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Enzo Bianchi "La riscoperta della vera identità cristiana”

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Vita Pastorale  
Ottobre 2021
La riscoperta della vera identità cristiana 
I luoghi teologici di separazione tra ebrei e cristiani rappresentano la singolarità del cristianesimo
per gentile concessione dell'autore

Dopo l’urgente riflessione sul quarto uomo (VP agosto-settembre 2021) riprendiamo il percorso cristologico, per ridire ancora una volta la nostra fede cristiana in colui che è il Figlio di Dio, che è stato uomo come noi, che è nato da donna ed è vissuto in mezzo al suo popolo di Israele, morendo condannato sulla croce e risorgendo perché richiamato dai morti dal Padre, il terzo giorno. Per noi cristiani suoi discepoli Gesù è il Messia promesso ai padri e mandato da Dio a noi negli ultimi tempi, è colui che compie tutte le Scritture dell’Alleanza con Abramo, Mosè, David e il popolo santo, è colui che conferma la Torah e i profeti ma che si rivela anche Signore della Torah, e vivente in Dio prima dei profeti. Non voleva certo fondare una nuova religione, né provocare uno scisma del suo popolo santo, anche se questo è poi avvenuto per la separazione tra fratelli gemelli: entrambi generati dall’antico Patto, entrambi destinatari della Torah, entrambi chiamati alla salvezza attraverso la fede, l’adesione all’alleanza con il Dio uno, vivente e vero. Certamente occorre riconoscere che i due gemelli hanno dato interpretazioni diverse alla legge e alla profezia, alla storia di salvezza e alla missione nel mondo, ma senza mai spezzare quel legame indissolubile che può conoscere a volte gelosia e anche emulazione, ma che deve poi sempre ritornare alla fraterna accoglienza reciproca. 


Anche in questi giorni si è accesa una polemica tra rabbini e posizioni cristiane, in riferimento alle parole di papa Francesco pronunciate nel corso di un’udienza nella quale il papa commentava la Lettera ai Galati dell’apostolo Paolo. In realtà le parole del papa erano piene di rispetto per la Torah, e quindi per gli ebrei che oggi la praticano con fervore, fiducia e amore per il Signore. Semplicemente, leggendo Paolo, papa Francesco riproponeva una convinzione dei discepoli di Gesù: Dio ha fatto un’alleanza unilaterale con Abramo prima ancora di dare la legge al popolo che sarebbe da lui nato, e dunque c’è un primato della promessa di Dio sulla Torah. Quest’ultima resta santa, resta in vigore, deve essere osservata dai credenti, ma nella consapevolezza che tutti disobbediscono alla legge e che nessuno la realizza pienamente. Per questo l’osservanza della legge non è sufficiente per la salvezza e deve intervenire la grazia, l’amore gratuito di Dio che giustifica chi ha peccato. L’abbiamo scritto nel testo precedente: la legge è buona, santa, sempre da obbedire, ma non è più l’ultima parola di Dio per noi. L’ultima parola è Cristo e la sua misericordia che ha sempre la meglio anche sulla giustizia. 


Noi cristiani dobbiamo vigilare molto sulle parole che usiamo quando percorriamo sentieri d’interpretazione che potrebbero ferire i fratelli ebrei, i quali non sono una realtà del passato, sono accanto a noi, testimoni del Dio vivente. E bisogna tener presente che l’ipocrisia di chi simula un comportamento religioso, ma ha il cuore ingombro di idoli, si manifesta dovunque ci sia la religione, dovunque ci siano religiosi, uomini e donne, a qualunque credo si rifacciano. Perciò quando Gesù ammonisce, attacca e minaccia i farisei nei vangeli non intende condannarli tutti, ma ha di mira solo alcuni di loro, suoi interlocutori, falsi, doppi, ipocriti: la stessa cosa che oggi si potrebbe dire di certi cattolici o di certi ecclesiastici... 


Ma non solo nel rapporto con la legge si è fatta strada una distinzione tra ebrei e cristiani, è avvenuto anche in altri luoghi teologici. Si potrebbe addirittura parlare di “rottura”, soprattutto a proposito del tempio, nel quale Gesù ha detto parole inequivocabili sulla scia dei profeti, soprattutto di Geremia (cf. Ger 7,4). Il tempio di Gerusalemme, luogo della Shekinah di Dio, in verità per i cristiani non ha conservato la sua realtà sacramentale, perché ormai è Gesù il tempio di Dio, e il Dio vivente non lo si adora più nel tempio di Gerusalemme, né nel tempio sul monte di Samaria, ma nello Spirito santo e nella verità che è Gesù Cristo (cf. Gv 4,21-23). Perché ormai, come rivela l’Apostolo, il vero tempio è il corpo del cristiano e ogni uomo è tempio di Dio! Scrive Paolo: “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio” (1Cor 6,19; cf. 3,16). 


Il tempio di pietre di Gerusalemme, luogo della presenza di Dio, nel 70 sarà distrutto e il culto dei discepoli di Gesù non sarà più celebrato né in templi né su altari ma nella vita quotidiana di uomini e donne, culto gradito a Dio secondo Paolo (tèn loghikèn latreían, Rm 12,1). La loro preghiera sarà ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, sarà lode e ringraziamento a Dio, sarà spezzare il pane e bere all’unico calice per diventare l’unico corpo di Cristo presente nella storia tra gli uomini. Non dobbiamo avere timore di confessare con parresìa che sul tempio di Gerusalemme è avvenuto uno scisma tra noi e gli ebrei, perché ormai la comprensione del culto era diversa. 


Né possiamo dimenticare un’altra rottura che ha il suo significato: quella diversa interpretazione del legame con la terra di Israele. 

Sappiamo che la terra è la promessa folle di Dio ad Abramo (cf. Gen 12,1.7 ecc.). Questo legame, sempre minacciato dai nemici storici di Israele e dai persecutori del popolo santo, è per gli ebrei un legame teologico, ma all’interno della promessa di Dio. Resta vero che con la venuta di Gesù e il sorgere della comunità cristiana questo legame con la terra si scioglie: i cristiani si sentono senza terra propria, senza patria, e scoprono una vocazione alla diaspora, all’esilio tra la gente, senza mai identificarsi con un’etnia o una terra. Sono stranieri e pellegrini, in cammino verso il regno di Dio, con il mandato tra le genti di annunciare la liberazione e il perdono dei peccati da Gerusalemme a Roma (cf. Mt 28,20; Lc 24,47; At 28,11-31). È significativo che la Lettera agli Ebrei neghi addirittura che i padri (il popolo di Israele) abbia conseguito la promessa della terra fatta da Dio ad Abramo. Dio in realtà aveva promesso un’altra terra, un’altra città, della quale è lui stesso architetto e costruttore, la città del Regno! (cf. Eb 11,10.31-40). 


Infine va detto che Gesù consuma una rottura sul tema dei legami di sangue, nell’orizzonte di una fraternità universale. La rottura con la famiglia, con i consanguinei, per molti aspetti è immanente alla rottura con la terra. Non è facile accettare queste verità, anche per noi cristiani: i legami di sangue per Gesù, e di conseguenza per noi, non sono determinanti e soprattutto non dovrebbero mai essere di ostacolo all’incontro tra gli umani; qualsiasi lingua parlino, a qualunque popolo e cultura appartengano, sono tutti fratelli e sorelle. 

L’universalità è una dimensione essenziale della fede cristiana, e quando il cristiano incontra l’altro sempre dovrebbe riconoscersi in debito verso di lui, il debito dell’amore (cf. Rm 13,8): deve cioè amare con la sua vita Gesù Cristo e testimoniare la speranza che lo abita, a chiunque, sempre, senza alcun limite se non quello del rispetto. 


Sì, questi luoghi teologici di rottura o separazione tra ebrei e cristiani rappresentano la singolarità del cristianesimo rispetto all’ebraismo. 

E noi dobbiamo assumerli per accrescere la consapevolezza del nostro essere chiamati a vivere il Vangelo di Gesù Cristo, e non semplicemente un messaggio religioso. È in gioco la nostra identità, né più né meno! Il cristianesimo non fa che rinascere costantemente e anche in quest’ora di crisi è possibile per noi vivere una vita cristiana conforme al vangelo. Ma occorre “rifondare la nostra fede” nell’unico fondamento che è Gesù Cristo Signore, uomo e Dio, Vivente per sempre e sempre con noi che siamo in attesa della sua gloriosa venuta!

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