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Angelo Reginato "Tra giustizia e misericordia"

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Il Dio biblico è giusto e misericordioso, “se si limitasse a sedere solo sul trono della giustizia, il mondo sarebbe condannato, ma se sedesse unicamente sul trono della misericordia, il mondo continuerebbe a sussistere, certo, ma sarebbe ingovernabile”. 
Angelo Reginato è teologo e pastore nella chiesa battista.

“Amore e giustizia voglio cantare”, afferma il salmista (Sal 100,1). Com’è possibile farlo contemporaneamente? E farlo in maniera tale che entrambi siano cantabili? 
Mi inoltro per questo sentiero impervio del territorio biblico come uno straniero che, a ogni angolo del percorso, teme di compiere un passo falso. 
E se alza lo sguardo, intravvede un tracciato per nulla familiare, persino spaesante, come se fossero due sentieri divergenti che si sovrappongono in uno strano modo. Per chi ha da sempre abitato l’Occidente, lo sguardo è stato educato alla distinzione. Giustizia e misericordia sono obiettivi opposti, da tenere ben distinti, a meno di negare quel criterio elementare che orienta lo sguardo e che va sotto il nome di “principio di non contraddizione”. E quando questo sguardo consumato a lungo, fino a diventare la cornice principale entro cui appare la realtà, si ritrova in una terra straniera, nel mondo delle Scritture, dove gli opposti non esprimono la contraddizione ma chiedono di essere sostenuti entrambi, contemporaneamente, allora il disorientamento è grande. Anche perché questo tenere insieme giustizia e misericordia non compare come un particolare stonato dell’insieme ma esprime l’anima del paesaggio. 

Per la tradizione ebraica, che fa da eco a quella narrazione, il Dio biblico è estremamente mobile e siede non su uno ma su due troni: quello della giustizia e quello della misericordia. Se si limitasse a sedere solo sul trono della giustizia, il mondo sarebbe condannato, come un esperimento non riuscito; ma se sedesse unicamente sul trono della misericordia, il mondo continuerebbe a sussistere, certo, ma sarebbe ingovernabile, in balia dell’arbitrarietà. 
Nel leggere le diverse narrazioni in cui Dio entra in scena percepiamo questa mobilità affannata del protagonista divino, mai fermo, impossibilitato a essere detto in maniera univoca. Del resto, questa è la scommessa biblica nel dire Dio: per onorare l’interdetto del “non nominarlo invano”, invece che battere la strada mistica del silenzio, sceglie di moltiplicare le narrazioni. Per non dire Dio invano, alla maniera degli idoli vani, occorre dirlo in molti modi. 
Il linguaggio unico è quello degli abitanti di Babele, la cui impresa riceve la sanzione divina. Né Dio né l’essere umano devono essere “a una dimensione”. 
Dunque, qual è il posto di Dio nel mondo? Su quale trono si deve sedere il re dell’universo? Almeno su due, non di meno. 
Dopo l’iniziale disorientamento, l’occhio comincia ad apprezzare l’originalità del panorama che si distende di fronte. Prova a renderlo familiare ricorrendo alla messa in guardia, che ha preso voce anche in Occidente, nei confronti delle descrizioni prive di sfumature, dei limiti del “pensare/classificare” (G. Perec), ovvero di quel desiderio di fare ordine a cui la vita resiste. Ma quando sposto lo sguardo ai piedi finisce la fascinazione e torna l’obiezione: di fronte al bivio, in che direzione devono procedere i miei passi? Perché, se gli occhi abbracciano l’insieme del paesaggio, i piedi devono decidere in che direzione muoversi. E la mente regge lo straniamento solo a piccole dosi, in quegli attimi poetici che una servetta tracia non esiterebbe a deridere, vista la loro poca spendibilità pratica. Come posso evitare la paralisi, vista la divergenza dei due sentieri e l’impossibilità di decidermi per uno dei due? 
Qui non basta aver imboccato il sentiero ed essermi ritrovato in un paesaggio straniero. Se sono un turista, a questo punto non so più cosa fare. Il territorio che sto attraversando è impervio: occorre essere del luogo per sapersi muovere. Per poter procedere occorre abitare il mondo delle Scritture, non basta sfogliarle, catturarne delle immagini. O hai frequentato a lungo quel territorio e ne conosci l’insieme - gli anfratti, le soglie ma anche l’intero edificio - altrimenti sei destinato a perderti. È solo a partire dallo sguardo che afferra l’insieme che puoi cogliere il senso spaesante dei sentieri divergenti, dell’enigma che paralizza il cammino. 
Che vuol dire? Provo a esprimere quanto intravvedo in modo ancora oscuro, dichiarando in tal modo che anch’io, pur risiedendo in quel territorio, non sono ancora in grado di ottenere un regolare permesso di soggiorno. La domanda che consente di allargare lo sguardo fino a scorgere l’insieme del paesaggio è la seguente: dove conduce il sentiero della giustizia? E quello della misericordia? Prima, cioè, di imboccare una strada, occorre avere chiara la sua destinazione, gettando lo sguardo oltre la zolla su cui posa il piede. Dunque, non tanto sapere che cosa è giusto e che cosa no, ma chiedersi: a che cosa mira la giustizia biblica, che cosa ha a cuore la giustizia del Regno? E la misericordia? Ha a cuore qualcosa di differente o persegue la medesima meta, seppure in altra forma? 
Se allargo lo sguardo fino ad abbracciare l’intero mondo delle Scritture ebraico-cristiane, a colpo d’occhio mi sembra di intuire la passione che le abita, il tesoro per il quale Dio stesso è disposto a vendere tutto, giustizia e misericordia comprese. Entrambe, infatti, nel sogno di Dio sono destinate a generare la vita buona, a ristabilirla in un mondo che la rinnega, preferendo muoversi in destinazione contraria. E la vita buona non è un luogo del territorio ben definito, con tanto di sentiero segnato sulla mappa. Non è un “già dato” ma un “da farsi”. O meglio: un già dato che è da farsi: “facciamo l’essere umano”. Chi? Io, Dio, e voi, umani, insieme diamo forma alla vita buona. Operiamo ciò che è giusto - e il giusto non potrà essere semplicemente “a ciascuno il suo”, con tanto di prova della bilancia, tenuta in equilibrio da un soggetto imparziale, cieco! Perché se la destinazione della giustizia è la vita buona per tutte e tutti, allora non ci muoviamo più nell’ordine del calcolo e dell’esigibile, ma in quello della passione e della creatività. Ovvero nel medesimo ordine della misericordia che, com’è noto, muove verso la realtà sulla base di un legame viscerale, come una madre nei confronti di una figlia, di un figlio. 
Nel sogno di Dio non c’è il sentiero del giudice e quello della madre: vi è un unico sentiero, quello tracciato fin dalla fondazione del mondo perché i viventi abbiano vita e vita in abbondanza. Giustizia e misericordia sono mosse creative, non esecuzione di protocolli divergenti per governare l’esistente. E se sono tali, allora i sentieri differenti non solo confluiscono in un medesimo percorso, ma domandano di essere tracciati di volta in volta, senza la possibilità di seguire indicazioni di una qualunque mappatura, depositata negli uffici di chi deve garantire l’integrità e la salvaguardia del territorio. Qui e ora, in questa scena singolare in cui mi trovo, quali scelte di giustizia consentono di dare forma alla vita buona? E quali gesti di misericordia sono necessari per non disperare della possibilità che il sogno di Dio abbia luogo? 
Il camminatore abituato a procedere spedito, una volta individuata la meta e imboccato il sentiero, percepisce un certo disorientamento. È stato finora educato a ricercare un senso, una direzione da perseguire; e ora gli viene detto che il senso non c’è, ma che occorre costruirlo. Che non conta tanto stabilire che cos’è il bene, il giusto, quanto piuttosto cercare di fare il bene, promuovendo la giustizia in mezzo al dilagare del male. Il disorientamento si allarga: come posso fare il bene, se preliminarmente non ho stabilito cosa sia questo bene da ricercare? Domanda inevitabile. La narrazione biblica la raccoglie non senza un sorriso - partecipe della preoccupazione, non sarcastico. Sopra l’oggettivazione del giusto e dell’ingiusto, oltre la separazione tra il bene e il male, c’è quel Dio per il quale conta il volere il bene mentre si sperimenta il male. Certo che nel mondo delle Scritture troviamo una descrizione del bene e del male. Fin dalla prima pagina il bene prende forma nell’opera del Creatore; e il male, il non-bene, viene detto rispetto all’essere umano che rimane solo, privo di legami. Ma, a dispetto di un progetto etico che voglia mettere i paletti tra questi due opposti orizzonti, ecco che subito il Dio biblico pone l’interdetto a mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. Un interdetto che abbiamo misconosciuto, facendo della Bibbia un racconto etico, un libro moralistico, in cui conta sapere ciò che si può fare e ciò che è vietato compiere. E invece quel primo comandamento ha una funzione strategica nell’economia del testo. Non puoi presumere di mangiare, ovvero di fare tua la conoscenza del bene e del male, come se in tal modo potessi padroneggiare la scena storica o quella biografica. Come se, una volta assimilato ciò che è bene e ciò che è male, alla stregua di un notaio tu possa classificare l’esistente, prendendo nota e dichiarando che le cose stanno così. Anche perché le intricate vicende umane non si fanno comprendere in questo modo. Infatti, il senso di quel primo interdetto non sta nel timore che Dio avrebbe nel fronteggiare un’umanità consapevole. 
Questa interpretazione di stampo illuminista, che contrappone fede e ragione e che vede Dio come l’ostacolo al raggiungimento dell’età adulta, quando si ragiona con la propria testa e si prendono decisioni in proprio, non regge di fronte alla complessità della narrazione biblica, che necessita di interlocutori intelligenti. 
Il senso del comandamento lo intuiamo alla fine del racconto della Genesi, quando gli stessi termini - bene e male - compaiono sulla bocca di Giuseppe. 
Morto il padre Giacobbe, i fratelli temono che Giuseppe ora si vendichi del loro operato e vengono a chiedere pietà. A loro Giuseppe risponde: “Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso” (Genesi 50,19s). La storia mette sottosopra i nostri progetti orientati a fare del bene o compiere il male. C’è un’eterogenesi dei fini che fa saltare le nostre classificazioni etiche. Per questo conta custodire e coltivare il giardino della vita, più che tracciarne i confini. Giustizia e misericordia sono i tentativi divini, proposti all’umanità, per abitare la terra in modo tale che la vita possa fiorire, a dispetto delle infinite azioni che la soffocano, anche in nome della religione. 
Rimane, però, il disorientamento iniziale. Che riguarda in primo luogo il nostro “che fare”, dove volgere i nostri passi in un terreno privo di tracce chiare e distinte. Di fronte al male, alla mano che schiaffeggia e umilia, porgo l’altra guancia o cerco di fermare quel gesto che arreca il danno? Mi faccio guidare dalla giustizia o dalla misericordia? Una questione seria, che non potrò affrontare in astratto - non è questo il panorama che la Scrittura squaderna ai miei occhi. Solo in situazione, discernendo il bene possibile e il male evitabile. 
Il Maestro di Nazaret è stato chiaro al riguardo: dietro il suo invito paradossale a porgere l’altra guancia, a dare il mantello insieme alla tunica e a fare un miglio in più (cfr Matteo 5,38ss) non c’è l’esortazione alla resa, a subire passivamente l’esistente; piuttosto, quelle parole sono mosse dal tentativo di distinguere la semplice reazione dall’azione vera e propria. Come a dire: di fronte alla manifestazione del male, ti limiti a reagire, lasciando in questo modo all’avversario di stabilire l’ordine del giorno; oppure sei in grado di agire, spiazzando il tuo interlocutore, mostrandogli un altro modo di abitare la terra? Un’operazione che non può essere unicamente sulle spalle del singolo ma domanda una comunità che si faccia laboratorio creativo di ricerca della vita buona in un contesto violento. 
Lo spaesamento che sorge a proposito del nostro concreto “che fare”, i racconti biblici lo suscitano anche a proposito del volto di Dio. Commentando la parabola del servo a cui il signore condona un debito sproporzionato, incapace a sua volta di rimettere il piccolo debito di un altro servo (cfr Matteo 18,23-35), Pierangelo Sequeri si esprime con queste parole: “Il signore che ci era apparso incredibilmente disinvolto nei confronti della giustizia, prendendo la decisione di un condono immediato e radicale (che non ha riscontro nella Legge e neppure nella realtà), dopo il rimprovero rivolto al servo ci appare semplicemente come l’esecutore della giustizia già stata stabilita all’inizio: i debiti vanno onorati, lo schiavo verrà venduto. Però, mentre il signore, all’inizio, si limitava a recuperare il proprio credito vendendo ‘ragionevolmente’ la famiglia e i beni del servo, nel finale lo punisce ‘passionalmente’ consegnandolo ai torturatori. In tal modo, aggiunge un effetto persecutorio alla giustizia della punizione, anche a costo di rischiare il saldo del debito (un carcerato soggetto a vessazioni ha poche probabilità di impegnarsi nel fundraising). In certo modo, questo eccesso non è regolare neppure nella realtà... Dunque, puoi pensare semplicemente a ‘Dio’ in tutti i passaggi? Puoi affermare che l’eccesso del condono sia conforme a giustizia? Puoi affermare che l’eccesso della pena sia in contraddizione con la giustizia? Quale di questi ‘signori’ (ovvero, di questi atteggiamenti del signore del racconto, che non si lasciano facilmente unificare) è propriamente ‘il Signore’, ossia ‘Dio’? Come fa Dio? Dillo tu. Non sai tutto di Dio, non sei forse uno scriba che spiega al popolo, un sacerdote che giudica del giusto e dell’ingiusto dal punto di vista di Dio? Dillo tu ‘com’è’ Dio. 
L’interlocutore religiosamente colto di Gesù sa che non può negare la giustizia di Dio, che è perfettamente calcolabile a termini di Legge. Ma sa anche che non può negare l’arbitrarismo divino: al quale egli appende anche la misericordia, benché quella dottrina sia di fatto soprattutto l’evocazione dello stato di eccezione, che deve essere riconosciuto all’assoluta e imperscrutabile libertà di Dio, che non può essere confinata nei limiti della legge, e neppure nei criteri della giustizia umana. Messo ruvidamente di fronte a una situazione in cui Dio applica simultaneamente i due principi in cui egli lo riconosce, sarà prevedibilmente in difficoltà a stabilire che Dio applica la sua giustizia quando condona senza risarcimento un debito immenso. Lo sarà però anche a riguardo della necessità di stabilire se ci sia un eccesso nella punizione senza scampo che ora viene applicata per un debito che era stato condonato. L’enigma non è facile da sciogliere. Puoi fare perno sulla misericordia che revoca la giustizia, ma poi devi fare i conti con la giustizia che revoca la misericordia. Dunque, la soluzione non sta nell’alternativa. Se le separi si contraddicono, se le tieni unite si contraddicono. Se esci dalla parabola, e guardi a Gesù, puoi uscire anche dalla contraddizione”. 
Solo lo sguardo rivolto a Dio e al suo sogno di vita buona per tutte e tutti, quel Dio che l’uomo Gesù ci ha rivelato con la sua parola e la sua vita, ci può fare intuire qualcosa della paradossale sapienza biblica. Che non scioglie la contraddizione e dunque lascia aperto l’enigma, ma mostra la radice comune alla giustizia e alla misericordia, quella che abita il cuore di Dio e che ne fa il Dio-con-noi. Forse, una tale sapienza si può solo cantare, evocandola poeticamente, come chi attraversa l’esistenza con il sospetto che si potrebbe vivere diversamente, animati da una passione che né la giustizia né la mise- ricordia, da sole, possono esaurire.


Angelo Reginato 



Esodo n° 2 aprile-giugno 2025

Perdono,giustizia, riconciliazione

contributi di

Arcidiacono, Bachelet, Bolpin, Borraccetti, Cortella, Fattori, Maggi, Manicardi, Manziega, Noffke, Reginato, Rubini, Scrivanti, Ska, Stefani,Trabucco





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