Massimo Recalcati "Il magistero e il corpo del Papa "
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27 febbraio 2025
Il pontificato di Papa Francesco ha segnato, sin dalla scelta del suo nome, una profonda rottura nel linguaggio codificato della Chiesa. La sua voce non è mai stata quella di un sovrano che guida con mano ferma il suo popolo o che difende con perizia teologica l’autorità incontrovertibile dei dogmi, ma quella di un pastore che si sporca le mani, che si piega sulle miserie umane senza mai impugnare il bastone inumano della condanna.
Francesco non è il papa della Legge e del suo timore, ma quello
della Grazia e della salvezza immeritata che essa rende possibile. Per queste ragioni, nel suo
pontificato, la parola chiave è la parola “misericordia”. E’ il messaggio più radicale di Gesù che,
citando il profeta Osea, afferma: “misericordia io voglio, non sacrifici” (Mt, 9,13).
Non si tratta
ovviamente di una semplice esortazione morale, ma di un taglio sovversivo nel tessuto simbolico
della Legge. Il perdono e l’amore, ai quali la figura della misericordia rinvia, rompono drasticamente
con il carattere solo vendicativo e ritorsivo della Legge per aprire lo spazio inaudito di una nuova
possibilità.
Il peccato, in questa prospettiva, non è una macchia indelebile, ma una condizione umana
che può essere attraversata, compresa e pienamente accolta. È il peccato di Pietro che rinnega, di
Tommaso che dubita, di Saul che perseguita. E’ il peccato che può essere sempre convertito in un
nuovo inizio. E’ l’acqua putrida che nelle nozze di Cana diviene vino sublime.
E’ il paralitico che si
rialza dopo che per anni la sua vita era rimasta bloccata senza speranza. In questo senso la Legge di
cui Francesco è testimone non coincide mai con l’applicazione normativa dei suoi precetti, ma, per
dirla con Levinas, essa si incarna nel volto dell’Altro, nell’appello incondizionato alla fratellanza che
questo volto porta con sé.
Il Dio di Francesco non è il giudice implacabile che incute paura, né
l’impersonalità metafisica di una Legge senza cuore, ma il padre che “fa sorgere il suo sole sopra i
malvagi e sopra i giusti” (Mt, 5,45). In questo senso la misericordia è il resto irriducibile della Legge,
il suo “seme santo”, come direbbe Isaia, ovvero ciò che sfugge alla logica del calcolo e del merito,
ciò che eccede il meccanismo legalistico della retribuzione simmetrica.
Come insegna la parabola
evangelica del buon samaritano la fede non è l’adesione ad un dogma, ma la cura della ferita. E’
l’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” proposta da Francesco. Ma è anche l’immagine
di questi giorni del suo stesso corpo malato, costantemente in bilico tra la vita e la morte. Nondimeno,
è anche il suo stile di parola, il suo modo obliquo e zoppicante di muoversi nello spazio, la sua
gestualità fraterna, il suo senso gioioso dell’umorismo.
Francesco è un Papa che sa toccare,
abbracciare, sorridere, mostrare senza riserve la sua fragilità. E’, evangelicamente, il piccolo che
diviene grande non contro il piccolo ma proprio in quanto piccolo, come accade al granello di senape evocato da Gesù che genera un albero rigoglioso sul quale anche gli uccelli si possono posare. Allora
anche il suo stesso corpo malato che vediamo in questi giorni al centro dei riflettori si è fatto teatro
della prossimità e della vicinanza.
Se il potere della Chiesa ha sempre avuto la tentazione di recintarsi
dietro le mura della separazione, lui ha scelto sin dall’inizio del suo pontificato di abbattere quelle
mura. È questo che ha reso Francesco una figura tanto amata quanto controversa. Perché la
misericordia, quando si fa testimonianza attiva, mette innanzitutto in crisi la struttura asettica del
potere.
Chi invoca la purezza della dottrina, chi difende la rigidità delle regole senza avere
comprensione del senso profondo della Legge, chi vorrebbe una Chiesa fondata sulla rigida
distinzione tra i giusti e gli ingiusti, non può che percepire questo Papa come una vera e propria
perturbazione. Non è il pontefice che rassicura, ma quello che interroga, non è il guardiano
dell’ortodossia ma l’apertura del dialogo, non è colui che incentiva politiche di esclusione ma colui
che ha fatto dell’inclusione un programma politico, non è il custode della natura infallibile della
Legge ma la sua incarnazione testimoniale.
Nel Vangelo, Gesù si china sui peccatori, mangia e beve
con i pubblicani, guarisce nel giorno di sabato, scandalizza i benpensanti, frequenta le prostitute, sta
con i poveri e i diseredati. La sua esistenza è ek-statica, dinamica, impossibile da ricondurre alla
statica senza vita della dogmatica religiosa. Gesù è uno sconfinamento continuo, un’eccedenza, un
desiderio che non teme ma ama lo splendore e l’atrocità della vita. È la stessa ek-stasi – la stessa
eccedenza - che ritroviamo in Francesco.
Non è mai l’obbedienza ai precetti della Legge a salvare la
nostra vita ma il riconoscimento che nello straniero e nel nemico – ovvero nell’Altro che non è mai a
nostra disposizione – risiede sempre un fratello. In un tempo in cui il discorso religioso rischia di
trasformarsi in un delirio identitario, in cui la fede si irrigidisce in ideologia seminando morte, guerra
e distruzione, il Papa della misericordia ricorda che il cuore del cristianesimo non è la difesa di una
fortezza vuota, ma il movimento estatico dell’uscita da se stessi, della vertigine dell’incontro,
dell’impatto duro con l’alterità dell’Altro. È questo il vero scandalo: un Papa che rigetta l’abito del
giudice impietoso per indossare le vesti del nostro prossimo, di chi ci è veramente accanto.
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