Luciano Manicardi “Il corpo che prega: i Salmi”
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PUBBLICAZIONE SCOUT PER EDUCATORI 3/2024
Atti del Seminario sulla corporeità
22/24 settembre 2023
Progettando il seminario, abbiamo
sentito il bisogno di collocare il cammino di riscoperta delle dimensioni
della corporeità - in rapporto a noi
stessi, alla sensibilità contemporanea,
all’azione come educatori - entro
una riflessione biblica.
Perché la Bibbia non ha paura del
corpo, né lo sminuisce o frammenta,
ma lo considera intero, dono del Dio
della vita. Con il corpo, perciò, e non
nonostante il corpo, l’uomo è degno
di stare in dialogo aperto col Signore.
Non è forse un caso che gli ebrei preghino in piedi e probabilmente la Parola che si fa carne non avrebbe
potuto essere concepita in una cultura
differente.
Luciano Manicardi, monaco di Bose,
ha accettato con generosità di accompagnarci in questo percorso e gli siamo
profondamente grati per la profondità
e la lucidità partecipe del suo intervento. Le sue riflessioni, dedicate al
soffio vitale, al corpo che siamo, al corpo che prega - a partire dalla lettura
della vicenda del profeta Elia, del movimento della voce e del corpo nei
Salmi, della passione erotica del Cantico dei Cantici - ci hanno aperto a una nuova conoscenza dei testi, supportata anche dalla filologia. Ne abbiamo ricavato una comprensione esistenziale e non solo intellettuale.
I tempi del seminario sono stati
scanditi da tre incontri, che hanno
completato senza forzature i temi
affrontati e dato luce alle esperienze
che i partecipanti vivevano. Riproponiamo qui i testi integrali di Manicardi, felici di condividerne la ricchezza teologica e umana.
2. Il corpo che prega: i Salmi
Pregare con i Salmi significa ricondurre a unità sensi
e membra, chiamati a creare la preghiera, letteralmente darle
voce e forma. E il senso di reintegrazione si allarga
ad altre alterità, finché la preghiera diventa corale,
di tutti i riuniti insieme, della Chiesa.
Il linguaggio orante del corpo
Se vi è come una presenza onnipervasiva nel Salterio, è senz’altro quella del
nostro corpo umano, come potremmo
facilmente verificare in tutti i Salmi –
o quasi. Per pregare – e già qui c’è un
insegnamento per noi – l’uomo biblico non può fare a meno di esporre e di dire il proprio corpo fisico, che appunto in quanto tale è sempre simultaneamente simbolico e spirituale, che
si dilata alle proporzioni del più grande corpo comunitario dell’assemblea
dei credenti. Come se proprio qui, nel
corpo, fosse in gioco il segreto di tutta
la nostra preghiera.
Ha ragione Paul Beauchamp: i Salmi
sono corpo in preghiera (1). In effetti, “il
fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo
alla malvagità umana, tale è il corpo.
Sembra che per il Salmista tutto si
giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario,
perché l’anima non si esprime e non
traspare se non nel corpo. Il Salterio è
la preghiera del corpo”. (2) Sicché proprio nel corpo suo e altrui non riduttivamente inteso, per il salmista sembra
giocarsi proprio tutto.
Più precisamente ancora, va detto che
quello del corpo in preghiera non è
un ruolo esteriore, puramente strumentale, nel senso talora un po’ equivoco della molto ripetuta espressione
oggi in voga: “pregare con il corpo”. In
effetti il suo ruolo in relazione alla
preghiera è piuttosto quello di protagonista che non di semplice coadiuvante, addirittura di offrire un vero e
proprio luogo e magistero permanente di preghiera. E questo vale nel
senso di una continuità tra Antico e
Nuovo Testamento. Infatti, non ci dice
forse Paolo che il nostro corpo è
“tempio santo di Dio, dimora dello
Spirito Santo” (1Cor 6,12-20; cf.
3,16-17)? Ma se è tempio, allora è
luogo da abitare e ascoltare in stato di
religioso ascolto. E dal momento che
nel tempio ci parla Dio, allora dal corpo dobbiamo aspettarci come un oracolo per noi, di lì ci arriverà una rivelazione del suo nome.
Proviamo dunque – attraverso la parola degli oranti del Salterio – a prestare ascolto agli oracoli che ci arrivano dal corpo.
Il Salterio è la preghiera del corpo, anche sotto il profilo antropologico, e cioè
anche in quanto esso è il luogo dell’anima, per cui la preghiera attraversa tutto
ciò che si produce nel corpo, nei suoi
organi che – menzionati singolarmente
– dicono sempre un coinvolgimento
globale del nostro statuto personale. Lo
capiamo quando ad esempio il salmista
gioiosamente esclama:
“Tutte le mie ossa diranno: chi è
come te, Signore?” (Sal 35,10)
In questa espressione la lode è pronunciata dalle ossa del salmista, attribuita a quelle ossa che nell’antropologia biblica sono la sede e il simbolo
della forza che tiene in piedi l’uomo,
consentendogli una postura eretta e
ferma, pronta a sostenere ogni iniziativa.
Così il corpo prega con tutti i registri
comunicativi di cui è capace, in tutta
la sua potenza e fragilità espressiva.
Anche a questo proposito conviene
almeno una volta misurarci su di una
lettura trasversale del Salterio, cercandone tutti i linguaggi abitualmente ricorrenti, per scoprire che si tratta per lo più di molto elementari e quotidiani linguaggi corporei, ordinati a dar
forma alla nostra relazione con Dio.
Il Salterio sta lì a dirci che dal corpo
nessuna preghiera potrà mai prescindere. Così, anche la più attenta e concentrata meditazione della parola di
Dio ha bisogno di esprimersi e di
esteriorizzarsi assumendo – per esempio – la forma di un mormorio, di un
sussurro meditativo (Sal 1,2; 102,8).
Questo che in realtà si propone come
un movimento fisico, un borbottio
continuo ad alta o almeno a mezza
voce, diventerà in latino la meditatio,
che nella nostra tradizione più recente
ha finito per prendere una piega sempre più disincarnata dal corpo, di volta
in volta molto intellettualistica, psicologistica, autoinvestigativa. Ma questa
dimensione caduta in oblio andrà invece recuperata. E nella pratica nostra
odierna della preghiera dovremo pur
riscoprire la fisicità magisteriale della
nostra voce, che – recitando i Salmi
come si deve – avrà almeno la virtù di
non distrarci e di tenerci attenti a
quanto diciamo.
Da molti Salmi si leva il grido del lamento, una supplica, e perfino l’urlo
che vuole catturare l’attenzione di
Dio:
“Sii attento al mio lamento, Signore!” (Sal 17,1; 61,2; cf. 77,2).
E – sempre strettamente connesso
tanto al corpo quanto alla preghiera –
in non pochi Salmi ascoltiamo pure il
pianto, l’ancora più potente linguaggio
delle lacrime (42,4; 119,136, su cui ritorneremo più avanti). Non manca
nemmeno il silenzio di un corpo tutto
assorto e rapito dalla presenza di Dio
legata al tempio:
“Per te il silenzio è lode, o Dio, in
Sion!” (Sal 65,2).
Oppure il silenzio di una tacita riflessione (37,7; 38,14-15; 39,2ss.), anch’essa mai disincarnata dal corpo,
tanto da accompagnarla in ogni sua
possibile posizione perfino in stato di
riposo:
“nel silenzio, sul vostro letto, riflettete nei vostri cuori” (Sal 4,5).
E potremmo indugiare a lungo su tutti i registri linguistici in cui il corpo si
relaziona con Dio.
Ma la corporeità in preghiera implica
pure che nella preghiera l’uomo entra anche con tutte le proprie emozioni,
con ogni suo affetto possibile. Così la
stessa collera e l’ira sono fattori sempre
di grande peso e rilievo, non solo nelle
relazioni interpersonali più dirette, ma
proprio nella stessa preghiera, dal momento che il linguaggio dello sdegno,
con cui il corpo si infiamma per
un’ingiustizia o oppressione, lo spinge
volentieri verso l’alto, lo fa gridare a
Dio (73; 119,53; cf. 37,1.7-8).
Un ulteriore registro espressivo – tra i
più vitali e decisivi in assoluto – presente
in tutto il Salterio, coinvolto direttamente dovunque ci sia di mezzo la voce, è
quello del respiro. Non a caso l’ultimo
versetto dell’intero Salterio esclama:
“ogni respiro – ogni vivente, dia
lode al Signore!” (Sal 150,6).
Qui la stessa vitalissima attività di inspirare e di espirare viene promossa al
rango della lode a Dio la più diretta e
ordinaria possibile.
Tornando agli organi del corpo mediante i quali l’orante traduce il vissuto del proprio dialogo con Dio, troviamo la bocca. Così in un bel passaggio del Sal 81 leggiamo:
“Io sono il Signore tuo Dio che ti
ho fatto salire dal paese d’Egitto
– apri la tua bocca, la voglio riempire!” (Sal81,11).
Israele deve aprire la bocca che il Signore riempirà non solo e non più, a
questo punto, con la manna nel deserto, ma con la sua parola profetica, che
corrisponde a quello che è il desiderio, l’anelito di vita dell’uomo stesso.
Analogamente:
“apro anelante la mia bocca, desidero i tuoi comandamenti (Sal
119,131).
I comandamenti divini si ricevono
non solo con gli orecchi, ma addirittura con la bocca, si devono mangiare,
triturare, per metabolizzare e assumere
la legge del Signore, farla entrare in
noi “nel mio profondo” (40,9). Proprio come fu per Mosè (Es 35,11;
35,20; Nm 12,6-8; Dt 34,10), la divina
parola dalla bocca di Dio passa nella
nostra, per entrarci nelle viscere e divenire nostra, mia propria volontà (Is
59,21). Non a caso tutti i giorni la recita liturgica dei Salmi avvia proprio
così la nostra lode mattutina:
“Signore, apri le mie labbra e la
mia bocca proclamerà la tua lode!”
(Sal 51,17).
La bocca è soglia relazionale decisiva
nel rapporto tra uomo e Dio, tra uomo e uomo, tra uomo e mondo, fra
interno ed esterno, e come tutti gli altri più rilevanti organi del corpo umano, nel linguaggio biblico diventa
facilmente il simbolo della totalità
dell’uomo, una parte per il tutto (anch’essa una sineddoche). Con la bocca
si parla – dimensione comunicativa,
relazionale –; con la bocca si mangia –
dimensione nutritiva, vitale –; con la
bocca si bacia – dimensione affettiva,
erotica. C’è davvero tutto questo in
quell’espressione:
“Signore, apri le mie labbra e io
canterò la tua lode!”.
Ecco allora perché aprire la bocca per
cantare i Salmi – come dice la tradizione ebraica – diventa davvero cosa
terribile, temibile – appunto perché
significa innescare un movimento di
conversione, come Gregorio Magno
aveva ben capito affermando: “La voce
della salmodia apre nel nostro cuore
una via al Signore” (3).
Il corpo, questo paradosso
La pratica della salmodia arriva a plasmare il nostro corpo, guidando i nostri passi, sguardi e gesti, nel senso
tracciato da “il cantore per eccellenza
dei Salmi” – e cioè Gesù stesso (4).
L’aspetto formidabile sperimentato
pregando i Salmi è che si tratta di qualcosa che – pur non confinandosi entro
una singola anima invisibile – presenta
comunque limiti molto netti relativi di
volta in volta ad un corpo preciso e concreto senziente, che ha dietro una
sua storia, un vissuto esistenziale per
l’appunto di un corpo dotato di una
memoria, con tanto di cicatrici e ferite
antiche, nonché di un futuro dai contorni imprecisi, ma in cui certamente si
intravede la decadenza di una perdita
di forze, nell’insinuarsi della debolezza
cui si sente esposto. Un corpo che ha un
presente entro cui si pone come paradosso.
Sì, il corpo è certamente un paradosso,
molto ben verificabile nei Salmi – oltre
che nella nostra esperienza – per il
fatto stesso di porsi come luogo di originaria relazione e apertura all’altro, ma
al tempo stesso – soprattutto qualora si
senta minacciato – sempre esposto al
rischio di involversi, autocentrandosi al
punto di chiudersi in se stesso. Il corpo
è questo frammento di spazio-tempo
entro cui siamo confinati, in cui Dio ci
colloca come creature parziali, limitate,
tutti “un piccolo frammento della Tua
creazione”, come direbbe Agostino:
aliqua portio creaturae tuae. Ma, in ogni
caso, pur con tutti i suoi limiti, il mio
corpo è anche l’unica possibilità di
aprirmi agli altri. Può imprigionarmi,
ma è anche apertura all’infinito, all’altro, all’oltre, all’invisibile.
Spesse volte, nel Salterio risuona la
voce del corpo disperato e torturato
dell’uomo, senza più via d’uscita. Così
nel Sal88 – il Salmo più oscuro dell’intera raccolta – parla un uomo che denuncia la propria disperata situazione di malattia fin dall’infanzia (v. 16),
che lo espone ad un continuo faccia a
faccia con la morte, facendolo sentire
come qualcuno che in pratica è già
un morto (vv. 4-7.11-13.16ss.). Ciononostante, con incredibile forza e segreta speranza, lo udiamo per ben tre
volte innalzare e far ripartire sempre
di nuovo la sua angosciata invocazione
a Dio (vv. 2.10b.14). Dall’interno di
una situazione disperata, in cui il suo
corpo da sempre malato lo rinchiude
senza sbocchi, egli però continua a invocarlo senza sosta, e questo suo grido
disperato a Dio è la sua forma estrema
di speranza, con cui evita di ricadere
su se stesso (5).
Per inevitabili che siano i momenti in
cui, sentendosi ormai prossimo alla
morte, il corpo malato e sofferente
parrebbe ripiegarsi e rinchiudersi su
se stesso, esso diventa talvolta anche
portatore di utopia, apertura all’alterità, progettualità. Non più quindi un
qui e ora irrimediabile e già fagocitato
dalla morte, ma un nuovo baricentro,
una leva dinamica del mondo, a partire
da cui io ricomincio a sognare, camminare, danzare, parlare, desiderare,
amare. Questa dimensione di apertura
all’alterità fa sì che il corpo sia davvero
il luogo privilegiato della preghiera,
sicché il corpo orante nei Salmi si
apre con naturalezza dal livello del
corpo singolo a quello comunitario.
Ecco perché quando preghiamo i Salmi insieme con gli altri all’interno di
una normale recita comunitaria, si
tratta sempre di formare un corpo
unico. In un coro monastico o in qualunque celebrazione comunitaria di
Liturgia delle Ore, non c’è di mezzo
soltanto la preghiera di individui. Significativamente la parola dei Salmi
che recitiamo, non è mai pronunciata
come mia, tua, o sua, ma è Parola che
riceviamo dalla Scrittura e dalla tradizione della Chiesa, e che diventa il
linguaggio comune di un unico grande corpo.
Se il corpo è sempre corpo che parla
– anche non verbalmente, oltre che
attraverso le parole dell’orante – e se è
la sua stessa parola intrinseca a definire
il corpo umano, allora nella liturgia i
Salmi diventano la Parola di un corpo
che non è la mera somma dei nostri
corpi individuali, ma è il corpo di
Cristo stesso; e il linguaggio dei Salmi è quello con cui Dio vuole riempire
le nostre bocche (Sal 80,11). C’è dunque anche questa dimensione comunitaria del corpo ecclesiale, in nome
della quale i Salmi sono un momento
e un bene irrinunciabile della preghiera della Chiesa, ecclesiologicamente parlando un aspetto costitutivo
della sua stessa indefettibilità. Non a
caso, per quanto ne abbia percepito
spesso i risvolti problematici, la Chiesa
non ha mai rinunciato e non ha mai
abbandonato la preghiera dei Salmi.
L’apertura all’alterità include un’ulteriore dimensione. Ci dice che non è
solo il corpo comunitario a pregare,
ma a un certo punto nei Salmi l’orante si sente partecipe del tutto cosmico,
dell’intero corpo della creazione, e
prega insieme a tutte le altre creature:
“Frema il mare e quanto racchiude,
il mondo e i suoi abitanti.
I fiumi battano le mani, esultino
insieme le montagne
davanti al Signore che viene, che
viene a giudicare la terra!”
(Sal 98,7-9).
E prega accordando il proprio corpo
con i tempi della natura. Il Salmo 5 è
preghiera del mattino, in cui l’orante
dichiara di prepararsi per il Signore (Sal
5,4), cioè di predisporre tutto se stesso
per la giornata che inizia e che è occasione di incontro con il Signore.
Il Salterio, pedagogia del corpo
Il percorso spirituale che il Salterio
nella sua interezza, il Salterio come libro nella sua unità compositiva dal
primo all’ultimo Salmo, ci fa fare si
delinea come una vera e propria pedagogia del corpo. E questo lo si coglie già
dalla prima pagina, quando entriamo
nel libro attraverso il suo portale d’ingresso costituito dai Sal 1 e 2, ma in
particolare con il Sal1, in cui si delinea
la figura dell’orante come colui che
ascolta e medita la Torah, la Legge del
Signore, con quell’atto prettamente
fisico di mormorio della Parola a cui
abbiamo già fatto cenno:
“Beato l’uomo che…
nella legge del Signore trova la sua
gioia,
la sua legge medita giorno e notte”
(Sal 1,3).
Attenzione: sua legge – ma sua di chi?
Il parallelismo sinonimico fra i due
stichi ci fa capire che qui ci si riferisce
alla legge del Signore. Grammaticalmente parlando, però, possiamo anche
intendere che, nella pratica della meditazione, la legge “del Signore” diventi “di colui che la medita”. La volontà del Signore si travasa nell’uomo
che, meditandola, se ne appropria e se
ne imbeve (Sal 40; 119). Si apre in tal
modo un itinerario che ci conduce fino al culmine del Salterio, quando addirittura sarà il respiro stesso del corpo
a diventare lode per il Signore (150, 6).
Dalla meditazione che, bisbigliando, si
applica alla Torah, si passa a una preghiera coincidente con il fiato stesso
del respiro che entra e esce dai polmoni, dalla bocca, dalle narici. E qui troviamo la radice della preghiera del cuore tanto cara alla tradizione dell’oriente
cristiano. Il Salterio, insomma, non è
solo libro di preghiere, ma scuola di
preghiera. Che educa il corpo del singolo così come il corpo comunitario,
ecclesiale, all’arte della preghiera.
Note
1 P. Beauchamp Salmi notte e giorno, Cittadella Assisi 20022. Sul tema vedasi
pure L. Manicardi, Il corpo. Via di Dio
verso l’uomo, via dell’uomo verso Dio, Qiqajon Bose 2005.
2 P. Beauchamp, “Liminaire”, in O. Odelain
– R. Seguineau, Concordance de la Bible.
Les Psaumes, DDB Paris 1980, XVII.
3 Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele
I,1,15 (lett.: “mentre per mezzo della
salmodia viene infusa la compunzione,
si apre per noi nel cuore la via per
mezzo della quale si perviene finalmente a Gesù”).
4 Agostino, Enarrationes in Psalmos, Sal
122,1-2.
5 Più analiticamente, cfL. Manicardi, «“Perché, Signore, mi respingi?” (Sal 88)», in
Parola, Spirito, e Vita 30 (1994) 61-81.