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Cettina Militello "Sentimenti, evoluzione nella tradizione cristiana partendo dal Cantico dei cantici"

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«Mi baci con i baci della sua bocca!». Inizia così il Cantico dei Cantici. Chi volesse rileggerlo si troverà dinanzi a un testo d’amore, per giunta sovraccarico di allusioni “erotiche”. Certa tradizione rabbinica indica come il giorno più bello quello in cui Dio lo ha donato al suo popolo. Ma nel commentarlo, si tratti di ebrei o di cristiani, prevale la lettura allegorica. Il testo celebra l’amore di Dio per il suo popolo. È lui l’amante e l’amata è Israele. Ovvero è Cristo lo sposo e la sposa è la Chiesa. E, a suo modo, lo è anche chiunque uomo o donna si rapporti a Cristo secondo una modalità totale ed esclusiva delle nozze mistiche.

Bellissimo, sublime! Solo che a farne le spese è l’amore nel suo accadimento ordinario. Paradossalmente per significare l’intimità profonda del legame con Dio non si è trovato di meglio che la metafora delle nozze, evidentemente la più esplicita e primordiale per esprimere lo stare a fronte dell’uomo e della donna. Nella loro concretezza socio-culturale le nozze sono però altro. Sono un contratto, un patto che impegna due famiglie, senza che il sentimento vi abbia parte.

Com’è stato possibile che l’amore, così come oggi lo intendiamo – ma come pure è stato cantato presso le diverse culture - sia stato estraniato dal rapporto coniugale? Perché ci si è sposati in Occidente, per quasi due millenni, senza che entrasse in gioco la passione, il gusto dell’incontro, la scoperta del corpo e del suo linguaggio?

Non si può che evocare il “patriarcato”. L’ideologia androcentrica e patriarcale – dura a morire - fa della donna qualcosa che va usato, esorcizzandone il “potere”. Bisogna tacitarne il grembo fecondo. E d’altra parte occorre riprodursi. È una assicurazione di eternità, anzi è l’unica. Ma in ciò la donna è solo un uno strumento. E poiché c’è certezza della maternità ma non altrettanto della paternità, occorre schiavizzarla, ghettizzarla, negandole libertà e soggettualità.

Ci si potrà chiedere perché la tradizione cristiana ha interiorizzato e quasi dogmatizzato questa ideologia. Il fatto è che le comunità cristiane hanno fatto propria la cultura dominante anche quando comportava una evidente distanza dalla novità evangelica, dai suoi manifesti egalitari e libertari, il più disatteso dei quali è quello della Lettera di Paolo ai Galati: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».

Eppure, l’amore è forte come la morte, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina! (Cantico dei Cantici).

Per questa ragione l’Occidente cristiano ha sublimato la passione amorosa attraverso le cosiddette “amicizie ascetiche”. Uomini e donne sin dalla prima età dei padri ci giungono reciprocamente legati da profonda amicizia. Sono esperienze forti che tradiscono ciò che a ogni costo si vuole reprimere. San Girolamo scriverà nell’epitaffio per l’amica sua carissima, santa Paola, d’essere «un vecchio cadente che l’ama» e san Francesco di Sales, quasi dieci secoli dopo, calmerà gli scrupoli di santa Giovanna di Chantal, sua figlia spirituale, dicendole di non chiedersi cosa c’è tra di loro, ma di stare certa che viene da Dio…

Questo filone intrigante giunge sino a noi. Coppie celebri sublimano la passione amorosa riconducendola ad amicizia. Fanno così anche coppie di sposi. Penso, ad esempio, a Raissa e Jacques Maritain, poetessa lei, filosofo lui, che, benché sposati, scelgono una casta convivenza. Anche coppie di consacrati vivono in assoluta castità la loro consonanza di mente e di cuore. Emblematico il caso del teologo Hans Urs von Bathasar e della mistica visionaria Adrienne von Speyr, da lui indicata come il filo rosso della sua speculazione teologica.

Non mancano nella storia le eccezioni in senso contrario, raramente a lieto fine. La più tragica e nota è quella di Eloisa e Abelardo. E che siano stati coinvolti corpo e anima è innegabile. Abelardo, uno dei più importanti e famosi filosofi e pensatori del Medioevo, dice che se fosse possibile inventarsi qualcosa in amore, loro lo hanno fatto. Ma paga pegno alla cultura facendosi renitente alle nozze e poi considerando l’amore vissuto come peccato. Cosa che mai farà Eloisa, badessa e letterata, assai più libera nel disegnare il loro rapporto e restia a rinnegare l’esperienza fatta.

Dunque il matrimonio è un contratto e una necessità sociale. La passione amorosa che pure non manca ha esiti il più delle volte tragici e comunque resta fuori dai parametri del matrimonio il cui fine è assicurare una prole.

Una blanda legislazione ecclesiastica (poi anche civile) via via ha richiesto il loro consenso, il più delle volte estorto o formale e in gran parte per motivi sociali. Un iniquo diritto di famiglia - in Italia cambiato solo nel 1975 – ha offeso e umiliato le donne. Quanto alla Chiesa, se da una parte ha considerato legittimo il matrimonio, dall’altra ha sempre esaltato la verginità e la vedovanza.

Sino al Vaticano ii matrimonio è stato considerato remedium concupiscentiae, rimedio alla concupiscenza, e finalizzato unicamente al bonum prolis, alla procreazione dei figli.

Si deve alla messicana Luz Marie Alvarez Icaza, uditrice al Vaticano ii, durante la laboriosa gestazione della «Gaudium et Spes», d’aver vivacemente negato che la sua numerosa prole potesse venire considerata rimedio alla concupiscenza. E decisamente il cap. ii/i della «Gaudium et Spes» segna un cambio di passo

Il principio dell’aiuto reciproco, dell’amore reciproco radicato sulla «uguale dignità personale sia dell’uomo che della donna», come affermato nella Costituzione pastorale di Paolo vi però non ha avuto molto successo. Pian piano ha ceduto di nuovo il passo al bonum prolis come ragione stessa delle nozze.

Ci piaccia o no ci siamo fatti complici dell’impostura patriarcale. Eppure il cristianesimo ha come suo codice la “carne”. Dobbiamo a Tertulliano, scrittore romano, filosofo e apologeta cristiano, fra i più celebri del suo tempo, l’assioma caro salutis cardo (è la carne il cardine della salvezza).

Il Verbo di Dio si è fatto “carne”. La Chiesa è un corpo le cui diverse membra soffrono e gioiscono nella reciproca sinergia, nutrite dal corpo eucaristico del loro Signore.

Purtroppo tutto questo non ha nobilitato il corpo vivo che noi siamo e ha esorcizzato l’indicibile del donarsi reciprocamente sino a essere una sola carne. Quella di Cristo e della Chiesa non è una metafora, ma un sacramento e a celebrarlo sono un uomo e una donna che si donano l’uno all’altra nella carne, unica cifra del nostro essere al mondo, così preziosa e palpitante d’avere suscitato in Dio il desiderio di farla propria.

di Cettina Militello
Teologa, vice-presidente della Fondazione Accademia Via Pulchritudinis.



Fonte: L'Osservatore Romano inserto Donne Chiesa Mondo marzo 2025

 
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