Emanuele Borsotti "La nostra sete di Dio"
Ottobre-Novembre 2021
Nel Crocefisso incontriamo Dio nella
sua sete, ma, al contempo, il Dio di
Gesù Cristo si lascia incontrare nella nostra sete. “Chi ha sete, venga; chi vuole,
prenda gratuitamente l’acqua della vita”
(Ap22,17).
È l’Assetato che ci disseta. A noi - spinti
dal bisogno che ci abita, segno del limite
e, al contempo, di quel desiderio che ci
portiamo dentro, di quel desiderio che noi
siamo - è chiesto soltanto di presentargli
il nostro desiderio, la nostra sete, e poi
di lasciarlo entrare nei nostri desideri interiori, che invocano quell’acqua che disseta.
O Dio, tu sei il mio Dio,
dall’aurora io ti cerco,
ha sete di te l’anima mia,
desidera te la mia carne
in terra arida, assetata, senz’acqua (Sal 63,2).
Questo salmo è la preghiera del Cristo
assetato di Dio e di noi, ma anche la preghiera dell’uomo assetato di Dio: “Dio,
Dio mio, dall’alba io desidero te solo”
recita letteralmente il v.2, mentre la mia
gola (nepes), cioè il mio essere vitale, ha sete di te, e la mia carne nella sua fragilità
(basar) è protesa verso di te, nel paesaggio
interiore dell’ansia di Dio, che si rispecchia
nel paesaggio esteriore della terra desertica, bruciata dal sole e priva di ruscelli.
Da questa landa desolata, dal deserto, dal
vuoto, dal nulla, dalla morte sale questa
ansia di pienezza, questa inestinguibile
sete di Dio. Si profila così un altro nome
di Dio: il Desiderato, colui che “attendiamo con l’intenso desiderio del cuore”,
mentre abitiamo una stagione dell’umanità segnata da una nuova malattia, che si potrebbe chiamare “estinzione,
spegnimento, tramonto del desiderio”,
a causa di una perenne insoddisfazione
dell’uomo. Paradossalmente, però, facciamo anche la contemporanea esperienza
di vivere oggi in una società del desiderio,
in un clima di desiderio indotto, soprattutto all’interno di dinamiche economico-commerciali, dato che è sul piano del
desiderio che competono oggi le potenze
del mondo. Nella loro etimologia, in verità non del tutto chiara, i termini de-siderium e de-siderare manifestano un legame lessicale con le stelle (sidera), quasi che la
nostra origine sarebbe inscritta nel mondo delle stelle. Noi che proveniamo dalle
stelle e ne siamo ormai lontani patiamo
fortemente la nostalgia, velata di rimpianto, per una bellezza che abbiamo perduto.
Ma il verbo “desiderare” (il prefisso “de”
inteso come privazione) potrebbe indicare
anche un passaggio dalla verticalità dello
sguardo - l’uomo che leva il capo e guarda
le stelle - a uno sguardo orizzontale, che
si distoglie dalla contemplazione del cielo.
Tale interpretazione vorrebbe che “de-siderando si smetta di guardare le stelle,
dunque si decida di non affidarsi più al loro
corso sicuro e sempre uguale, di non regolare la vita sulla base di un
destino verticale, che cala
dall’alto. Si passerebbe
così a conservare invece
lo sguardo teso nella dimensione orizzontale del
mondo, a sfidare quello
che dovrebbe essere il futuro stabilito per cercarne un altro, passando dal
sapere al fare. O ancora,
si può pensare che si tratti di usare il sapere tratto
dalle stelle per agire nel mondo”. (U. Volli)
L’homo desiderans è abitato da un desiderio che, se autentico, è insaziabile,
perché l’oggetto desiderato non spegne
la fame e la sete del desiderio, ma la approfondisce, la scava.
L’esperienza biblica del desiderio ci testimonia la complessità e la ricchezza di questa dimensione umana, che investe simultaneamente emozione, pensiero e azione,
cioè la sfera emotiva, affettiva, razionale,
insieme a quella estetica e a quella valoriale, con un profondo radicamento nella
corporeità: dire desiderio significa evocare
la “gola”, “l’alito”, i luoghi fisici attraversati dalla fame, dalla sete, dalla necessità dell’aria da respirare. Dalla concretezza dei
bisogni, il desiderio trascolora rapidamente nell’intenzionalità, nella tensione interiore e trova la sua sede nel cuore, dove
solo Dio e, a tratti, la propria coscienza
possono leggere. Naturalmente, anche un
lato oscuro è contemplato nella pluralità
dei moti che abitano l’uomo; non a caso il
comandamento divino ha anche un imperativo negativo al riguardo: “Non desidererai” (Es 20,17; Dt 5,21).
La Scrittura, quindi, descrive Dio come colui che conosce il desiderio e il gemito di
ogni uomo (Sal 37,10).
In una pagina del libro di Daniele, l’angelo Gabriele dice al profeta: Tu sei uomo di
desideri (Dn 9,23). Il testo
ebraico, a questo proposito, è assai chiaro e vuole
semplicemente indicare
che Daniele è “l’uomo
prediletto” da Dio. Daniele costituisce l’oggetto
dei desideri di Dio e in tal
senso è prediletto. Ma la
tradizione, che riceve un
testo e se ne appropria
nelle interpretazioni - nella versione latina - fa di
Daniele il soggetto del desiderio, “uomo
di desideri” in quanto uomo che desidera
Dio.
Insomma, il desiderio di Dio è inscritto
nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è
stato creato da Dio e per Dio e Dio non
cessa di attirare a sé l’uomo. In altre parole, se l’uomo desidera Dio, questo slancio
verso un Altro, questa tensione verso un
Oltre, inscritti nell’umano, sono forse dovuti al fatto che l’uomo “è icona di un Dio
che lo desidera” (H. Debbrasch).
Al desiderio (ultimo) di Dio si perviene
anche con l’aiuto dei desideri penultimi:
desiderio di felicità, di verità, di bellezza,
di speranza. Allo stesso tempo, la creazione stessa può diventare una scuola del
desiderio, come pure la cultura può suscitare desideri e aspirazioni che inducono a
perseguire la sapienza con cuore ardente; e
poi naturalmente le pagine della Scrittura
ci conducono per mano verso Dio.
Il desiderio è dunque
una passione: l’amore che
aspira a possedere l’oggetto amato è desiderio, che
diviene gioia nell’incontro
e timore di fronte alla possibilità della perdita.
Il desiderio inoltre è
sempre apertura, sporgenza su una assenza: “Con
il desiderio si bramano le
cose assenti” (S. Agostino).
Quest’assenza, avvertita, sperimentata,
patita come mancanza, come lontananza,
soprattutto quando si muove verso Dio,
infonde un’energia desiderativa, suscita
il desiderio, infiamma il cuore. E questo
desiderio che infiamma l’intimo dell’uomo è, in fondo, un’eco della precedenza
dell’amore donato all’uomo: chi ha fatto
esperienza dell’amore desidera vivere di
quell’amore, custodirlo, riamarlo e comunicarlo. L’uomo che ama e desidera si riconosce, dunque, come amato e amante.
Quell’abisso che è l’uomo stesso è dunque un infinito di desiderio, e il desiderio
è sempre desiderio infinito. Questo vale
per i desideri penultimi: desideri inseguiti
fino al possesso; possesso che in qualche
modo spegne ed esaurisce il desiderio, che
però emerge subito insaziabile, puntando
lo sguardo su altri oggetti desiderabili. Ma
questa dinamica pervade anche il movimento del desiderio ultimo, quello verso
Dio: dato che Dio non potrà mai essere
posseduto e compreso. “Angusta è la casa
della mia anima perché tu possa entrarci:
sia dunque da te dilatata” (S.Agostino).
Il desiderio di Dio scopre che il nostro cuore non è né abbastanza grande né abbastanza puro per dargli ospitalità (questo
suppone anche un lavoro: l’atto di evacuare dal proprio cuore tutto quello che lo ingombra, lo intralcia e tutto quel ciarpame
che noi confondiamo con la vita interiore).
L’uomo desiderante si sente incapace e inadatto ad
accogliere un Ospite che lo
supera e lo sovrasta sotto
tutti i punti di vista. L’unica
possibilità per questa ospitalità sta proprio nel fatto
che è Dio stesso a sistemare le condizioni del suo
ricevimento, allargandoci e
dilatandoci.
Il desiderio abita dunque
il nostro limite umano, la nostra umanità
creaturale limitata. Il desiderio fiorisce
nell’orizzonte del provvisorio e non del
compimento definitivo: è anticipazione di
una realtà che non esiste ancora, è sguardo che intravede ciò che già c’è, ma quale
germe, quale cominciamento di un’intuizione che attende di essere sviluppata e
approfondita. Così, l’oggetto del desiderio, rispetto a noi, rimane sempre in una
posizione di libertà, raggiungibile ma non
catturabile, conoscibile ma non esauribile. E questo vale nell’amore, nell’amicizia,
nella vita fraterna, nei rapporti familiari,
nella ricerca di Dio.