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“Vangeli senza speranza”: un estratto dal nuovo libro di Alberto Maggi, “Brutto come il peccato”

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“L’unica volta in cui nei vangeli appare la parola speranza non è in un insegnamento di Gesù ai suoi discepoli, ma in un rimprovero rivolto ai capi religiosi che cercano di ucciderlo…”. – Su il Libraio un estratto dal nuovo libro del biblista Alberto Maggi“Brutto come il peccato – Perché a farci belli è l’amore”


“Il biblista Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme e, grazie ai suoi insegnamenti fuori dagli schemi, in questi anni è riuscito a conquistare migliaia di lettrici e lettori, credenti e non credenti, al punto da essere riconosciuto come una delle voci più spiazzanti e insieme più incisive della Chiesa

Fondatore del Centro Studi Biblici “G. Vannucci” a Montefano (Macerata), dopo il libro dedicato alla figura di Bernadette, Maggi è tornato, sempre per Garzanti, con Brutto come il peccato – Perché a farci belli è l’amore, che raccoglie alcune delle sue riflessioni più originali sulla fede e sull’importanza di vivere la propria vita in modo autentico: lungi dal presentarsi come un maestro esemplare, padre Alberto (da anni assiduo collaboratore del nostro sito) cerca di trasmettere in queste pagine la straordinaria attualità del messaggio evangelico attraverso uno stile personale contraddistinto da grande chiarezza. 

Nel notare come la Chiesa abbia adottato per secoli un linguaggio per molti versi antitetico a quello del Vangelo, ricorrendo a termini e formule dottrinali che esprimono le dinamiche del potere, che separano e dividono, che giustificano l’esclusione e creano distinzioni, Maggi (che cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere) invita a riscoprire la semplicità, il pragmatismo e la coraggiosa schiettezza delle parole di Gesù, con l’obiettivo di realizzare, ciascuno nel proprio piccolo, un ideale umano, prima ancora che cristiano, di comunione e unità. 

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo: VANGELI SENZA SPERANZA 

Fin dalle prime lezioni di catechismo si apprende l’importanza della Speranza, una delle tre «virtù teologali» (da Theos, Dio, e logos, parola), ovvero provenienti da Dio stesso come suo dono agli uomini. Essa viene posta al centro tra la Fede e la Carità, secondo quanto scritto da Paolo: «Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!» (1 Cor 13,13). 

Sorprende però non trovare questa virtù nei vangeli. Questo perché Gesù nei suoi insegnamenti è sempre rivolto al presente e non al futuro. Lui offre certezze e non speranze. Mentre sperare significa tendere verso una meta, qualcosa che non c’è ancora, credere significa avere sperimentato la verità dell’insegnamento di Gesù nella propria vita. Per credere non vengono richiesti atti di fede su qualcosa che c’è ma non si vede o non si può ancora sperimentare, ma sull’esperienza di qualcosa di tangibile e accessibile a tutti, come scrive l’autore della Prima Lettera di Giovanni, il quale, parlando al plurale, presenta quella che era l’esperienza comune dei primi credenti: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1,1-3). Per ben tre volte l’autore parla di vedere e due di udire, ma quel che sorprende è trovare anche il verbo toccare, a indicare che l’esperienza comune dei credenti riguardava non solo ciò che si vedeva, ma anche quello che si toccava. 

Per questo, l’unica volta in cui nei vangeli appare la parola speranza non è in un insegnamento di Gesù ai suoi discepoli, ma in un rimprovero rivolto ai capi religiosi che cercano di ucciderlo (Gv 5,18): «Non crediate che sia io ad accusarvi davanti al Padre; c’è già chi vi accusa, Mosè, nel quale avete riposto la vostra speranza» (Gv 5,45). Assente nel vangelo più antico, quello di Marco, il verbo sperare appare in Matteo una sola volta ma come citazione del profeta Isaia 11,10 secondo la traduzione greca dei LXX: «nel suo nome spereranno le genti» (Mt 12,21). Nel Vangelo di Luca, in 6,34, il verbo indica l’atteggiamento negativo di quanti danno in prestito nella speranza di ricevere in cambio qualcosa, o l’aspettativa del re Erode che spera di vedere qualche miracolo compiuto da Gesù (Lc 23,8). La terza e ultima volta il verbo sperare esprime le aspettative deluse dei discepoli di Emmaus rispetto a colui che essi pensavano fosse il liberatore d’Israele (Lc 24,21). Gli evangelisti trasmettono il messaggio di Gesù adoperando la lingua greca, nella quale gli stessi vocaboli sono retaggio culturale della ricca tradizione filosofica che ha espresso grandi maestri del pensiero. 

Basta pensare ai testi del grande Esopo, per il quale la speranza è fallace, in quanto, fuorviata dai desideri dell’uomo, può ingannare e illudere. Per questo, spesso, speranza e delusione procedono insieme, alimentando un circolo vizioso dove la delusione genera nuove speranze che a loro volta si riveleranno deludenti: «Caro mio, se ti attacchi alla speranza, sbagli di grosso. La speranza è un pastore che ti porta a spasso, ma la pancia non te la riempie» (Esopo, Il gracchio e la volpe). Il lamento del filosofo va di pari passo con quello del profeta Isaia: «Speravamo nella luce, ecco invece le tenebre; nello splendore, invece camminiamo nell’ oscurità… Tutti noi urliamo come orsi e come colombe non cessiamo di gemere; speravamo nel diritto, ma non c’è; nella salvezza, ma essa è lontana da noi» (Is 59,9.11). 

Per questo gli evangelisti non parlano di speranza ma di fede, che si basa su quel che si è sperimentato come vero, certo. La fede in Gesù, infatti, è una profonda e radicata convinzione che non necessita di prove. Sono invece gli increduli che chiedono segni da vedere per poter credere. In risposta a quanti chiedono a Gesù «Quale segno fai perché vediamo e crediamo» (Gv 6,30), lui inverte la formulazione: occorre credere per poter vedere ed essere segno. Il segno non conduce l’uomo alla fede, ma al contrario la fede produce il segno («Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?», Gv 11,40). 

La speranza, inoltre, tende ad alimentare una preghiera che può generare ansia, perché si chiede che avvenga quel che non c’è ancora, e il mancato esaudimento non viene imputato al Signore, ma all’indegnità dell’orante, che per questo ritiene di dover insistere, implorando e supplicando ancora… La fede basata sull’assoluta certezza delle parole di Gesù fa invece fiorire una preghiera riconoscente nella quale si esprime la gratitudine per quel che si sperimenta. Essa nasce dall’esperienza della presenza di Gesù in mezzo ai suoi «come colui che serve» (Lc 22,27; 12,37), che i credenti vivono nell’Eucaristia, rendimento di grazie sereno e riconoscente al Signore che si fa nutrimento per i suoi fratelli. 

Il fatto che Gesù nel suo insegnamento non offra speranze ma certezze è evidente nel tema principale della sua predicazione: il Regno di Dio. In Israele la tragica esperienza della monarchia, ricordo funesto e fonte di tutte le disgrazie patite nel presente, aveva portato il popolo a sperare in un regno governato direttamente da Dio, proiettando nel Signore l’ideale di un re difensore dei poveri e degli oppressi («Padre degli orfani e difensore delle vedove», Sal 68,6; 146,9), che si sarebbe preso cura di tutti gli emarginati (Mi 4,6-7). Gesù è venuto a realizzare questa speranza. Il Regno da lui annunciato e inaugurato è una società alternativa che necessita, per la sua attuazione, della conversione da parte degli uomini. Essi sono invitati a passare dal credere in un Dio che governa emanando leggi da osservare, all’avere fiducia in un Padre che comunica agli uomini il suo stesso Spirito, la sua stessa capacità d’amare. 

Proprio questo è ciò che permette di lasciare la condizione di servi per acquisire quella di figli. 

Questo Regno non è una promessa per un futuro lontano ma una possibilità immediata per il presente, che diventa realtà dal momento in cui due o più persone accolgono il suo messaggio (Mt 18,20). Per questo, quando nel Discorso della montagna Gesù proclama le beatitudini, non promette un regno lontano nel tempo, ma già presente in quanti accolgono la prima beatitudine, quella della scelta per la povertà («perché di questi è il regno dei cieli», Mt 5,3). I credenti appartengono a questo Regno, che non deve venire, ma che c’è già (Col 1,13; Ap 1,6). Esso deve solo estendersi a ogni creatura, come viene formulato nel Pater (Mt 6,10). Il Regno di Dio ha un orizzonte universale, non limitato al «regno di Israele» (At 1,6); svincolato da ogni elemento nazionalista, è aperto a tutti coloro che vorranno far parte del «regno del Padre» (Mt 13,43; 26,29). Per questo, ai farisei che continuano a sperare nella venuta del Regno di Dio, Gesù rivolge l’invito di aprire gli occhi, affinché si rendano conto che «il regno di Dio è già in mezzo a voi» (Lc 17,20-21). Pertanto il Regno è una realtà presente e il credente non è invitato a pregare e sperare affinché venga, ma perché si estenda, si diffonda e raggiunga ogni creatura. 

C’è però un’altra realtà che indiscutibilmente riguarda il futuro: la vita eterna, speranza fondamentale di ogni credente. Anche a proposito di ciò Gesù stupisce i suoi interlocutori, perché nei suoi insegnamenti sulla vita eterna parla di essa sempre al presente, dissociandosi dalla tradizione che la vedeva invece come un premio futuro per il buon comportamento tenuto nell’esistenza. Gesù non offre la vita eterna come una speranza, ma come una certezza. 

Le sue parole non sono una promessa che riguarda il domani, ma una possibilità per l’oggi. Per questo egli non afferma che chi crede avrà la vita eterna, ma che «chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (Gv 3,36; 6,47) e che «chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna» (Gv 5,24). Il Padre di Gesù non è il «Dio dei morti ma dei viventi» (Mc 12,27), non risuscita i morti, ma dona, già ora, ai viventi, la sua stessa vita che è eterna, indistruttibile. Per questo la condizione del credente è quella di chi è già risorto: «Se dunque siete risorti con Cristo…» (Col 3,1); «Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2,6). 

Ma Gesù, nel suo insegnamento, tutto centrato sulle certezze del presente e non sulle speranze future, arriva ad annunci talmente paradossali da sconfinare nell’assurdo. Poco prima di entrare con i suoi discepoli nel Getsemani, il podere dove sarà arrestato, Gesù li rincuora affermando: «Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). Quella di Gesù non è una speranza per il futuro; lui non promette che vincerà il mondo, ma dichiara che lo ha già vinto. Come può assicurare questo proprio poco prima di essere abbandonato dai suoi seguaci, arrestato, sbeffeggiato, torturato e crocifisso, eliminato con la morte più ignominiosa, quella destinata ai maledetti da Dio (Dt 21,23; Gal 3,13), concludendo miseramente la sua esistenza? Gesù ha la certezza, che è sempre valida, che quanti, come lui, si pongono a fianco della Vita, della Luce e della Verità, sono già da subito vincitori su ogni forma di menzogna, di tenebra e di morte, perché «in lui è la vita e la vita è la luce degli uomini», una luce che «splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,4-5). Paolo è talmente convinto di questa certezza che nella Lettera ai Romani, dopo aver elencato ogni forma di male, dalla tribolazione all’angoscia, dalla persecuzione alla fame, dalla nudità al pericolo, alla spada che li mette a morte come pecore da macello (Rm 8,31-36), conclude esclamando: «In tutte queste cose noi siamo più che vincitori!» (Rm 8,37). Non scrive che saranno, ma che sono già vincitori. Paolo è certo che «se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?». Per questo è persuaso che «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39). 

La consapevolezza del credente che con Gesù non ci sono realtà future in cui sperare, bensì situazioni presenti che devono essere vissute pienamente, esclude un’attesa passiva dell’agire del Signore. Il fedele è coinvolto in un’attiva collaborazione all’azione creatrice di Dio e di Gesù, con l’assoluta certezza che in ogni evento della vita tutto, ma proprio tutto, concorre al suo bene (Rm 8,28), trasformando così ogni situazione, anche la più negativa, in opportunità di crescita e occasione di ricchezza. 

Perfino le ultime parole di Gesù, «Ecco, io sono con voi tutti i giorni» (Mt 28,20), non sono un invito a sperare nel futuro, ma a sperimentare una realtà presente. Questa non è una promessa, una speranza, ma la certezza della sua presenza viva e vivificante accanto ai suoi. Gesù, che come pastore ha dato la sua vita per evitare ogni danno ai discepoli (Gv 10,11.28; 17,12; 18,8), assicura la sua attiva presenza («il Signore operava insieme con loro», Mc 16,20). Non chiede di essere invocato nelle situazioni di pericolo, ma invita gli uomini a essere capaci di percepire la costante vicinanza di un «Dio con noi» (Mt 1,23). 

Questa, quindi, non è una promessa per l’aldilà, ma l’esperienza quotidiana della presenza vivificante di quel Cristo che «risorto dai morti non muore più» (Rm 6,9), affinché ogni credente possa esclamare, come lo stupito Giacobbe: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). 


Articolo pubblicato in «Orientamenti Pastorali», EDB, 11/2024. Dossier Il Giubileo della speranza 

(continua in libreria…)


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