Massimo Recalcati "Dopo il Covid è il momento di ricostruire"
La Repubblica, 13 ottobre 2021
Abbiamo bisogno di cantieri oggi nel nostro paese tremendamente provato dall’epidemia. Abbiamo
bisogno di ripartire, di ricominciare, di tornare a respirare. È questo uno dei significati che solleva
l’antica parola biblica Kum! che in questi anni ha ispirato il nostro lavoro sulle pratiche della cura.
Kum! è la parola imperativa che invita a rialzarsi, a riprendere il cammino, a ritornare in vita: Kum!
Alzati! Così Gesù si rivolge a Lazzaro sepolto nella tomba. Dovremmo provare a fare laicamente di
questo appello non solo l’invito imperioso ad un risveglio individuale, ma una vera e propria scossa
capace di coinvolgere una intera comunità. È questo, infatti, il tempo di rialzarsi, di ricominciare, è
questo il tempo per un nuovo inizio. E iniziare è già sempre costruire, è già rendere di nuovo possibile
l’orizzonte del futuro che sembrava invece compromesso drammaticamente dal trauma violento del
virus. L’accasciamento e la demoralizzazione depressiva sono stati profondi.
Avremmo potuto ancora incontrare il mondo così come lo avevamo amato? Ci sarebbe stato per noi
ancora un avvenire? Alzati! Kum! È la parola anti-melanconica della cura. Essa invita alla vita perché
c’è ancora vita, perché non tutto è morte, perché c’è ancora tempo per ripartire. Nondimeno l’inizio
non si può pensare solo come il tempo di un istante. Ogni vero inizio è un compito che lo rende simile
ad un cantiere, ovvero ad un luogo dove si lavora insieme per dare fondamento e forma ad una nuova
costruzione, ad una nuova possibilità. Non si tratta infatti di recuperare semplicemente quello che
c’era, di ritornare a come era prima perché come era prima non è affatto estraneo a quello che ci è
accaduto. Per questa ragione i nostri cantieri non devono essere luoghi di restauro o di conservazione,
ma di progetti. Il magistero del Covid ci ha insegnato che il nostro modo di concepire la vita
individuale e collettiva deve essere profondamente rettificato. Troppi errori. Non poteva continuare
così. Il Covid ci ha costretto a fermarci e a pensare. Non dovremmo dimenticare la sua lezione troppo
rapidamente. Abbiamo coltivato un’idea solo libertina della libertà concepita come diritto della
propria volontà di imporre la sua forza dimenticando che la libertà o è solidarietà o è una pura
astrazione perché non ci può essere salvezza individuale ma solo collettiva. Abbiamo confuso
antropocentrismo e umanismo invertendo brutalmente la relazione tra l’abitare e il costruire,
interpretando la nostra condizione umana come legittimazione all’esercizio di una potenza senza
limiti, dimenticando, appunto, che prima c’è l’abitare la terra e la sua custodia e solo grazie a questo
si dà la possibilità, solo secondaria, del costruire. Abbiamo contrapposto populisticamente la vita alle
istituzioni pensando che queste ultime fossero solo il luogo di una alienazione malvagia, corrotta e
marcia, dimenticando che la vita umana senza istituzioni è destinata a perire, che la vita e le istituzioni,
come ricorda con forza nei suoi ultimi lavori Roberto Esposito, sono due facce di una sola medaglia.
Abbiamo dimenticato l’importanza della ricerca, della cultura, del sapere di fronte alla rivendicazione
incestuosa di una democrazia fasulla dove uno vale uno e di fronte al trionfo di una intossicazione di
informazioni senza pensiero. Abbiamo smarrito l’importanza di una sanità pubblica a misura di uomo,
dove la cura è innanzitutto attenzione per la singolarità e non una iperspecializzazione che riduce la
medicina all’applicazione di standard protocollari che cancellano quella singolarità. Abbiamo
cancellato l’importanza della Scuola nella costruzione di una cittadinanza critica e democratica,
riducendola ad un’azienda (scassata) con mire di efficientismo produttivistico.
Abbiamo alimentato il culto del profitto e del denaro a scapito dell’etica del lavoro favorendo
l’affermazione di una economia di carta che non ha più rapporti con la vita delle persone,
dimenticando che la qualità della vita collettiva è ciò che rende ogni organizzazione generativa. Non
abbiamo considerato che erigere muri, militarizzare le frontiere, difendere i propri spazi nazionali
senza pensare all’Europa e ad un’idea più porosa dei confini, ci conduce fatalmente all’isolamento e
alla rovina. Abbiamo dimenticato che la cura dei nostri figli non si realizza con una loro difesa
d’ufficio perpetua che minimizza le responsabilità che invece essi devono necessariamente imparare
ad assumere. La prova che hanno dovuto sopportare è stata severa ma niente ci deve autorizzare ad
indentificarli nella tenebrosa posizione della vittima, in una generazione Covid che non esiste.
Piuttosto a loro dovremmo essere in grado di trasmettere il senso rinnovato di una alleanza tra le
generazioni che permetta di leggere anche le esperienze più difficili e dolorose, com’è quella del
Covid, come essenziali in un processo di formazione. I nostri cantieri proveranno a fare tesoro del
trauma. È questo il compito individuale e collettivo che ci spetta. Non la risposta demoralizzata o
rabbiosa, ma la messa in opera di un lavoro collettivo che in questo tempo, ancora minato
dall’incertezza, sappia offrire idee, pensieri lunghi, possibilità inedite.