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Giulio Michelini "Una riflessione sulla speranza, Abramo e il Giubileo"

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La speranza contro ogni speranza (Rm 4,18)

La «speranza contro ogni speranza» è un’espressione così intensa ed efficace da rimanere indelebilmente segnata nella memoria.

Si trova nella Lettera ai Romani, la stessa lettera, cioè, dove appare anche l’altra espressione paolina da cui viene il titolo della Bolla di indizione del Giubileo dell’anno 2025, e cioè «Spes non confundit» (cf. Rm 5,5). Tutte e due queste espressioni ci guidano al cuore della rivelazione biblica, e in special modo ad Abramo, il primo credente, e ci invitano a riflettere sulla natura della speranza cristiana.

Per comprendere quanto vuol dire Paolo su quello che potremmo definire il paradosso della speranza, è necessario collocare le sue parole nel loro contesto biblico e teologico. Innanzitutto, rileggiamo l’intero passo che contiene la nostra frase: "Egli [Abramo] credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia" (Rm 4,18-22; traduzione della Conferenza Episcopale Italiana).

L’Apostolo, nel quarto capitolo della lettera ai cristiani di Roma, sta sviluppando un’argomentazione a proposito della giustificazione per fede, ricorrendo ad Abramo come esempio paradigmatico: Abramo, infatti, è colui che ha creduto in Dio ed è stato giustificato per la sua fede, prima che la legge mosaica venisse data a Israele, e prima ancora che egli stesso ricevesse il segno della circoncisione come segno di alleanza. Abramo diventa così l’esempio di chi può stare davanti a Dio come «un amico» (cf. Is 41,8) non tanto per le sue azioni giuste, ma soprattutto per la sua fiducia nel Signore. La sua fede è pura, radicale, e si fonda esclusivamente sulla promessa di Dio.

Speranza e fede

Questa fede porta Abramo a sperare. La speranza di Abramo, infatti, è strettamente collegata alla sua fede. Abramo, possiamo dire, spera non perché sa di poter fare qualcosa, ma perché confida in quello che Dio può fare. Per questo, Abramo può sperare: perché crede in Dio.

Paolo, nel suo discorso, unisce la fede e la speranza anche dal punto di vista logico e grammaticale. La frase del v. 18 ha come soggetto Abramo, e il verbo principale è credere, πιστεύω, in una forma verbale (Aoristo) che sottolinea l’azione per quella che è, guardandola di per sé; anche se il verbo è al passato (Abramo credette) è come se fosse astratta da ogni tempo. Abramo credette, però, qui spiega Paolo, παρʼ ἐλπίδα ἐπʼ ἐλπίδι: contra spem in spe, come traduce la Vulgata.

L’espressione usata da Paolo, “παρ’ ἐλπίδα” (par’ elpída), letteralmente può significare[1] “oltre ogni speranza”, oppure “contro ogni speranza”. Le differenze tra le due traduzioni non sono molte: la speranza “oltre” ogni speranza – che allora in latino si dovrebbe rendere spes praeter spem – indicherebbe che Abramo credette in Dio quando umanamente non c’era più alcuna possibilità di sperare; “contro” ogni speranza – spes contra spem, come siamo soliti dire – implicherebbe invece che Abramo spera contro l’evidenza del tempo che era già trascorso da quando Dio aveva fatto la sua promessa di un figlio, che però non si era ancora avverata.

Altri studiosi[2] hanno tradotto “al di là” di ogni speranza, e infatti si può dire che l’espressione par’ elpída indichi una speranza che supera ogni calcolo umano, ogni previsione razionale, ogni logica. Si può essere d’accordo con chi dice che l’espressione “speranza contro/oltre/al di là di ogni speranza” è un ossimoro, come a dire “ghiaccio bollente” o “nube luminosa”. È un accostamento di concetti contrari, dove però emerge il dato essenziale: anche se Abramo non ha ragioni per sperare, può sperare, fidandosi di Colui che ha fatto la promessa; spera, cioè, perché si fida di Dio. La sua speranza non è ottimismo umano, ma fiducia radicale in Dio. È quanto sembra aver compreso uno dei più antichi commentatori, san Giovanni Crisostomo, scrivendo che l’espressione «speranza contro ogni speranza», significa «contro ogni speranza umana, con la speranza di Dio» (PG 60,461).

La speranza di cui parla Paolo non è una possibilità, o un sentimento vago (come quando diciamo “speriamo!”), ma una virtù teologale, un dono divino che permette di guardare al futuro con fiducia, anche quando il presente è oscuro. Abramo, definito nel Canone Romano «nostro padre nella fede», potrebbe anche essere chiamato “nostro padre nella speranza”.

La speranza bambina

Sul rapporto tra la fede e la speranza però si può dire ancora qualcosa di più. Prendiamo l’avvio da un linguaggio particolare, quello della poesia. Charles Péguy (1873-1914) nell’ottobre del 1911 componeva un poema, Il portico del mistero della seconda virtù, nel quale parlava proprio della speranza. Vale la pena riproporre alcune righe della sua opera, nonostante l’autore sia stato una figura controversa: socialista convinto, poi convertitosi al cristianesimo, pacifista e infine forte sostenitore della guerra contro la Germania che minacciava la sua patria; per questa morì, nella battaglia della Marna, nel 1914. Anche la religiosità di Péguy era particolare: sganciata dai sacramenti e dai dogmi, ma sincera. L’autore compone il poema sulla speranza in un periodo di profonda disperazione, per la solitudine, la sua situazione affettiva irregolare e l’amore per un’altra donna. Quest’opera è stata vista come la lotta di un uomo contro la disperazione, ma a parlare è Dio Padre, che si stupisce di come gli uomini possano sperare. Descrivendo la seconda virtù, la speranza, Péguy mette a confronto la fede, la carità e la speranza, che sono tre sorelle; la speranza è la più piccola, è una bambina. E scrive: "La fede che preferisco, dice Dio, è la speranza. La fede non mi stupisce. Non è stupefacente. […] La carità, dice Dio, non mi stupisce. Non è stupefacente. […] Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza. E non me ne capacito. Quella piccola speranza che non sembra niente. Quella piccola bambina speranza".

La fede, abbiamo ascoltato anche da Péguy, è speranza. Ugualmente Papa Benedetto XVI, nella sua Spe Salvi, scriveva che «“Speranza”, di fatto, è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole “fede” e “speranza” sembrano interscambiabili» (n. 2). In alcuni passi del Nuovo Testamento, scriveva ancora Benedetto XVI nell’enciclica del 2007, la speranza equivale alla fede.

Un insigne studioso di Paolo, recentemente scomparso, don Antonia Pitta, affermava: «La stretta relazione tra il credere e lo sperare di Abramo lascia intendere quella tra la fede e la speranza: non si tratta tanto di due virtù distinte quanto di una fede sperante e di una speranza fedele»[3].

Ancora, un altro esegeta prova a spiegare così il collegamento tra fede e speranza: «La fede non è abbandono interiore a forme di sentimentalismo in contrasto con le azioni esterne, è fiducia incrollabile nella promessa di Dio, che produce speranza. Agli occhi dell’uomo la situazione di Abramo era disperata. Eppure Abramo credette nella promessa di Dio, ebbe fiducia nelle sue parole, e trovò la speranza»[4]. Ma si può anche vedere il movimento contrario: «la fede di Abramo trova il suo contenuto nella speranza illimitata e paradossale in Dio […] al di là della vecchiaia e della sterilità nella quale si trovavano lui e Sara»[5]. In altre parole, se la fede fonda la speranza, è la speranza che dà senso e contenuto alla fede…

Detto questo, possiamo ora specificare meglio il contesto a cui allude Paolo, dicendo che Abramo ha creduto contra spem in spe (come la Vulgata traduce la nostra frase) che si avverasse la promessa di un figlio.

La promessa di un figlio messa alla prova

Paolo dice che Abramo credette, senza mai vacillare nella fede, quando ormai aveva cento anni e non aveva ancora avuto il figlio della promessa, tanto più che Sara è ormai sterile.

La promessa di Dio sembra umanamente impossibile, e Dio inaffidabile. Eppure, Abramo crede: nonostante l’evidenza contraria, nonostante le circostanze, si fida di Dio, in quella che si può definire una delle prove più umanamente difficili.

Ne ha parlato diffusamente anche papa Francesco, nell’Udienza generale del 28 dicembre 2016, con un discorso che ci permette, tra l’altro, di sfiorare ora un altro aspetto del vostro Giubileo, riguardante i “militari, pellegrini di speranza”. Papa Francesco spiega che la promessa fatta ad Abramo di una discendenza lo rese un pellegrino:

"Abramo si mette in cammino, accetta di lasciare la sua terra e diventare straniero, sperando in questo impossibile figlio che Dio avrebbe dovuto donargli nonostante il grembo di Sara fosse ormai come morto. Abramo crede, la sua fede si apre a una speranza in apparenza irragionevole; essa è la capacità di andare al di là dei ragionamenti umani, della saggezza e della prudenza del mondo, al di là di ciò che è normalmente ritenuto buonsenso, per credere nell’impossibile. La speranza apre nuovi orizzonti, rende capaci di sognare ciò che non è neppure immaginabile. La speranza fa entrare nel buio di un futuro incerto per camminare nella luce. È bella la virtù della speranza; ci dà tanta forza per camminare nella vita".

Il Papa continua a descrivere il cammino di Abramo fino alla crisi – alla prova – di cui abbiamo detto: questo figlio non arriva, Abramo è vicino alla morte[6], e Dio gli dice: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande» (Gen 15,1). A queste parole Abramo si rivolge a Dio così: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli, e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco» (Gen 15,2). Il Signore allora lo conduce fuori dalla sua tenda, gli mostra le stelle del cielo e conferma la sua promessa, Diceva ancora il Papa nell’udienza del 2016: "Non sarà un servo l’erede, ma proprio un figlio, nato da Abramo, generato da lui. Niente è cambiato, da parte di Dio. Egli continua a ribadire quello che già aveva detto, e non offre appigli ad Abramo, per sentirsi rassicurato. La sua unica sicurezza è fidarsi della parola del Signore e continuare a sperare".

La prova si risolve, così, con la fede di Abramo che lo porta a sperare in un figlio, quell’Isacco che poi gli verrà finalmente donato, e poi di nuovo richiesto! (cf. Gen 22). Infatti, questa è solo una delle prove del nostro “padre nella fede e nella speranza”.

Le dieci prove di Abramo

Secondo la tradizione giudaica, nel trattato della Mishnah Pirqei Avot (“Etica dei Padri”), sarebbero state dieci le prove di Abramo: «Con dieci prove fu provato Abramo, nostro padre (pace e benedizioni su di lui), e a tutte resistette, per far conoscere quanto grande fosse l’amore di Abramo, nostro padre (pace su di lui)» (5:3). Nachmanide, il grande commentatore medievale ebreo, elencherà tali prove, e chiamerà quella di cui stiamo parlando, la quinta prova, la prova che portò Abramo a prendere in moglie Agar, pensando di poter avere da lei il figlio della promessa. Sappiamo però che il progetto di Dio era diverso: quel figlio doveva venire da Sara, e perché questo potesse accadere Abramo dovrà essere prima circonciso, “ferito” nella sua carne, per poter finalmente generare il figlio della promessa.

Altrettanto importanti però sono le altre prove che il rabbino catalano descrive: l’aver lasciato la propria famiglia (prima prova); la carestia che lo condusse in Egitto (seconda prova); Sara portata dal Faraone (terza prova); la dolorosa circoncisione (sesta prova); Sara portata dal re di Gerar, Abimelec (settima prova); la cacciata della schiava Agar (ottava prova); la cacciata di Ismaele (nona prova); l’ultima, la prova apicale, quella della “legatura” (o “sacrificio”) di Isacco, che è l’unica definita nella Bibbia, come tale, una “prova”: «Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo!”…» (Gen 22,1; cf. Eb 11,17: «Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco,e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio…»).

La quarta prova di Abramo – l’altra su cui ci soffermiamo ora – si caratterizza, sempre secondo il saggio ebreo Nachmanide, per essere la prova della “guerra contro i quattro re”, ed è la pagina immediatamente precedente a quella che abbiamo rievocato. In tutte queste prove, possiamo immaginare che – come per quella dell’attesa di un figlio, o della guerra – la speranza deve aver guidato Abramo.

La speranza paradossale nella guerra

Descrivendo la speranza di Abramo, “contro” ogni speranza (Rm 4,18), Paolo nella Lettera ai Romani riprende il capitolo quindicesimo di Genesi. Abramo viene chiamato da Dio a uscire dalla sua tenda, a contemplare le stelle e a riascoltare la promessa di un figlio, e proprio allora Abramo «credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gen 15,6). Si tratta, bisogna ricordarlo, della prima volta in cui nella Scrittura appare il verbo credere: è Abramo il primo soggetto di un atto di fede; per questo è il “nostro padre nella fede”, perché di lui nel libro della Genesi si dice che per primo credette in Dio.

Tale atto di fede ha luogo dopo una guerra a cui, suo malgrado, Abramo ha dovuto prender parte. Descritta in modo sommario nel capitolo quattordicesimo del libro della Genesi, con il quale «si è improvvisamente immessi in un ambiente e in un’atmosfera di guerra, di scontri marziali e di battaglie fra stati che niente hanno a che fare con il clima casalingo, familiare e relativamente modesto delle narrazioni patriarcali»[7], è una guerra in cui Abramo viene coinvolto per difendere suo nipote Lot.

Abramo, uomo di pace, insieme alle altre prove ha subito anche quella di un conflitto, delle battaglie, del pericolo della morte. È una guerra, quella a cui partecipa, che coinvolge soprattutto i suoi affetti: lui, che non ha ancora il figlio promesso da Dio, deve andare a riprendere suo nipote fatto prigioniero da alcuni re.

È molto ricca la tradizione rabbinica che ha elaborato l’ingresso di Abramo in guerra, descrivendolo con questi toni: "Cadeva la prima sera di Pesah e Abramo stava mangiando il pane non lievitato, quando l’arcangelo Michele venne a recargli la notizia che Lot era stato fatto prigioniero. […] Non appena seppe della sventura in cui era incorso suo nipote, Abramo dimenticò tutti i suoi dissensi con lui e pensò al modo di liberarlo. Convocò i discepoli […], diede loro argento e oro, e spiegò: «Sappiate che stiamo andando a combattere per salvare delle vite umane. Nel dar battaglia, dunque, non pensate al denaro: qui c’è per voi oro e argento in abbondanza»"[8].

Viene poi descritta la guerra, ma noi andiamo alla conclusione dell’episodio: "Nonostante il trionfo riportato, Abramo era inquieto circa gli esiti della guerra: lo angosciava infatti il pensiero di aver trasgredito al divieto di versare sangue umano […]. Ma Dio lo rincuorò: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose Abram: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco…» (Gen 15,1-2)" [9].

Conosciamo il seguito della scena. È importante però rilevare che questa guerra vedrà Abramo vincitore, addirittura consolato da Dio con la benedizione del “re di pace”, Melchisedek (Gen 14,17-20), ma Abramo ne uscirà stanco e provato. È proprio dopo questa guerra che si rivolgerà al Signore dicendogli «che cosa mi darai?» (Gen 15,2). È di nuovo qui, insomma, che siamo tornati, al punto da cui siamo partiti all’inizio, a quell’atto di fede e di speranza descritto da Paolo: Abramo credette in Dio, anche dopo la prova della guerra, non cessando di sperare in lui.

Conclusione: la speranza attiva

La speranza cristiana non è passiva, ma attiva. Abramo non si limita a credere a una promessa; agisce in base ad essa, esce dalla sua terra, si muove, lotta e spera. Allo stesso modo, la speranza che ci viene affidata non è un’attesa inerte, ma un impegno concreto. Siamo tutti chiamati a portare la speranza attraverso le parole, i gesti, la nostra presenza.

Abramo e Paolo ci insegnano che la speranza cristiana non è una pia illusione, ma una forza che trasforma. Trasforma il presente, perché ci permette di vedere la presenza di Dio anche nelle situazioni più difficili. Trasforma il futuro, perché ci apre alla certezza della promessa di Dio. Trasforma le persone, perché le libera dalla paura della morte e le apre all’amore.

Abramo, sperando contro ogni speranza, è diventato padre di una moltitudine di popoli. Come Abramo è stato pellegrino da una prova all’altra, di fede in fede, di speranza in speranza, preghiamo perché questa speranza vi sostenga nel nostro pellegrinaggio, quello del Giubileo, e quello delle nostre vite.

Giulio Michelini

Fonte: La Parte Buona


[1] C.E.B. Cranfield, The Epistle to the Romans, Edinburgh 1975, 245.

[2] U. Vanni, Lettera ai Romani, in Le Lettere di San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1985, 295.

[3] A. Pitta, Lettera ai Romani. Nuova versione, introduzione e commento, Roma 2001, 197.

[4] J. Fitzmyer, Lettera ai Romani. Commentario critico-teologico, Casale Monferrato 1999, 463.

[5] A. Pitta, Lettera ai Romani, cit., 196.

[6] Il senso di «me ne vado» «potrebbe anche essere quello di “morire”, senso implicito nella resa della Settanta (ἀπολύομαι); F. Giuntoli, Genesi 12–50. Introduzione, traduzione e commento, Cinisello Balsamo (MI) 2013, 40.

[7] F. Giuntoli, Genesi 12–50. Introduzione, traduzione e commento, cit., 30.

[8] L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, Milano 2019, 139.

[9] L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, cit., 140-141.


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