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Donne nella chiesa: intervista a Lucia Vantini

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Le donne nella Chiesa. Se ne parla, da molto tempo a questa parte. Da quasi vent’anni opera in Italia il Coordinamento Teologhe Italiane (CTI), un’associazione nata per valorizzare e promuovere gli studi di genere in ambito teologico, biblico, patristico, storico, in prospettiva ecumenica.

Nel giugno scorso Cristina Simonelli, presidente da due mandati e figura di riferimento, ha lasciato l’incarico. Al suo posto è stata eletta Lucia Vantini.

Nata nel 1972, veronese, Lucia Vantini è docente di Teologia fondamentale e antropologia all’Issr San Pietro Martire e di Antropologia filosofica e Antropologia teologica allo Studio teologico San Zeno. Inoltre è docente a contratto di Storia della filosofia contemporanea all’Università di Verona.

Di lei avevo letto recentemente uno splendido commento al libro di Giobbe (Maggioni – Vantini, Giobbe, Cittadella) e dunque ero curioso di ascoltarla. Questo è il testo del dialogo. 

E’ stata eletta presidente del Coordinamento Teologhe Italiane. Un bel riconoscimento e una bella responsabilità. Quali sono le priorità che intravede per il suo compito?

Sì, è un ruolo assunto con gratitudine ma anche con la consapevolezza della responsabilità che questo comporta. Le mie priorità sono anzitutto legate alla cura dei legami tra noi teologhe. Siamo una rete di donne a cui stanno a cuore le stesse cose, seppure tra noi ci siano differenze singolari sul piano della ricerca, delle condizioni di esistenza e anche confessionali. (Il CTI è un gruppo ecumenico e interdisciplinare).

Con questa attenzione di fondo, cerco di restare in ascolto delle voci e di favorire lo scambio tra noi e con i teologi. Vorremmo riuscire a prendere una parola autorevole nella chiesa ma anche nello spazio pubblico.

Nella Chiesa si fa molta fatica a passare dall’idealizzazione di modelli femminili alla realtà concreta, cioè alle donne in carne ed ossa che fanno parte del popolo di Dio. Donne presenti ma senza voce. Una differenza assorbita e neutralizzata…

Ogni forma di idealizzazione tradisce la storia, inibisce i soggetti, li esautora nella loro espressività. Non per caso l’immaginario delle donne ideali si accompagna paradossalmente a un atteggiamento di sospetto – quando non di vera e propria demonizzazione – verso le donne reali.

Per un uomo mettersi in relazione autentica con una donna significa in primo luogo avvertire un’alterità nell’universo (che a dispetto della parola non ha affatto “un unico verso”). Ma significa anche rendersi conto che noi donne siamo esseri singolari. Non pensiamo, non parliamo, non sentiamo e non agiamo in modo identico.

Comunque io non direi che le donne sono senza voce. Le voci femminili ci sono eccome e hanno qualcosa di importante da dire. È piuttosto la sordità dei luoghi che andrebbe interrogata. 

Parlare di donne e uomini significa anche parlare di storie di corpi. Storie che noi cristiani abbiamo da troppo tempo rimosso. Come se si potesse prescindere come luogo di relazione, di parola, di decisione, di sguardo simbolico…

La corporeità è effettivamente inaggirabile quando si parla di relazioni, ma è inaggirabile sempre. Il corpo è il luogo della nostra espressività, lo spazio in cui la vita ci accade e – per usare un’immagine di Jean-Pierre Sonnet. Per il cristianesimo, poi, è addirittura la stupenda scorciatoia che Dio ha preso per incontrare le sue creature.

Proprio per questa complessità, ogni riferimento ai corpi è tanto necessario quanto delicato. Da un lato i corpi vanno ascoltati come sorgente di senso, ma dall’altro occorre vigilare sui significati che ci sembra di cogliere da quella espressività incarnata. Certe ideologie usano i corpi per confermare visioni ingiuste, patriarcali, razziste o classiste dell’umano. 

Parlare di donne e uomini significa parlare di potere. So che il tema è complesso eppure la discriminazione femminile nella chiesa – che fonda la dignità di ciascuno a partire dal battesimo – ha anche a che fare con l’esclusione.

La politica delle donne pratica un massimo di autorità con il minimo di potere. È questo un essenziale insegnamento femminista. L’autorità è Exousia, per dirla con un termine teologico e per ricordare anche il nome di una serie di libri che il CTI sta facendo uscire per le edizioni San Paolo. L’autorità è ciò che circola tra noi quando siamo in grado di promuovere il bene che c’è, di mettere al mondo qualcosa che è radicato nella parte migliore di noi.

È un’autorità che sfida il potere con strumenti che non sono del potere, perché si basa non sulla forza ma sul riconoscimento di qualcosa che ci accomuna e che non è né mio né tuo, ma che può trasformarci in qualcosa che è più di ciò che c’era. 

Qual è il suo giudizio sul Motu Proprio Spiritus Domini di papa Francesco sull’accesso delle donne ai ministeri del lettorato e dell’accolitato?

Il gesto di papa Francesco riconosce esplicitamente una prassi già evidente. Per questo c’è chi ha sottolineato come in fondo non sia cambiato nulla per quanto riguarda il problema specifico delle donne nella chiesa.

Se però facciamo attenzione ai significati simbolici che vi si esprimono, emerge una valorizzazione effettiva del battesimo di donne e uomini, che la specificazione «di sesso maschile» del canone 230 in qualche modo smentiva. Il battesimo è sorgente di una libertà reale che, in modo effettivo e inclusivo, autorizza le/i credenti a farsi passaggio del vangelo nel mondo. 

Fuori dalla retorica pelosa, cosa vuol dire oggi nella Chiesa mettersi in ascolto delle donne?

Vuol dire tante cose, ma quello che ancora si fatica a comprendere è l’urgenza di un lavoro personale e politico alla riscoperta della propria parzialità sessuata. Molto spesso, per esempio, un uomo che si fa questa buona domanda non sospetta che il primo gesto da compiere non sia verso l’altra ma verso di sé. Occorre sentire e accettare di non essere tutto e tornare a un ordine simbolico capace di differenze e di gratuità da ricevere.

Le donne nella storia della Chiesa sono state capaci di parlare di un altro Dio. Oggi dove le pare di ritrovare una differenza femminile?

Ho un po’ di preoccupazione nel rispondere a questa domanda, perché c’è il rischio che la differenza sessuale si riempia di significati e di faccia prescrittiva, come spesso purtroppo nei nostri contesti ecclesiali ancora accade.

Non per caso, infattiraramente questa domanda viene rivolta agli uomini. Agli uomini non si chiede mai dove riconoscere la differenza maschile: si dà per scontato che il mondo sia già al maschile. Uni-verso, appunto.

Tuttavia arrischio un passaggio. Questo: la differenza femminile emerge là dove una donna, assieme ad altre donne, mostra che qualcosa di essenziale è rimasto ai margini della storia. E da lì continua a chiamare affinché le differenze smettano di essere gerarchizzate. 

Lei ha scritto che “anche i processi di riforma più rivoluzionari e inclusivi possono custodire al loro interno residui di un inconfessato androcentrismo, che diviene resistenza o vero e proprio ostacolo al sogno di comunità realmente aperte alle differenze.” Come concretamente fare in modo di superare nella chiesa di oggi secoli di immobilità maschile sull’immaginario femminile?

L’androcentrismo può nascondersi ovunque, anche nei gruppi più aperti e insospettabili come quelli definiti “progressisti”, ecclesiali o politici che siano. È il frutto marcio di resistenze implicite e difficili da riconoscere, per cui particolarmente subdole.

L’attenzione di alcuni di questi gruppi, giustamente fedeli al presente e tesi al futuro, è ipotecata da uno sguardo che immiserisce le donne e che le riporta nel silenzio. Tutto il discorso è chiuso in una contrapposizione frontale – magari sacrosanta ma non è questo il punto – alle forze che temono e impediscono il cambiamento. Tutto questo senza prevedere la presenza reale e simbolica delle donne e senza nemmeno avvertirne la mancanza.

Daniele Rocchetti
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