Massimo Recalcati "Non temete l’errore, fallite sempre meglio. Questo è il segreto"
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8 marzo 2025
Il maestro può insegnare all’allievo tutto quello che sa ma imparare significa trovare la propria strada. Anche se lanciarsi nel vuoto fa paura, solo così si cresce.
La scena è descritta da Gilles Deleuze: immaginiamo una spiaggia. Magari in Costa Azzurra. Alla metà degli anni Sessanta. Di fronte al mare chiaro e mosso un bambino e un istruttore di nuoto, l’uno di fronte all’altro. L’istruttore esibisce tutto il bestiario che caratterizza l’arte del nuoto. Mima la rana, il delfino, la farfalla. I suoi movimenti sono lenti, ordinati, impeccabili. Il bambino lo guarda affascinato ripetendo nel modo più fedele possibile i gesti del suo maestro. Ogni tanto viene corretto; il braccio dovrebbe essere più teso, i movimenti più dinamici e più ampi, il respiro in sintonia con il ritmo dei diversi stili, la schiena meno rigida e più flessibile. Il bambino riproduce il più fedelmente possibile il modello ideale che il suo istruttore incarna ai suoi occhi.Ma è questo, si chiede Deleuze, a definire l’essenziale del processo di apprendimento? A descrivere
davvero come avviene una formazione? In piedi l’uno di fronte all’altro, il maestro e l’allievo
stanno interpretando la trasmissione del sapere come una acquisizione graduale di un metodo e dei
suoi contenuti. Il loro paradigma è quello della scala: un gradino dopo l’altro secondo un percorso
lineare e progressivo fatto di prove ed errori. Sino a raggiungere una completa maturazione. Il
bambino fa come il suo istruttore nell’intento di carpirne la sapienza e la tecnica. Ma non è questo,
sottolinea Deleuze, a definire una formazione. Manca qualcosa di essenziale che deve ancora
accadere.
E finalmente accade quando il maestro spinge con decisione il bambino contro l’onda che si sta
infrangendo verso la riva. È solo l’impatto con il reale dell’onda che può scuotere l’allievo dal suo
torpore imitativo costringendolo ad assimilare singolarmente il sapere sino ad allora compreso solo
astrattamente. Ma cos’è l’onda se non il reale anarchico, imprevedibile e ingovernabile della vita?
Avviene sempre così: solo l’impatto con questo reale scombussola l’apprendimento scolastico del
sapere mettendolo alla prova e dando così al soggetto l’occasione per fare proprio quello che ha
sino a quel momento appreso dal suo maestro. In questo senso la formazione non può mai essere
una conformazione. In gioco è qui una legge generale: l’effetto soggetto che è l’obbiettivo
fondamentale di ogni processo di formazione non si misura dal raggiungimento dell’ultimo gradino
della scala, non può ridursi a essere la replica del sapere del maestro, perché scaturisce sempre da
un salto singolare, da un impatto con l’incalcolabile e l’imprevedibile che l’onda rappresenta.
È quello che accade ogni volta che siamo di fronte alla necessità di prendere la parola in prima
persona. In questi casi la perfezione dell’imitazione deve lasciare il posto a quell’imperfezione che
scaturisce dal nostro impatto singolare con l’onda. Perché solo da questo impatto può nascere uno
stile proprio irriducibile alla clonazione di quello del maestro. Si tratta ogni volta di una invenzione
senza rete che può suscitare angoscia. Ma se l’apprendimento implica necessariamente il supporto
del maestro, esso non può mai ridursi alla sua imitazione. È necessario un passo ulteriore, uno
strappo, una deviazione, una audacia come quella che il bambino sulla spiaggia deve mostrare nel
suo fronteggiare in solitudine l’urto imprevedibile dell’onda. L’ideale aristotelico della giusta
misura, del dominio di sé, dell’autocontrollo, del governo impassibile delle passioni è davvero solo
un ideale filosofico che non tiene conto della nostra angoscia di fronte all’assenza di garanzie che
ogni atto singolare comporta. Esso non può essere la meta di un processo di formazione. Piuttosto si dovrebbe imparare a fare amicizia con l’onda, perché l’onda che temiamo è anche l’onda che ci
salva.
Il che significa abbandonare l’illusione scolastica che apprendere sia davvero fare perfettamente
come fa il nostro maestro. In questo caso non si genererebbe nessuno stile proprio, ma solo la
fotocopia di uno stesso stile. Perché invece ci sia atto creativo, esposizione della propria voce, del
proprio talento, della propria vocazione, della generazione di uno stile singolare, è necessario
riconoscere il vuoto che è a fondamento di ogni creazione. È questo che può suscitare angoscia e
inibizione. La pagina bianca o il silenzio prima di un concerto sono per lo scrittore o per il musicista
espressioni di questo vuoto che nessun maestro potrà mai riempire. In questo senso il fallimento
non è solo qualcosa che deve essere scongiurato ma costituisce l’esperienza essenziale di ogni
processo di formazione. È l’imperativo che Beckett rivolgeva innanzitutto a se stesso: «Fallisci di
nuovo, fallisci sempre meglio». Perché l’ideale performativo di perfezione può alla fine generare
solo inibizione o imitazione senza creatività.
Ma come posso essere all’altezza inarrivabile del mio maestro? Come posso scrivere dopo Proust,
Joyce o McCarthy o come posso dipingere dopo Cézanne, Picasso o Kiefer? Come posso scrivere
canzoni dopo Bob Dylan o De André? O come posso, più semplicemente, nella mia vita e nel mio
lavoro, non essere schiacciato dai modelli ai quali mi sono ispirato? L’idealizzazione monumentale
dei maestri tende a paralizzare la nostra iniziativa rendendo impossibile un gesto di creazione. Se è
sempre necessario fare con i maestri — non esiste, infatti, autoformazione — è altrettanto
necessario non fare come loro, ma trovare l’imperfezione singolare che caratterizza il nostro stile. È
quello che Lacan diceva ai suoi allievi, mentre li ammoniva di non scimmiottarlo: «Fate come me,
non imitatemi!»
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