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Luciano Manicardi “Il corpo che ama. L’esperienza erotica nel Cantico dei Cantici”

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PUBBLICAZIONE SCOUT PER EDUCATORI  3/2024

Atti del Seminario sulla corporeità  
22/24 settembre 2023

Progettando il seminario, abbiamo sentito il bisogno di collocare il cammino di riscoperta delle dimensioni della corporeità - in rapporto a noi stessi, alla sensibilità contemporanea, all’azione come educatori - entro una riflessione biblica. 
Perché la Bibbia non ha paura del corpo, né lo sminuisce o frammenta, ma lo considera intero, dono del Dio della vita. Con il corpo, perciò, e non nonostante il corpo, l’uomo è degno di stare in dialogo aperto col Signore. 
Non è forse un caso che gli ebrei preghino in piedi e probabilmente la Parola che si fa carne non avrebbe potuto essere concepita in una cultura differente. 
Luciano Manicardi, monaco di Bose, ha accettato con generosità di accompagnarci in questo percorso e gli siamo profondamente grati per la profondità e la lucidità partecipe del suo intervento. Le sue riflessioni, dedicate al soffio vitale, al corpo che siamo, al corpo che prega - a partire dalla lettura della vicenda del profeta Elia, del movimento della voce e del corpo nei Salmi, della passione erotica del Cantico dei Cantici - ci hanno aperto a una nuova conoscenza dei testi, supportata anche dalla filologia. Ne abbiamo ricavato una comprensione esistenziale e non solo intellettuale. 
I tempi del seminario sono stati scanditi da tre incontri, che hanno completato senza forzature i temi affrontati e dato luce alle esperienze che i partecipanti vivevano. Riproponiamo qui i testi integrali di Manicardi, felici di condividerne la ricchezza teologica e umana.

3. Il corpo che ama. L’esperienza erotica nel Cantico dei Cantici 

Anche Dio celebra la gioia incredibile della passione d’amore, se l’eros canta la bellezza della vita

Frammento di un dialogo e di una storia d’amore 
Al centro del Cantico dei Cantici (d’ora in poi: Ct) vi è l’amore di un uomo e di una donna, di un ragazzo e di una ragazza. Vi è un amore umano, un amore di cui anche noi possiamo avere esperienze, un amore che solo quando è colto nella sua “letteralità” e “materialità” può rivelarci anche la sua valenza simbolica e la sua portata spirituale. Sappiamo che la metafora dell’amore attraversa l’intera rivelazione. Ma dev’essere ben più che una metafora. “E tale è solo quando compare senza un rinvio a ciò di cui dev’essere metafora. Non è sufficiente che il rapporto di Dio con l’uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l’amante e l’amata; nella parola di Dio dev’esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senz’alcun rimando al significato. E così lo troviamo nel Ct. In questa metafora non è più possibile vedere ‘soltanto una metafora’. Qui il lettore è posto di fronte all’alternativa tra l’accogliere il senso “puramente umano”, puramente sensuale, ed il riconoscere che qui, proprio in questo senso puramente sensibile, direttamente e non “solo” metaforicamente, si cela il significato più profondo” (1). Quindi, non si tratta di intendere il Ct come un’allegoria, ritenendo che solo rimuovendo l’accezione umana, carnale, corporea, sensuale, erotica dell’amore esso possa avere dignità di cittadinanza nella Bibbia. Non è neppure importante dare un nome ai due amanti: si tratta del re Salomone e della “regale” figlia del faraone, come propone un’interpretazione assai nota? Di quale re si tratta? 
In verità l’amore rende re gli amanti: le immagini regali del Ct si spiegano così. E comunque facendo l’elogio del corpo dell’amato, la donna lo paragona a una statua di un dio (5,14-15: “le sue gambe, colonne di alabastro, posate su basi d’oro puro”); descrivendo l’amata il ragazzo la pone al di sopra delle regine (6,9) e le accorda titoli degni di una dea (6,10: “bella come la luna, splendida come il sole”). Quale amante non vuole adorare la persona amata? 
Quando diciamo alla persona amata “Ti adoro”, “Sei adorabile”, , intendiamo che lei per noi dà senso a tutto, al mondo e alla vita e accende di luce e di calore i nostri sensi e i nostri giorni, illumina la nostra intelligenza, fa brillare i nostri occhi. È il desiderio che rende adorabile l’altro. La magia dell’amore e dell’innamoramento illumina il nostro sguardo che trasfigura l’altro e ce lo rende splendido, “unico” (“unica è la mia colomba, il mio tutto”: Ct 6,9). La magia non è nelle cose ma nello sguardo che le guarda e le vede. Agli occhi di lei, lui è un re (1,4.12), agli occhi di lui, lei è lodata anche da “regine” (6,9). È poi significativo che nel Ct manchi ogni esplicito riferimento religioso, a parte il rimando all’amore come “fiamma del Signore” (8,6): nel Ct non si deve cercare di sostituire Dio all’amante o pensare che il partner maschile sia divinizzato; ciò che è divino, nel Ct, è ciò che intercorre fra gli amanti, è la loro relazione. È in quel fuoco in cui si situano gli amanti che abita il Dio che è un fuoco divorante (cf. Dt 4,24). 

Desiderio e attrazione: potenza di metamorfosi 
Il Ct celebra la potenza dell’attrazione La bellezza del corpo è luce abbagliante: “quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella” (Ct 1,15; 4,1; 7,7) dice lui; e lei dice di lui che è “tutto delizie” (5,16). Il Ct è celebrazione del desiderio. L’eros ci spinge verso l’altro, il desiderio ci conduce a cercarlo, a non vedere l’ora di incontrarlo per stringerlo, per abbracciarlo: “Trovai l’amore dell’anima mia, lo strinsi forte e non lo lascerò finché non l’abbia condotto nella casa di mia madre, nella stanza di colei che mi ha concepito” (3,4). I due corpi si uniscono a formare un unico corpo. Qui avviene la metamorfosi. Il desiderio espresso costantemente nel Ct dall’“Alzati, amica mia, vieni” (2,10.13; 4,8) di lui a lei e dall’analogo “Vieni, amato mio” (7,12), “ritorna, amato mio” (2,17) di lei a lui, indicano l’anelito verso ciò che nell’incontro reciproco ci rende felici, luminosi, ciò che opera la nostra metamorfosi. Ci rende re e regine. L’estasi dell’incontro sessuale, dell’amplesso e del piacere, fa vivere in una dimensione fuori del tempo e dello spazio e opera una metamorfosi degli amanti: la ragazza è forse una pastorella? Non lo sappiamo, ma qui diventa una regina. Lui, può essere chiunque, ma l’incontro erotico le rende un re. Noi umani non constatiamo forse gli effetti trasformativi dell’innamoramento e dell’incontro amoroso? Del fare l’amore con la persona amata? Noi ci incontriamo nell’amore perché la crisalide diventi farfalla. E l’amore porta con sé i suoi doni: si diventa più belli, gli occhi risplendono di una felicità indicibile, sono luminosi, i sogni che abbiamo cullato per lungo tempo si realizzano, il lavoro migliora, le cose che fino a ieri ci sembravano insopportabili ora le affrontiamo con serenità, il mondo acquista senso e diventa vivibile. L’innamoramento ci apre futuro, dà senso all’oggi e ci pacifica con il passato. Ci diciamo che se le sofferenze patite, gli anni di lacrime, le relazioni infelici vissute erano fatti necessari per condurci all’incontro odierno, allora ci pacifichiamo e ne siamo perfino grati. 
Il Ct ci dice che noi amiamo, incontriamo l’altro, facciamo l’amore e gioiamo e godiamo dell’amore, per la nostra metamorfosi. Gli amanti sono grati del dono che rappresentano l’uno per l’altra. Perché, in realtà, è il dono della vita stessa. 

Il tripudio dei sensi 
Fin dalle prime parole i sensi emergono come protagonisti per eccellenza del Ct. 
Anzitutto il gusto, visto che i baci e le dolcezze dell’amore vengono paragonati al bere il vino, al vino inebriante (1,2.4). Baciarsi è un po’ come bere l’uno dall’altro, bersi reciprocamente. “Dolce il suo frutto al mio palato”, dice lei (2,3). Ma anche la consumazione dell’amore, il fare l’amore viene espresso con la metafora gastronomica, con il rimando al bere e al mangiare: “Ho mangiato li mio favo e il mio miele, ho bevuto il mio vino e il mio latte” (5,1) dice lui. 
Poi l’olfatto, “i tuoi profumi sono buoni all’odore, unguento che si effonde è il tuo nome” (1,3). Ed è anzitutto l’odore della persona amata che inebria e di cui l’amante non smette di saziarsi. L’odore di una persona è ciò che può esercitare una potente attrazione oppure respingerci in modo radicale. La vicinanza dei corpi che si amano è anche vicinanza e mescolanza di umori e odori. 
Poi l’udito: “Una voce, il mio amato” (2,8). Il Ct è poi attraversato da dialoghi dei due amanti. E lo stesso incontro amoroso è accompagnato da gemiti di piacere, respiro affannoso, mugolii, parole dolci o spinte, sospiri, le parole pronunciate quasi in trance “sì”, “ancora”. E il nome pronunciato dall’uno e dall’altra, i nomignoli e gli attributi che gli amanti nell’intimità si scambiano: “mia colomba”, “amica mia”, e lei, “amato mio”, “amico mio”. 
E poi il tatto, presente nell’abbraccio (“lo strinsi forte e non lo lascerò”: 3,4), nell’amplesso (“La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia”: 2,6; 8,3), nelle carezze (“più inebrianti del vino sono le tue carezze”: 4,10). E il tatto, così fondamentale per lo stesso equilibrio psichico ed affettivo (e l’abbiamo visto nella forzata astinenza da abbracci e contatti durante la pandemia), non solo è l’organo di senso più diffuso perché copre tutto il corpo, ma è anche l’organo costitutivamente reciproco: toccare è sempre anche essere toccati. E il tatto non agisce solo nel contatto pelle-pelle, ma anche nella penetrazione, nell’essere lei toccata nell’intimo. 
Luce Irigaray scrive che “alcune parti del nostro corpo, particolarmente coinvolte nell’eros, sono invisibili. In particolare, per le donne, le membrane mucose sono la parte più sensibile al tatto e la più coinvolta nel risveglio erotico” (2).
Il testo centrale di Ct 5,4 è esplicito: “Il mio amato ha introdotto la mano nella fessura e le mie viscere fremettero per lui”. Garbini traduce: “Quando il mio diletto spinse dentro il suo sesso, le mie viscere ebbero un fremito” (3). Vorrei che tutto questo non scandalizzasse nessuno o che nessuno pensasse che queste cose sono curiosità morbose. Secondo la rivelazione biblica, il corpo, e più particolarmente l’esercizio sessuale, è vettore di santità, come afferma un bel testo della tradizione ebraica: “La Shekinah riposa sul letto coniugale quando l’uomo e la donna si uniscono nell’amore e nella santità: senza questa unione noi siamo indegni della presenza divina. (…) Dalla distruzione del tempio, la camera da letto degli sposi è diventata una piccola parte del Santo dei Santi” (4). 
Per la tradizione ebraica, sessualità fa rima con santità e certe opere medievali che trattano della vita sessuale sono intitolate, significativamente, La lettera di santità o Le porte della santità. 
E infine, la vista. Che è in azione nella contemplazione del corpo dell’uno e dell’altra, e che agisce come sguardo innamorato, intelligente, profondo, stupito, grato. Come sguardo ammaliatore: “Tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo”, dice lui (4,9). 
Lo sguardo viene perfino colto nella sua potenza insopportabile. Come a volte siamo intimoriti di fronte a una persona di abbagliante bellezza e non ne sosteniamo la visione oppure il suo sguardo ci imbarazza, così l’amato dice: “Distogli da me i tuoi occhi perché mi sconvolgono” (6,5). Anche noi conosciamo o abbiamo conosciuto i timori e tremori dell’animo quando, innamorati, abbiamo desiderato e temuto guardare la persona di cui eravamo innamorati. 

Cibo ed eros 
Si legge in Ct 5,1: “Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa, ho raccolto la mia mirra e il mio balsamo, ho mangiato il mio favo e il mio miele, ho bevuto il mio vino e il mio latte. Mangiate, amici, inebriatevi, o cari”: l’amato, obbedendo all’invito dell’amata (4,16: “Venga l’amato mio nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti”), entra nel giardino della sua sposa e mangia e beve, cogliendo i frutti dell’amore. A questo segue l’invito a mangiare e bere rivolto a terzi: “Mangiate, amici, inebriatevi, cari”. Probabilmente troviamo qui un invito rivolto agli invitati a una festa nuziale e siamo di fronte a un testo che era in origine un canto nuziale. Si intrecciano e sovrappongono i temi del cibo e dell’eros. Il piacere e la gioia della consumazione dell’amore, cui allude l’amato con le parole “ho mangiato il mio favo, ho bevuto il mio vino”, viene estesa agli invitati, ma con modalità inversa: mangiando e bevendo ad un reale banchetto essi parteciperanno in qualche modo alla gioia dell’amore. 
Noi parliamo di consumare l’amore, l’atto dell’amore per indicare il far l’amore, e di consumare un cibo per indicare l’atto di mangiare. Dopo quanto abbiamo detto circa il Ct come canto dei sensi, dobbiamo ricordare che il mangiare è un atto sensoriale totale, che investe tutti i sensi. L’olfatto: l’aroma dei cibi, percepito per via retronasale, è essenziale. Già il profumo ci invoglia o ci respinge. L’olfatto, in certo modo, è il gusto preliminare. 
Con l’odorato, noi già pregustiamo il sapore del cibo. Il tatto interviene valutando la consistenza dei cibi, molli o duri, cremosi, capaci di sciogliersi in bocca; la stessa sensibilità termica della bocca è importante per apprezzare il gusto di un cibo. 
La vista: il modo in cui un cibo è presentato, in cui una vivanda è portata in tavola, è decisivo. Vi è un rapporto diretto fra apparenza e appetenza. Lo sguardo anticipa il sapore del cibo attivando le esperienze anteriori che la persona ha memorizzato e mettendo in moto l’elaborazione simbolica del reale. 
Poi l’udito: pensiamo alla sonorità di un alimento: il carattere croccante di un’insalata o delle fette biscottate o del pane appena sfornato. Il senso dell’udito è implicato nel fatto che antropologicamente si mangia insieme e la tavola è luogo di scambio, di creazione di fraternità, di amicizia, di alleanza. A tavola non si scambia solo il cibo, ma anche la parola, si fanno discorsi nutrendo così le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. 
Infine, ovviamente, il gusto. Il gusto esige di introdurre dentro di sé una particella del mondo. Suoni, odori, immagini hanno origine fuori di noi, il sapore si sprigiona in noi: il gusto compare in noi, nella nostra bocca, nel momento in cui si mescola con la nostra carne e vi lascia una traccia sensibile. Vi è un rapporto stretto fra gusto e interiorità. Inoltre, il gusto è un senso della differenziazione, che deve cioè discernere buono e cattivo, dolce e amaro, salato e acido. Come nell’eros, anche nell’atto di mangiare siamo di fronte all’alleanza dei sensi. 

Ars amandi 
Il Ct presenta una serie di gesti dell’amore. Gesti che, pur potendo conoscere variazioni di significato nelle diverse culture e nei diversi tempi, hanno fondamentalmente una dimensione universale e sono di ogni tempo e di ogni luogo. Bacio 
L’incipit del Ct è segnato dal bacio: “Mi baci con i baci della sua bocca” (1,2). È un inizio ardente, focoso. La bocca è il primo organo che si presenta al lettore del Ct: e la bocca è istanza di frontiera tra dentro e fuori, soglia tra interiorità ed esteriorità. 
Con la bocca comunichiamo tramite la parola, con la bocca ci nutriamo mangiando, con la bocca esprimiamo la nostra affettività baciando. Parola, cibo, bacio: abbiamo qui tre protagonisti del Ct. Ma il bacio è in primo piano. Anzi, è l’anelito, il desiderio del bacio. Gesto antico, che risale all’usanza dei primati e degli ominidi preistorici di nutrire i piccoli con la bocca: masticando cioè il cibo e poi porgendolo con l’aiuto della lingua al piccolo: una nutrizione bocca a bocca. 
Ma da gesto alimentare è diventato gesto simbolico che cerca e desidera la relazione con l’altro. E capiamo che, con queste origini, il bacio ha potere di saziarci. Baciare il corpo della persona amata, baciarla in bocca, annunciando il desiderio dell’unione sessuale, baciare con tenerezza, con avidità, con delicatezza, con foga, fino a mordere: mentre baciamo ci diamo e ci nutriamo. Doniamo e riceviamo. 

Abbraccio 
Abbiamo già incontrato gli abbracci del Ct. E spesso bacio e abbraccio sono contemporanei. Potremmo coniare il verbo abbaciare e il termine abbacio proprio per indicare i due gesti simultanei con un solo verbo e un solo vocabolo. Protezione e possesso, delicatezza e forza, desiderio e abbandono sono compresenti nell’abbraccio che avvolge e copre e dona. Nell’abbraccio i corpi si stringono, il respiro e il battito del cuore si uniscono, tendono all’unisono. Il mio cuore batte in te, il tuo cuore batte in me. L’abbraccio è volontà di essere insieme. Non ti lascio nella solitudine, ecco cosa dice l’abbraccio. L’abbraccio può essere passionale, ma anche riposante. Voglio essere per te luogo sicuro, luogo di rifugio, luogo di riposo. In Ct 2,6-7 e anche in 8,3-4 l’abbraccio è seguito dal sonno dell’amato (“Non destate, non scuotete dal sonno l’amato”: 2,7; 8,4). L’abbraccio è il riposo in cui gli amanti trovano appagamento e da cui non vorrebbero mai sciogliersi: “lo strinsi forte e non lo lascerò” (3,4). È l’attimo in cui il tempo trascolora in eternità. Il tempo esce dal tempo. 

Carezza 
Le carezze fanno parte dell’incontro amoroso. Le troviamo in 4,10, anche se a volte l’ebraico viene tradotto con “dolcezze”, a volte con “amore”. La carezza è linguaggio delicato e potentemente erotico. La carezza esprime il desiderio del corpo dell’altro ma ne disegna i confini, accompagnandone le linee: non mi impossesso di te, ma, accarezzandoti, ti contemplo, ti ammiro, come sei, ti restituisco a te, perché è te che io amo. Questo dice la carezza. La carezza lascia impronte di sé nel corpo dell’altro, è memoria consegnata al corpo della persona amata. La carezza è amore che lascia liberi, che non vuole possedere. È gioia che l’altro sia. Poi, nell’incontro erotico, la carezza diviene bruciante, passionale: vuole essere dono di godimento all’altro. Capiamo che le carezze di cui parla Ct 4,10 possano inebriare, ubriacare. 

Il corpo e la parola 
Ciò che degli amanti ci è presentato nel Ct è il corpo e la parola. Il corpo appare il luogo dell’alleanza e la parola, che dice il corpo, che canta e proclama la bellezza del corpo della persona amata, fa sì che la donna sia il luogo in cui il mondo prende forma per l’uomo e l’uomo per la donna. Attraverso il corpo dell’amata l’amante riceve il mondo e viceversa. 
Nel Ct vi è questa totale reciprocità che, attraverso il linguaggio più sensuale ed erotico, dice la donazione dell’uno all’altra e viceversa: “Il mio amato è mio e io sono sua” (2,16; 6,3). 
E colpisce che nel Ct sia la donna che parla più del suo compagno: vi è una dimensione accentuata di femminilità nel Ct che sembra far emergere la donna come vera protagonista. E se il Ct conosce la dimensione sessuale dell’incontro fra i due, esso fa abitare la parola nella differenza sessuale degli amanti. La sessualità umana è parlata: senza parola non vi è sessualità e neppure desiderio. Ora, il Ct presenta sia l’incontro dei corpi che lo scambio delle parole, e la bocca che dona baci è la stessa che pronuncia parole. L’“io” e il “tu” del Ct sono attraversati dalla differenza sessuale che diviene differenza di pronomi personali maschili e femminili nel testo ebraico. Il Ct diviene così un dialogo che si offre al lettore come “paradigma del discorso differenziato” (5). Questo dialogo, suscitato dall’amore e che sostiene l’amore, diviene il santuario della libertà e della creatività. Il linguaggio degli amanti del Ct crea metafore inedite, porta la lingua su sentieri prima ignoti, si concentra sul corpo come sul luogo dello scambio fra uomo e mondo, fra universalità del mondo e singolarità delle persone. 
Come è proprio di tutti gli innamorati, anche gli amanti del Ct creano metafore, creano un linguaggio condiviso e da loro compreso, un linguaggio attraverso il quale possono riconoscersi reciprocamente: l’amore, infatti, è intelligente. Con queste metafore, con queste espressioni simboliche, il desiderio degli amanti diviene parola scambiata e il loro incontro, incontro di libertà dialoganti. 

Il Ct come pura dialogicità 
Nel Ct il dialogo, lo scambio di parole fra gli interlocutori, non è sostenuto dagli interventi di un narratore che li ordini e li situi: “Nessuno commenta per noi: Egli disse: ‘…’; Lei gli rispose: ‘…’. Non sappiamo quando, dove, e nemmeno se queste parole sono state pronunciate. Sono piuttosto delle parole ‘da dire’, come in un libretto d’opera. Le scopriamo in versione integrale, senza mediazione alcuna. Leggerle significa sorprendersi a recitare il ruolo dell’uno o dell’altro dei protagonisti. Una volta passato il titolo, siamo immersi in medias res” (6). È la struttura dialogica che conferisce unità al Ct, ed è il dialogo l’originalità più evidente del Ct: è attraverso la parola che gli amanti si cercano, si invocano, si celebrano, si donano. Il proprium della vicenda amorosa del Ct, rispetto alle tante altre metafore con cui la Scrittura evoca il rapporto di Dio con il suo popolo, è la dialogicità (che non attraversa il rapporto, per esempio, tra vignaiolo e vigna); anzi, una dialogicità segnata da reciprocità totale (cosa che non avviene nel rapporto signore – servo e neppure padre – figlio); meglio ancora, una dialogicità immediata (senza mediazioni di narratori), potremmo dire, un dialogo in atto. E il dialogo investe sempre anche un terzo, essenzialmente il coro delle figlie di Gerusalemme, ma intervengono anche le guardie della città, così come ci sono i fratelli dell’amata. Conformemente alla struttura dell’alleanza, l’amore dei due protagonisti del Ct avviene davanti a testimoni, si situa in un contesto sociale, politico, storico. 
Non è un amore fusionale, perso nel cerchio che rischia di divenire infernale “io” – “tu”, “tu” – “io”: il Ct presenta il paradigma del dialogo differenziato e contestualizzato, e proprio in questa sua caratteristica esso coinvolge il lettore. La differenza sessuale, che abita la vicenda e il dialogo dei due amanti del Ct, è la cifra più completa dell’apertura all’altro e, nel mondo biblico, all’apertura all’Altro. Credo che si possa allora comprendere il perché dell’inserzione del Ct nel Canone biblico. Al cuore del Canone, il Ct funziona come una mîse en abîme, è una sorta di duplicazione del senso e dell’intenzione dell’intera Scrittura all’interno della Scrittura stessa. Il Ct è la rivelazione del dialogo immediato in cui si compie la Scrittura (7). Così il Ct, da pietra di scandalo che ha portato infinite volte a chiedersi come mai un testo simile sia entrato nel Canone biblico, ne diviene il cuore segreto, il centro simbolico: il dialogo che esso è diventa il dialogo in cui occorre entrare nel gioco dell’ascolto e della ri-enunciazione (8). Il contesto biblico in cui si trova ci assicura poi che l’amore è unico: l’amore umano e l’amore che lega Dio a Israele hanno la stessa struttura. Dio parla il linguaggio degli uomini, e anche la Scrittura parla il linguaggio umano. La poetica del Ct, mettendo in atto discorso della differenza e discorso della comunione, articola il discorso di alleanza di tutta quanta la Scrittura. 
Possiamo concludere: non vi è alcun dubbio che il dialogo amoroso del Ct è quello di un uomo e di una donna, “ma, disegnando il dramma e la felicità della parola scambiata, esso si propone anche come lo specchio della Scrittura tutta, parola scambiata fra Dio e l’uomo, dello sposo alla sposa, della sposa allo sposo” (9). 
È proprio dunque cogliendo l’umanità dell’amore del Ct che se ne coglie la portata simbolica. Quella portata che ci porta a vedere nello scambio delle parole e nell’incontro dei corpi degli amanti del Ct la parabola dell’amore di ogni coppia umana, ma anche il mistero della Parola di Dio che prende dimora nel corpo umano. Il mistero dell’incarnazione.

Note

1 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 212-213 

2 L. Irigaray, Elogio del toccare, il melangolo, Genova 2013, p.35. 

3 G. Garbini, Cantico dei cantici, Paideia, Brescia 1992, p. 157. 

4 Il testo, desunto dallo Zohar, è citato in J.-M. Chouraqui, «Un esprit saint dans un corps saint: alliance, corps et sexualité dans le judaïsme», in Revue d’éthique et de théologie morale «Le Supplement» 217 (2001), pp. 55-70. 

5 J. – P. Sonnet, Le «Cantique», entre érotique et mystique: sanctuaire de la paroleéchangée, Nouvelle Revue Théologique 4 (1997), p. 489. 

6 Ivi, p. 487. 

7 A.-M. Pelletier, LecturesduCantiquedesCantiques. De l’enigmedusensauxfiguresdulecteur, PIB, Roma 1989. 

8 J.-P. Sonnet, «Figures (anciennes et nouvelles) dulecteur». DuCantiquedesCantiquesau Livre entier. À propos d’un ouvragerécent, Nouvelle Revue Théologique 1 (1991), pp. 75-86. 

9 J. – P. Sonnet, Le «Cantique», entre érotique et mystique, a.c., pp. 501-502.



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