Luciano Manicardi “Il corpo che ama. L’esperienza erotica nel Cantico dei Cantici”
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PUBBLICAZIONE SCOUT PER EDUCATORI 3/2024
Atti del Seminario sulla corporeità
22/24 settembre 2023
Progettando il seminario, abbiamo
sentito il bisogno di collocare il cammino di riscoperta delle dimensioni
della corporeità - in rapporto a noi
stessi, alla sensibilità contemporanea,
all’azione come educatori - entro
una riflessione biblica.
Perché la Bibbia non ha paura del
corpo, né lo sminuisce o frammenta,
ma lo considera intero, dono del Dio
della vita. Con il corpo, perciò, e non
nonostante il corpo, l’uomo è degno
di stare in dialogo aperto col Signore.
Non è forse un caso che gli ebrei preghino in piedi e probabilmente la Parola che si fa carne non avrebbe
potuto essere concepita in una cultura
differente.
Luciano Manicardi, monaco di Bose,
ha accettato con generosità di accompagnarci in questo percorso e gli siamo
profondamente grati per la profondità
e la lucidità partecipe del suo intervento. Le sue riflessioni, dedicate al
soffio vitale, al corpo che siamo, al corpo che prega - a partire dalla lettura
della vicenda del profeta Elia, del movimento della voce e del corpo nei
Salmi, della passione erotica del Cantico dei Cantici - ci hanno aperto a una nuova conoscenza dei testi, supportata anche dalla filologia. Ne abbiamo ricavato una comprensione esistenziale e non solo intellettuale.
I tempi del seminario sono stati
scanditi da tre incontri, che hanno
completato senza forzature i temi
affrontati e dato luce alle esperienze
che i partecipanti vivevano. Riproponiamo qui i testi integrali di Manicardi, felici di condividerne la ricchezza teologica e umana.
3. Il corpo che ama. L’esperienza erotica nel Cantico dei Cantici
Anche Dio celebra la gioia incredibile della passione
d’amore, se l’eros canta la bellezza della vita
Frammento di un dialogo
e di una storia d’amore
Al centro del Cantico dei Cantici
(d’ora in poi: Ct) vi è l’amore di un
uomo e di una donna, di un ragazzo e
di una ragazza. Vi è un amore umano,
un amore di cui anche noi possiamo
avere esperienze, un amore che solo
quando è colto nella sua “letteralità” e
“materialità” può rivelarci anche la
sua valenza simbolica e la sua portata
spirituale. Sappiamo che la metafora
dell’amore attraversa l’intera rivelazione. Ma dev’essere ben più che una metafora. “E tale è solo quando compare senza un rinvio a ciò di cui
dev’essere metafora. Non è sufficiente
che il rapporto di Dio con l’uomo
venga raffigurato con la metafora del
rapporto tra l’amante e l’amata; nella
parola di Dio dev’esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senz’alcun rimando al significato. E così lo troviamo nel Ct. In questa metafora non è
più possibile vedere ‘soltanto una metafora’. Qui il lettore è posto di fronte
all’alternativa tra l’accogliere il senso “puramente umano”, puramente sensuale, ed il riconoscere che qui, proprio in questo senso puramente sensibile, direttamente e non “solo” metaforicamente, si cela il significato più
profondo” (1). Quindi, non si tratta di
intendere il Ct come un’allegoria, ritenendo che solo rimuovendo l’accezione umana, carnale, corporea, sensuale, erotica dell’amore esso possa
avere dignità di cittadinanza nella Bibbia. Non è neppure importante dare
un nome ai due amanti: si tratta del re
Salomone e della “regale” figlia del faraone, come propone un’interpretazione assai nota? Di quale re si tratta?
In verità l’amore rende re gli amanti: le
immagini regali del Ct si spiegano così. E comunque facendo l’elogio del
corpo dell’amato, la donna lo paragona a una statua di un dio (5,14-15: “le
sue gambe, colonne di alabastro, posate
su basi d’oro puro”); descrivendo l’amata il ragazzo la pone al di sopra delle regine (6,9) e le accorda titoli degni
di una dea (6,10: “bella come la luna,
splendida come il sole”). Quale amante non vuole adorare la persona amata?
Quando diciamo alla persona amata
“Ti adoro”, “Sei adorabile”, , intendiamo che lei per noi dà senso a tutto, al
mondo e alla vita e accende di luce e di calore i nostri sensi e i nostri
giorni, illumina la nostra intelligenza,
fa brillare i nostri occhi. È il desiderio
che rende adorabile l’altro. La magia
dell’amore e dell’innamoramento illumina il nostro sguardo che trasfigura
l’altro e ce lo rende splendido, “unico”
(“unica è la mia colomba, il mio tutto”: Ct 6,9). La magia non è nelle cose ma nello sguardo che le guarda e le
vede. Agli occhi di lei, lui è un re
(1,4.12), agli occhi di lui, lei è lodata
anche da “regine” (6,9). È poi significativo che nel Ct manchi ogni esplicito riferimento religioso, a parte il rimando all’amore come “fiamma del
Signore” (8,6): nel Ct non si deve cercare di sostituire Dio all’amante o
pensare che il partner maschile sia divinizzato; ciò che è divino, nel Ct, è ciò
che intercorre fra gli amanti, è la loro relazione. È in quel fuoco in cui si situano
gli amanti che abita il Dio che è un
fuoco divorante (cf. Dt 4,24).
Desiderio e attrazione:
potenza di metamorfosi
Il Ct celebra la potenza dell’attrazione La bellezza del corpo è luce abbagliante: “quanto sei bella, amata mia,
quanto sei bella” (Ct 1,15; 4,1; 7,7)
dice lui; e lei dice di lui che è “tutto
delizie” (5,16). Il Ct è celebrazione
del desiderio. L’eros ci spinge verso
l’altro, il desiderio ci conduce a cercarlo, a non vedere l’ora di incontrarlo per stringerlo, per abbracciarlo: “Trovai l’amore dell’anima mia, lo strinsi
forte e non lo lascerò finché non l’abbia condotto nella casa di mia madre,
nella stanza di colei che mi ha concepito” (3,4). I due corpi si uniscono a
formare un unico corpo. Qui avviene
la metamorfosi. Il desiderio espresso
costantemente nel Ct dall’“Alzati,
amica mia, vieni” (2,10.13; 4,8) di lui
a lei e dall’analogo “Vieni, amato
mio” (7,12), “ritorna, amato mio”
(2,17) di lei a lui, indicano l’anelito
verso ciò che nell’incontro reciproco
ci rende felici, luminosi, ciò che opera
la nostra metamorfosi. Ci rende re e
regine. L’estasi dell’incontro sessuale,
dell’amplesso e del piacere, fa vivere
in una dimensione fuori del tempo e
dello spazio e opera una metamorfosi
degli amanti: la ragazza è forse una pastorella? Non lo sappiamo, ma qui diventa una regina. Lui, può essere
chiunque, ma l’incontro erotico le
rende un re. Noi umani non constatiamo forse gli effetti trasformativi
dell’innamoramento e dell’incontro
amoroso? Del fare l’amore con la persona amata? Noi ci incontriamo nell’amore perché la crisalide diventi farfalla. E l’amore porta con sé i suoi doni: si diventa più belli, gli occhi risplendono di una felicità indicibile,
sono luminosi, i sogni che abbiamo
cullato per lungo tempo si realizzano,
il lavoro migliora, le cose che fino a ieri ci sembravano insopportabili ora
le affrontiamo con serenità, il mondo
acquista senso e diventa vivibile. L’innamoramento ci apre futuro, dà senso
all’oggi e ci pacifica con il passato. Ci
diciamo che se le sofferenze patite, gli
anni di lacrime, le relazioni infelici
vissute erano fatti necessari per condurci all’incontro odierno, allora ci
pacifichiamo e ne siamo perfino grati.
Il Ct ci dice che noi amiamo, incontriamo l’altro, facciamo l’amore e
gioiamo e godiamo dell’amore, per la
nostra metamorfosi. Gli amanti sono
grati del dono che rappresentano l’uno per l’altra. Perché, in realtà, è il dono della vita stessa.
Il tripudio dei sensi
Fin dalle prime parole i sensi emergono come protagonisti per eccellenza
del Ct.
Anzitutto il gusto, visto che i
baci e le dolcezze dell’amore vengono
paragonati al bere il vino, al vino inebriante (1,2.4). Baciarsi è un po’ come
bere l’uno dall’altro, bersi reciprocamente. “Dolce il suo frutto al mio palato”, dice lei (2,3). Ma anche la consumazione dell’amore, il fare l’amore viene espresso con la metafora gastronomica, con il rimando al bere e al
mangiare: “Ho mangiato li mio favo e
il mio miele, ho bevuto il mio vino e
il mio latte” (5,1) dice lui.
Poi l’olfatto,
“i tuoi profumi sono buoni all’odore,
unguento che si effonde è il tuo nome” (1,3). Ed è anzitutto l’odore della
persona amata che inebria e di cui
l’amante non smette di saziarsi. L’odore di una persona è ciò che può esercitare una potente attrazione oppure
respingerci in modo radicale. La vicinanza dei corpi che si amano è anche
vicinanza e mescolanza di umori e
odori.
Poi l’udito: “Una voce, il mio
amato” (2,8). Il Ct è poi attraversato
da dialoghi dei due amanti. E lo stesso
incontro amoroso è accompagnato da
gemiti di piacere, respiro affannoso,
mugolii, parole dolci o spinte, sospiri,
le parole pronunciate quasi in trance
“sì”, “ancora”. E il nome pronunciato
dall’uno e dall’altra, i nomignoli e gli
attributi che gli amanti nell’intimità si
scambiano: “mia colomba”, “amica
mia”, e lei, “amato mio”, “amico
mio”.
E poi il tatto, presente nell’abbraccio (“lo strinsi forte e non lo lascerò”: 3,4), nell’amplesso (“La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia”: 2,6; 8,3), nelle carezze (“più inebrianti del vino sono le
tue carezze”: 4,10). E il tatto, così fondamentale per lo stesso equilibrio psichico ed affettivo (e l’abbiamo visto
nella forzata astinenza da abbracci e contatti durante la pandemia), non solo è l’organo di senso più diffuso perché copre tutto il corpo, ma è anche
l’organo costitutivamente reciproco:
toccare è sempre anche essere toccati.
E il tatto non agisce solo nel contatto pelle-pelle, ma anche nella penetrazione, nell’essere lei toccata nell’intimo.
Luce Irigaray scrive che “alcune
parti del nostro corpo, particolarmente coinvolte nell’eros, sono invisibili.
In particolare, per le donne, le membrane mucose sono la parte più sensibile al tatto e la più coinvolta nel risveglio erotico” (2).
Il testo centrale di
Ct 5,4 è esplicito: “Il mio amato ha
introdotto la mano nella fessura e le
mie viscere fremettero per lui”. Garbini traduce: “Quando il mio diletto
spinse dentro il suo sesso, le mie viscere ebbero un fremito” (3). Vorrei che
tutto questo non scandalizzasse nessuno o che nessuno pensasse che queste
cose sono curiosità morbose. Secondo
la rivelazione biblica, il corpo, e più
particolarmente l’esercizio sessuale, è
vettore di santità, come afferma un bel
testo della tradizione ebraica: “La
Shekinah riposa sul letto coniugale
quando l’uomo e la donna si uniscono
nell’amore e nella santità: senza questa
unione noi siamo indegni della presenza divina. (…) Dalla distruzione
del tempio, la camera da letto degli
sposi è diventata una piccola parte del
Santo dei Santi” (4).
Per la tradizione ebraica, sessualità fa
rima con santità e certe opere medievali che trattano della vita sessuale sono intitolate, significativamente, La
lettera di santità o Le porte della santità.
E infine, la vista. Che è in azione nella contemplazione del corpo dell’uno e
dell’altra, e che agisce come sguardo
innamorato, intelligente, profondo,
stupito, grato. Come sguardo ammaliatore: “Tu mi hai rapito il cuore con
un solo tuo sguardo”, dice lui (4,9).
Lo sguardo viene perfino colto nella
sua potenza insopportabile. Come a
volte siamo intimoriti di fronte a una
persona di abbagliante bellezza e non
ne sosteniamo la visione oppure il suo
sguardo ci imbarazza, così l’amato dice: “Distogli da me i tuoi occhi perché
mi sconvolgono” (6,5). Anche noi conosciamo o abbiamo conosciuto i timori e tremori dell’animo quando,
innamorati, abbiamo desiderato e temuto guardare la persona di cui eravamo innamorati.
Cibo ed eros
Si legge in Ct 5,1: “Sono venuto nel
mio giardino, sorella mia, mia sposa,
ho raccolto la mia mirra e il mio balsamo, ho mangiato il mio favo e il mio miele, ho bevuto il mio vino e il
mio latte. Mangiate, amici, inebriatevi,
o cari”: l’amato, obbedendo all’invito
dell’amata (4,16: “Venga l’amato mio
nel suo giardino e ne mangi i frutti
squisiti”), entra nel giardino della sua
sposa e mangia e beve, cogliendo i frutti
dell’amore. A questo segue l’invito a
mangiare e bere rivolto a terzi: “Mangiate, amici, inebriatevi, cari”. Probabilmente troviamo qui un invito rivolto agli invitati a una festa nuziale e
siamo di fronte a un testo che era in
origine un canto nuziale. Si intrecciano e sovrappongono i temi del cibo e
dell’eros. Il piacere e la gioia della
consumazione dell’amore, cui allude
l’amato con le parole “ho mangiato il
mio favo, ho bevuto il mio vino”, viene estesa agli invitati, ma con modalità
inversa: mangiando e bevendo ad un
reale banchetto essi parteciperanno in
qualche modo alla gioia dell’amore.
Noi parliamo di consumare l’amore,
l’atto dell’amore per indicare il far l’amore, e di consumare un cibo per indicare l’atto di mangiare. Dopo quanto abbiamo detto circa il Ct come
canto dei sensi, dobbiamo ricordare
che il mangiare è un atto sensoriale totale, che investe tutti i sensi. L’olfatto: l’aroma dei cibi, percepito per via retronasale, è essenziale. Già il profumo
ci invoglia o ci respinge. L’olfatto, in
certo modo, è il gusto preliminare.
Con l’odorato, noi già pregustiamo il sapore del cibo. Il tatto interviene valutando la consistenza dei cibi, molli o
duri, cremosi, capaci di sciogliersi in
bocca; la stessa sensibilità termica della
bocca è importante per apprezzare il
gusto di un cibo.
La vista: il modo in
cui un cibo è presentato, in cui una
vivanda è portata in tavola, è decisivo.
Vi è un rapporto diretto fra apparenza
e appetenza. Lo sguardo anticipa il sapore del cibo attivando le esperienze
anteriori che la persona ha memorizzato e mettendo in moto l’elaborazione simbolica del reale.
Poi l’udito: pensiamo alla sonorità di un alimento: il
carattere croccante di un’insalata o
delle fette biscottate o del pane appena
sfornato. Il senso dell’udito è implicato
nel fatto che antropologicamente si
mangia insieme e la tavola è luogo di
scambio, di creazione di fraternità, di
amicizia, di alleanza. A tavola non si
scambia solo il cibo, ma anche la parola, si fanno discorsi nutrendo così le
relazioni, ovvero ciò che dà senso alla
vita sostentata dal cibo.
Infine, ovviamente, il gusto. Il gusto esige di introdurre dentro di sé una particella del
mondo. Suoni, odori, immagini hanno
origine fuori di noi, il sapore si sprigiona in noi: il gusto compare in noi, nella nostra bocca, nel momento in
cui si mescola con la nostra carne e vi
lascia una traccia sensibile. Vi è un
rapporto stretto fra gusto e interiorità.
Inoltre, il gusto è un senso della differenziazione, che deve cioè discernere
buono e cattivo, dolce e amaro, salato
e acido. Come nell’eros, anche nell’atto di mangiare siamo di fronte all’alleanza dei sensi.
Ars amandi
Il Ct presenta una serie di gesti dell’amore. Gesti che, pur potendo conoscere variazioni di significato nelle diverse culture e nei diversi tempi, hanno fondamentalmente una dimensione universale e sono di ogni tempo e
di ogni luogo.
Bacio
L’incipit del Ct è segnato dal bacio:
“Mi baci con i baci della sua bocca”
(1,2). È un inizio ardente, focoso. La
bocca è il primo organo che si presenta al lettore del Ct: e la bocca è
istanza di frontiera tra dentro e fuori,
soglia tra interiorità ed esteriorità.
Con la bocca comunichiamo tramite
la parola, con la bocca ci nutriamo
mangiando, con la bocca esprimiamo
la nostra affettività baciando. Parola,
cibo, bacio: abbiamo qui tre protagonisti del Ct. Ma il bacio è in primo
piano. Anzi, è l’anelito, il desiderio del
bacio. Gesto antico, che risale all’usanza dei primati e degli ominidi preistorici di nutrire i piccoli con la bocca: masticando cioè il cibo e poi porgendolo con l’aiuto della lingua al
piccolo: una nutrizione bocca a bocca.
Ma da gesto alimentare è diventato gesto simbolico che cerca e desidera
la relazione con l’altro. E capiamo che,
con queste origini, il bacio ha potere
di saziarci. Baciare il corpo della persona amata, baciarla in bocca, annunciando il desiderio dell’unione sessuale, baciare con tenerezza, con avidità,
con delicatezza, con foga, fino a mordere: mentre baciamo ci diamo e ci
nutriamo. Doniamo e riceviamo.
Abbraccio
Abbiamo già incontrato gli abbracci
del Ct. E spesso bacio e abbraccio sono contemporanei. Potremmo coniare
il verbo abbaciare e il termine abbacio
proprio per indicare i due gesti simultanei con un solo verbo e un solo vocabolo. Protezione e possesso, delicatezza e forza, desiderio e abbandono
sono compresenti nell’abbraccio che
avvolge e copre e dona. Nell’abbraccio i corpi si stringono, il respiro e il
battito del cuore si uniscono, tendono
all’unisono. Il mio cuore batte in te, il
tuo cuore batte in me. L’abbraccio è
volontà di essere insieme. Non ti
lascio nella solitudine, ecco cosa dice
l’abbraccio. L’abbraccio può essere
passionale, ma anche riposante. Voglio
essere per te luogo sicuro, luogo di rifugio, luogo di riposo. In Ct 2,6-7 e
anche in 8,3-4 l’abbraccio è seguito
dal sonno dell’amato (“Non destate,
non scuotete dal sonno l’amato”: 2,7;
8,4). L’abbraccio è il riposo in cui gli
amanti trovano appagamento e da cui
non vorrebbero mai sciogliersi: “lo
strinsi forte e non lo lascerò” (3,4). È
l’attimo in cui il tempo trascolora in
eternità. Il tempo esce dal tempo.
Carezza
Le carezze fanno parte dell’incontro
amoroso. Le troviamo in 4,10, anche
se a volte l’ebraico viene tradotto con
“dolcezze”, a volte con “amore”. La
carezza è linguaggio delicato e potentemente erotico. La carezza esprime il
desiderio del corpo dell’altro ma ne
disegna i confini, accompagnandone
le linee: non mi impossesso di te, ma,
accarezzandoti, ti contemplo, ti ammiro, come sei, ti restituisco a te, perché è te che io amo. Questo dice la
carezza. La carezza lascia impronte di
sé nel corpo dell’altro, è memoria
consegnata al corpo della persona
amata. La carezza è amore che lascia
liberi, che non vuole possedere. È
gioia che l’altro sia. Poi, nell’incontro
erotico, la carezza diviene bruciante,
passionale: vuole essere dono di godimento all’altro. Capiamo che le carezze di cui parla Ct 4,10 possano inebriare, ubriacare.
Il corpo e la parola
Ciò che degli amanti ci è presentato
nel Ct è il corpo e la parola. Il corpo appare il luogo dell’alleanza e la parola, che
dice il corpo, che canta e proclama la bellezza del corpo della persona amata, fa sì
che la donna sia il luogo in cui il mondo prende forma per l’uomo e l’uomo per la
donna. Attraverso il corpo dell’amata
l’amante riceve il mondo e viceversa.
Nel Ct vi è questa totale reciprocità
che, attraverso il linguaggio più sensuale ed erotico, dice la donazione
dell’uno all’altra e viceversa: “Il mio
amato è mio e io sono sua” (2,16; 6,3).
E colpisce che nel Ct sia la donna che
parla più del suo compagno: vi è una
dimensione accentuata di femminilità nel
Ct che sembra far emergere la donna come
vera protagonista. E se il Ct conosce la
dimensione sessuale dell’incontro fra i
due, esso fa abitare la parola nella differenza sessuale degli amanti. La sessualità umana è parlata: senza parola
non vi è sessualità e neppure desiderio. Ora, il Ct presenta sia l’incontro
dei corpi che lo scambio delle parole,
e la bocca che dona baci è la stessa che
pronuncia parole. L’“io” e il “tu” del
Ct sono attraversati dalla differenza
sessuale che diviene differenza di pronomi personali maschili e femminili
nel testo ebraico. Il Ct diviene così un
dialogo che si offre al lettore come
“paradigma del discorso differenziato” (5). Questo dialogo, suscitato dall’amore e che sostiene l’amore, diviene il
santuario della libertà e della creatività. Il linguaggio degli amanti del Ct
crea metafore inedite, porta la lingua
su sentieri prima ignoti, si concentra
sul corpo come sul luogo dello scambio fra uomo e mondo, fra universalità
del mondo e singolarità delle persone.
Come è proprio di tutti gli innamorati, anche gli amanti del Ct creano
metafore, creano un linguaggio condiviso e da loro compreso, un linguaggio attraverso il quale possono riconoscersi reciprocamente: l’amore, infatti, è intelligente. Con queste metafore, con queste espressioni simboliche, il desiderio degli amanti diviene
parola scambiata e il loro incontro, incontro di libertà dialoganti.
Il Ct come pura dialogicità
Nel Ct il dialogo, lo scambio di parole
fra gli interlocutori, non è sostenuto
dagli interventi di un narratore che li
ordini e li situi: “Nessuno commenta
per noi: Egli disse: ‘…’; Lei gli rispose:
‘…’. Non sappiamo quando, dove, e
nemmeno se queste parole sono state
pronunciate. Sono piuttosto delle parole ‘da dire’, come in un libretto d’opera. Le scopriamo in versione integrale, senza mediazione alcuna. Leggerle significa sorprendersi a recitare il
ruolo dell’uno o dell’altro dei protagonisti. Una volta passato il titolo, siamo immersi in medias res” (6). È la struttura dialogica che conferisce unità al
Ct, ed è il dialogo l’originalità più evidente del Ct: è attraverso la parola
che gli amanti si cercano, si invocano,
si celebrano, si donano. Il proprium
della vicenda amorosa del Ct, rispetto
alle tante altre metafore con cui la
Scrittura evoca il rapporto di Dio con
il suo popolo, è la dialogicità (che non
attraversa il rapporto, per esempio, tra
vignaiolo e vigna); anzi, una dialogicità segnata da reciprocità totale (cosa
che non avviene nel rapporto signore
– servo e neppure padre – figlio); meglio ancora, una dialogicità immediata
(senza mediazioni di narratori), potremmo dire, un dialogo in atto. E il
dialogo investe sempre anche un terzo,
essenzialmente il coro delle figlie di
Gerusalemme, ma intervengono anche le guardie della città, così come ci
sono i fratelli dell’amata. Conformemente alla struttura dell’alleanza, l’amore dei due protagonisti del Ct avviene davanti a testimoni, si situa in
un contesto sociale, politico, storico.
Non è un amore fusionale, perso nel
cerchio che rischia di divenire infernale “io” – “tu”, “tu” – “io”: il Ct presenta il paradigma del dialogo differenziato e contestualizzato, e proprio
in questa sua caratteristica esso coinvolge il lettore. La differenza sessuale,
che abita la vicenda e il dialogo dei due amanti del Ct, è la cifra più completa dell’apertura all’altro e, nel mondo biblico, all’apertura all’Altro. Credo
che si possa allora comprendere il perché dell’inserzione del Ct nel Canone
biblico. Al cuore del Canone, il Ct
funziona come una mîse en abîme, è
una sorta di duplicazione del senso e
dell’intenzione dell’intera Scrittura
all’interno della Scrittura stessa. Il Ct
è la rivelazione del dialogo immediato
in cui si compie la Scrittura (7). Così il
Ct, da pietra di scandalo che ha portato infinite volte a chiedersi come
mai un testo simile sia entrato nel Canone biblico, ne diviene il cuore segreto, il centro simbolico: il dialogo
che esso è diventa il dialogo in cui occorre entrare nel gioco dell’ascolto e
della ri-enunciazione (8). Il contesto biblico in cui si trova ci assicura poi che
l’amore è unico: l’amore umano e l’amore che lega Dio a Israele hanno la
stessa struttura. Dio parla il linguaggio
degli uomini, e anche la Scrittura
parla il linguaggio umano. La poetica
del Ct, mettendo in atto discorso della
differenza e discorso della comunione,
articola il discorso di alleanza di tutta
quanta la Scrittura.
Possiamo concludere: non vi è alcun dubbio che il dialogo amoroso del Ct è quello di un
uomo e di una donna, “ma, disegnando il dramma e la felicità della parola
scambiata, esso si propone anche come
lo specchio della Scrittura tutta, parola
scambiata fra Dio e l’uomo, dello sposo alla sposa, della sposa allo sposo” (9).
È proprio dunque cogliendo l’umanità dell’amore del Ct che se ne coglie
la portata simbolica. Quella portata
che ci porta a vedere nello scambio
delle parole e nell’incontro dei corpi
degli amanti del Ct la parabola dell’amore di ogni coppia umana, ma anche
il mistero della Parola di Dio che prende dimora nel corpo umano. Il
mistero dell’incarnazione.
Note
1 F. Rosenzweig, La stella della redenzione,
Marietti, Casale Monferrato 1985, pp.
212-213
2 L. Irigaray, Elogio del toccare, il melangolo, Genova 2013, p.35.
3 G. Garbini, Cantico dei cantici, Paideia,
Brescia 1992, p. 157.
4 Il testo, desunto dallo Zohar, è citato in
J.-M. Chouraqui, «Un esprit saint dans
un corps saint: alliance, corps et sexualité dans le judaïsme», in Revue d’éthique
et de théologie morale «Le Supplement»
217 (2001), pp. 55-70.
5 J. – P. Sonnet, Le «Cantique», entre érotique et mystique: sanctuaire de la paroleéchangée, Nouvelle Revue Théologique
4 (1997), p. 489.
6 Ivi, p. 487.
7 A.-M. Pelletier, LecturesduCantiquedesCantiques. De l’enigmedusensauxfiguresdulecteur, PIB, Roma 1989.
8 J.-P. Sonnet, «Figures (anciennes et nouvelles) dulecteur». DuCantiquedesCantiquesau Livre entier. À propos d’un ouvragerécent, Nouvelle Revue Théologique
1 (1991), pp. 75-86.
9 J. – P. Sonnet, Le «Cantique», entre érotique et mystique, a.c., pp. 501-502.