Cristina Simonelli "Dimensioni dimenticate del lavoro"
Credere Oggi
Dimensioni dimenticate del lavoro |
Cristina Simonelli |
Come tutti i luoghi “sensibili”, anche il lavoro patisce tante cose, tra retoriche a buon mercato e fatiche rubate, tra modelli che si impongono a forza e disegni che stentano a essere rappresentati. Per molto tempo mi sono riconosciuta totalmente nel magmatico insieme delle persone che fanno molte cose – si potrebbe dire, appunto, che lavorano –, ma che a causa delle caratteristiche del proprio operato risultano «non occupate». Provo a fare alcune osservazioni sul tema a partire anche da questo orizzonte, senza pretesa di esaustività. 1. Discutere il «prodotto interno lordo» Specialmente nei momenti di difficoltà e di crisi economica – la pandemia è certamente un esempio chiaro di criticità globale – le notizie sulle variazioni del «prodotto interno lordo» (PIL) entrano nel discorso comune e quelle relative alla sua eventuale crescita confortano anche distratti ascoltatori, entrando a configurarne l’immaginario e le aspettative. Se rimanessimo all’interno di questo orizzonte, avrebbe ben poco senso discutere di forme diverse di lavoro, dal momento che il PIL riguarda unicamente le operazioni monetizzate, gli scambi che avvengono muovendo denaro. Sono certamente anche molti altri i limiti non del PIL in quanto tale, che di per sé è solo un indicatore possibile, ma della sua estensione a misura globale di una società e del suo benessere: basterebbe ricordare che non prende in considerazione il costo ambientale e discute la condizione psicofisica delle persone. Parlare di forme diverse di lavoro non può, dunque, consistere unicamente nell’elencarle o al massimo descriverle. Chiede piuttosto di mettere almeno a tema le visioni del mondo e i modelli economici su cui esse si stagliano, discutendo anche la relazione fra prestazione d’opera e reddito, come fa Adriana Maestro introducendo uno studio di Ina Preatorius: C’è bisogno allora di un allargamento dell’idea di lavoro, di quello che si intende per lavoro, ricomprendendo in esso tutta quella serie di relazioni e attività inerenti alla protezione e al mantenimento della vita, all’affettività, ai bisogni d’amore, di nutrimento, di reciprocità. Credo che le trasformazioni del lavoro, già significativamente in atto, e anche delle forme di retribuzione, siano un tema ineludibile per il presente e il prossimo futuro, alla luce del diverso valore che assume la cittadinanza in una nuova visione del mondo[1]. Senza un’operazione di questo genere, o per lo meno senza almeno segnalarne la necessità, la ricognizione che segue potrebbe sembrare solo azione “caritatevole” nel senso peggiore del termine, volta a recuperare alla visibilità e a inserire nel sistema produttivo vigente persone e situazioni borderline. Si tratta, invece, di una riscrittura etica e politica, perché vedere le cose da un altro punto di vista cambia la cartografia delle rappresentazioni del reale e, almeno in qualche misura, modifica anche la realtà. Certamente non sempre coloro che abitano quegli spazi che dal centro appaiono interstizi, lo fanno con un progetto formalizzato; lo fanno e basta, magari perché la situazione generale li ha lasciati in un territorio ritenuto non importante e che dunque sfugge in parte al paradigma dominante, che Nicoletta Dentico definisce «colonizzante»: L’economia globale contemporanea poggia sulla reinvenzione del progetto di colonizzazione. Proprio così. Sono i colonizzatori a definire la narrazione storica, scrivendo le leggi e le regole che servono a legittimare i saccheggi delle terre, delle risorse, delle ricchezze perpetrati contro i colonizzati. Ciò che poterono le bolle pontificie a favore della colonizzazione del XV secolo possono oggi, nel XXI secolo, gli accordi di libero scambio, la deregolamentazione dell’economia, i nuovi strumenti di ingegneria genetica e la digitalizzazione, le nuove narrazioni sulla tecnologia[2]. Provo perciò in questo quadro a seguire alcuni percorsi particolari, iniziando da una questione emblematica proprio per la complessità, ma anche per le contraddizioni e le ambiguità che la connotano, specie quando la cosa riguarda le donne. avvilito da una sottovalutazione che l’ha tenuto fuori dai grandi sistemi conoscitivi come attività minore adatta per questo alle donne e che oggi, grazie alla riflessione del femminismo, si profila come possibile fonte di un sapere capace di rispondere con efficacia alle domande del presente[4]. In questa espressione di Luisa Cavaliere sono posti, infatti, i capi del dilemma: il lavoro di accudimento è stato un appannaggio esclusivo delle donne e questa delega è anche oggi appena intaccata da singole, sia pur esemplari, vicende maschili. Le donne nella famiglia tradizionale accudivano tutti: i piccoli, i malati e i vecchi, ovviamente; ma anche tutte le persone della casa e la casa stessa. In simile situazione più che secolare si sono mescolati e reciprocamente contaminati elementi diversi, fra i quali si può ricordare la predisposizione all’empatia e lo sguardo largo sui diversi aspetti della realtà, spesso gestiti in maniera creativa e multifunzionale o come spesso si dice multitasking. Stando così le cose è piuttosto inutile cercare di dipanare la matassa, a districare ciò che può essere legato alla maternità (o alla predisposizione per essa) e ciò che pratiche e neuroni specchio hanno plasmato – e del resto le due cose stanno comunque sullo stesso piano, perché questo meccanismo è all’opera anche nella gestazione e nella successiva genitoralità. Non c’è dubbio che qui si radica una grande sapienza, una visione del mondo e delle cose e anche, mi sembra, quel tipico modo di prendere decisioni che è stato messo in luce dall’etica della responsabilità (poi resa quasi unicamente come «della cura») che ha dovuto rivendicare per sé ancora nel secolo scorso la dignità che classificazioni basate più sui principi astratti che sulle concrete situazioni negavano. Una situazione che merita un approfondimento particolare è costituita dalle strutture familiari cosiddette «a generazione saltata», nella quali cioè – a causa della morte di uno o entrambi i genitori, o della loro emigrazione per lavoro, o ancora di situazioni quali divorzio o altro, che possono rendere difficile crescere i figli – convivono nonni e nipoti senza la presenza dei genitori[7]. In un articolo pubblicato qualche anno fa in questa stessa rivista, del resto, Marcantonio Caltabiano mostrava come le strutture familiari cambiano, ma lasciano invariate le relazioni di reciproco accudimento. Dunque quella sorta di situazione che è stata anche chiamata «welfare all’italiana» si rivela resistente ed efficiente, se non ci si interroga tanto a partire dal numero dei matrimoni, quanto, spostando appena un po’ l’ottica, sulla collocazione dei domicili dei nuovi nuclei, comprendendo anche quelli monoparentali oltre alle coppie semplicemente conviventi: in un numero cospicuo di casi le persone scelgono, se possono, di vivere vicino all’abitazione della madre, di solito secondo un ordine matrilineare[8]. Resistenza alla radice, che deve significare qualcosa di più di semplice resistenza alla guerra. Si tratta di resistenza a qualsiasi cosa assomiglia alla guerra. Allora, forse, resistenza significa opposizione, non lasciarsi invadere, occupare, assalire e distruggere dal sistema. La casa, inoltre, non veniva vissuta unicamente come luogo di utilità, ma anche come spazio di bellezza: Questa è la storia di una casa: ci hanno abitato in molti. È stata Baba, nostra nonna, a farne uno spazio in cui vivere. Era convinta che il nostro modo di vivere sia plasmato dagli oggetti, da come li guardiamo, da come occupiamo lo spazio intorno a noi. Era convinta che noi siamo plasmati dallo spazio. Da Baba ho appreso il senso estetico, l’aspirazione alla bellezza che – per citare le sue parole – è un malessere del cuore che rende reale la nostra passione […]. Guarda, mi dice la nonna, che cosa fa la luce al colore! Ci credi che lo spazio può dare la vita, o toglierla, che lo spazio ha potere? [9]. Ho sempre trovato questo passo illuminante e molto rispondente anche a situazioni che si potrebbero definire periferiche, che occhi benintenzionati ma incapaci di andare oltre la coltre che le classificazioni dominanti stendono sulle persone, chiamano spesso «degrado». In questi luoghi – è chiaro che penso anche al mondo Rom, ma la cosa è molto più ampia – c’è una ricerca spasmodica della bellezza, per dar vita alla quale si fanno delle cose, c’è fatica e lavoro, anche se non produttivo. In qualche caso – vediamo gli esisti della street art e dei murales passati da sporcizia a opera da museo – c’è una conversione dello sguardo della società produttiva, ma anche questo non è automatico e richiede probabilmente il lavoro – di solito anche quello malpagato – di una serie di altri cosiddetti «perdigiorno», che sono quelli che scrivono e che si occupano in qualche modo della cultura collettiva. Ovviamente, queste considerazioni riguardano anche ciò che si è disposti a definire arte, che comunque si guadagna tale nome, uscendo dal registro degli hobbies, a caro prezzo: dalla pittura alla poesia, dalla letteratura alla musica. [1] A. Maestro, Ripensare il mondo, in I. Praetorius, L’economia è cura. Una vita buona per tutti: dall’economia delle merci alla società dei bisogni e delle relazioni, Altreconomia, Milano 2019, 17. [2] N. Dentico, Ricchi e e buoni? Le trame oscure del filantropocapitalismo, Emi, Bologna 2020, 13. [3] Maestro, Ripensare il mondo, 14. [4] L. Cavaliere, Cura e noncuranza, in Praetorius, L’economia è cura, 10. [5] M.R. Marella - S. Stancati, Donne e migrazioni: il nodo del lavoro di cura, in «GenIus» 2 (2020) 1-23 (http://www.geniusreview.eu/wp-content/uploads/2021/06/Marella_Donne.pdf [6/9/2021]). [6] Cf. V. Maggioni - C. Ottaviano, Alilò. GenerAzione felice di una piccola idea, Lubrina, Bergamo 2013. [7C. Ottaviano, Ri-nascere: nonne e nonni domani. Legami intergenerazionali nella società complessa, Liguori, Napoli 2012, 46. Nella dedica recita: «Alle anime fragili, alle cose piccole». [8] M. Caltabiano, Affetti e legami. Uno sguardo sociologico al panorama italiano, in «CredereOggi» 33 (2/2013) n.194, 18-30. [9] Bell hooks, Estetica della negritudine: estraneità e opposizione, in Ead., Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano 1998, 47. [10] Cf. C. Lambert, Il lavoro ombra. Tutti i lavori che fate (gratis) senza nemmeno saperlo, Baldini & Castoldi, Milano 2017. [11] Cf. Il sito https://maruku.com.au/about/ (6/9/2021). |