatori, con i malati e i lebbrosi, con gli impuri, gli emarginati e i segnati da uno stigma. Ecco, nel volto misericordioso di Gesù riconosco l’evangelizzazione di Dio. Già la carità verso l’altro era ben presente nell’Antico Testamento; già lì si chiedeva di aiutare il nemico personale: quando il suo asino fosse caduto in una fossa, la Scrittura imponeva di aiutare a sollevarlo e liberarlo (Es 23,4-5). Con Gesù si giunge addirittura a chiedere l’amore per il nemico. Il Dio che è agape della Prima lettera di Giovanni (1Gv 4,8), così come ce lo narra Gesù, si spinge a chiederci di amare anche chi amabile non è. Se amo una persona perché è bella, intelligente, consonante con me, sono semplicemente simile ai pagani: “Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,47). Nell’evangelizzazione di Dio, che Gesù ha testimoniato in vita e parole, io scopro di poter addirittura amare chi non è amabile. Amarlo effettivamente, più ancora che affettivamente. Magari non sono chiamato ad avere rapporti di amicizia con il senza casa o il rifugiato, ma mi spendo per trovargli un alloggio e per dargli accoglienza degna. Si tratta però di arrivare a spendere la mia vita per qualcuno ben sapendo che cercare di salvare, aiutare una vita altrui, non significa sprecare la propria.
Anzi, è proprio in quella donazione, che ha valore di per sé, che io trovo il senso profondo del vivere. Vivo qualcosa di divino, perché ciò che c’è di divino sta tra me e l’altro; perché declino la mia umanità a immagine dell’agire di Gesù di Nazareth. Con le mani posso accarezzare o con i pugni colpire; con lo sguardo posso trasmettere accoglienza e benevolenza o odio; con la parola posso consolare o calunniare. Posso dare la vita o toglierla. Ciò che Gesù afferma riferendosi al giorno del sabato vale per ogni giorno della nostra quotidianità: “È lecito in giorno di sabato, fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?” (Mc 3,4).


NOTE

23 Joseph Moingt, L’umanesimo evangelico, ed. Qiqajon, Bose 2015.

24 Luciano ManicardiGesù narratore di Dio, ed. Messaggero Padova 2015.

25 Cf. Sussidi per una corretta presentazione dell’ebraismo, a cura della Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo (1985).

26 Vedi Cristianesimo e democrazia nel futuro dell’Europa, convegno organizzato a Camaldoli dalla rivista il Regno (12 luglio 2002).

27 Discorso del Santo Padre Francesco alla Curia romana per gli auguri di Natale, Sala Clementina, sabato 21 dicembre 2019.

28 Ortensio da Spinetoli, Gesù di Nazaret, ed. la meridiana 2005.

29 René Luneau, Jésus, l’homme qui évangélisa Dieu, ed. Albin Michel 2009.

30 Christoph Theobald, La fede nell’attuale contesto europeo. Cristianesimo come stile, ed. Queriniana, 2021. 



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