Enzo Bianchi "Un monastero buddista: un altro luogo di pace"
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Palazzo Reale Milano!
“Trovare Pace. Presentazione del primo Monastero buddhista tibetano in Italia" con Ghesce Thubten Chonyi, Abate del Monastero di Kopan (Nepal) e di Lhungtok Choekhorling e Enzo Bianchi, Fondatore della Comunità di Bose.
Intervento di Enzo Bianchi
Anche per me che sono un monaco cristiano ci sono ragioni di gioia per l’istituzione di un monastero buddhista tibetano in Italia – esattamente a Pomaia, in Toscana – perché il monachesimo è innanzitutto un fenomeno antropologico prima di essere vissuto in forme differenti nelle diverse confessioni di fede e spiritualità.
Sappiamo che il monachesimo più antico è proprio quello ispirato da Gauthama Buddha (V secolo), in India. Ma in forma spontanea, non derivata è attestato un monachesimo giudaico (Qumran, Esseni) e quindi un monachesimo cristiano che dal deserto dell’Egitto si è diffuso in tutta la cristianità, dalla Spagna alla Siria, all’Etiopia.
Sì, il monachesimo è un fenomeno umano che si impone anche in spazi religiosi che lo rifiutano, come nell’Islam, che però ha conosciuto i sufi, e anche la riforma protestante, che lo aveva condannato, più tardi lo ha accolto come una risorsa. Perché? Perché ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre uomini e donne che vogliono vivere “altrimenti”, che decidono di non coniugarsi ma di praticare la castità, di vivere come solitari, eremiti o insieme in comunità cenobitiche. E non a caso i monaci si riconoscono tra loro e sentono una comunione che si impone al di là delle appartenenze religiose.
Per questo, io e i monaci cattolici presenti in Italia, ci rallegriamo dell’istituzione e della presenza di un monastero di monaci e monache buddhiste della tradizione buddhista tibetana, tra le più autentiche e rigorose dell’eredità spirituale di Buddha. D’altronde da almeno tre decenni ci sono scambi tra monasteri: monaci cristiani si recano in monasteri buddhisti – come ho fatto anch’io in un monastero in Thailandia – e monaci buddisti vengono a vivere per lunghi periodi in comunità cattoliche benedettine e trappiste. Hanno troppe esperienze vitali in comune e dunque si sentono attratti gli uni dagli altri per un compito spirituale sulla ricerca della speranza.
Il monastero che inizia il suo cammino a Pomaia ha come capo spirituale (nel linguaggio monastico occidentale “abate”) Khen Rinpoche, venerabile maestro di spiritualità, che conferisce al monastero non solo legittimità ma anche garanzia di serietà di vita e di fedeltà alla tradizione. I monaci e le monache sono un numero discreto e possono fondare una comunità capace di vivere e diffondere la spiritualità buddhista. I monaci hanno anche incontrato il Dalai Lama a Dharamsala, in India, dove hanno ricevuto un insegnamento prezioso.
Ma che cosa è, cosa vuole significare una comunità monastica, buddhista o cristiana? Innanzitutto, come si è accennato, è una risposta alla vocazione monastica che è antropologica, inscritta nell’umanità. Ma vissuta nella forma della comunità è un grande segno per tutti. Nella comunità vige la fraternità, la sororità: tutti hanno la stessa dignità e gli stessi diritti e l’amore fraterno è vissuto non scegliendo chi amare ma amando chi si avvicina e si vuole fratello, compagno sulla stessa via monastica. I monaci vivono specificatamente questo: decidono di amare fraternamente l’altro prima di conoscerlo e se l’altro ha la stessa vocazione lo accolgono senza lasciar spazio ad antipatie, a rifiuti, a preferenze tra persone appartenenti a culture diverse.
Non è poco: in un mondo diviso, che si nutre di contrapposizioni e di conflitti, il monastero vuole essere un luogo di pace e di fraternità in cui tutti si riconoscono fratelli e sorelle, al di là di ogni appartenenza. Ma non solo, questa comunità, che è condivisione di vita, prende i tratti dell’azione, dell’opera fatta insieme. Insieme si lavora, insieme si mangia, insieme si prega, tutto viene fatto insieme, in armonia: prevale il “con” ed è negata ogni pretesa di individualismo. Per questo anche i beni sono di tutti i monaci e mai una proprietà è privata. Dalla comunità monastica sono bandite le parole “il mio”, “il tuo”, ma sempre prevale “il nostro”. È l’arte della comunione che il monastero, il sangha, cerca di vivere facendone l’impegno di tutta una vita.
Ma in questa vita di comunione vissuta sobriamente c’è ed è importante l’equilibrio tra lavoro e meditazione. I monaci lavorano per guadagnare il pane, per vivere fanno diversi lavori perché sono creativi e nel monastero si assecondano sempre i doni di cui un monaco è dotato. Ma poi meditano, pregano a seconda delle tradizioni. I monaci cattolici occidentali ritmano la giornata con sette ore di preghiera in cui cantano i salmi e ascoltano le sante letture della Bibbia. I monaci cristiani orientali invece preferiscono una lunga preghiera al mattino all’alba e un’altra lunga preghiera nell’ora del tramonto. Nei monasteri buddhisti diverse sono le distribuzioni degli orari delle preghiere, ma nei templi buddhisti o nei monasteri cristiani ci sono sempre monaci chini sulle loro sacre Scritture che leggono, meditano e pregano. Recitano le parole dei testi da millenni e intonano canti dei quali non si conosce neanche più l’autore e la data di nascita. Quante volte di notte, soprattutto prima dell’alba, mentre medito attraverso la lectio divina le sante Scritture penso ai templi dove i monaci in oriente e occidente fanno altrettanto, unendosi in una comunione invisibile, ma che sentiamo viva, reale!
Il monastero è così “casa dello studio, della meditazione” e a tutti offre ospitalità perché conoscano e possano sperimentare vie di sapienza e di pace. La nascita di un monastero è un evento molto importante per la nostra umanizzazione e per questo saluto con gioia i fratelli e le sorelle buddhisti di Pomaia e il venerabile loro maestro. Siamo una comunione, siamo semplici uomini e donne viandanti su questa terra e possiamo offrire con i nostri monasteri vie di pace, di non violenza, di fraternità.