Umberto Galimberti “Quale maturità se la scuola non educa più”
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20 giugno 2025
Se la scuola italiana istruisce, ma non educa, le ragioni sono in parte oggettive e in parte soggettive.
Si stanno svolgendo in Italia gli esami di maturità che dal 1997, con la riforma della scuola attuata
dal Ministro Luigi Berlinguer, oggi si chiama esame di Stato. In questo caso non si tratta solo di un
innocuo cambio del nome, ma di una precisa limitazione del compito della scuola alla sola
istruzione. Quel che resta fuori, e che invece la parola maturità comprendeva, è l’educazione.
Il cambio del nome è stato opportuno perché la scuola italiana istruisce, ma non educa. Dico questo
perché l’istruzione è una trasmissione di contenuti culturali e scientifici da chi li possiede (gli
insegnanti) a chi non li possiede (gli studenti); l’educazione invece accompagna gli studenti, in
quella stagione incerta che si chiama adolescenza, nel loro percorso di evoluzione psicologica, mai
così problematico e turbolento come in quell’età, dal momento che la razionalità entra in funzione a
pieno regime tra i 18 e i 20 anni quando giungono a piena “maturità” i lobi frontali.
Si è soliti pensare che l’educazione altro non sia che un derivato dell’istruzione. Ma le cose non
stanno così. È semmai l’istruzione un evento che può realizzarsi solo a educazione in corso, perché,
come diceva Platone, “la mente non si apre se prima non hai aperto il cuore”. Ma quanti sono gli
insegnanti che aprono il cuore? E quanti si limitano a svolgere i programmi ministeriali senza
nessuna empatia per i loro studenti?
L’educazione è essenziale perché, a differenza degli animali, gli uomini non hanno istinti, che sono
risposte rigide a uno stimolo, ma solo pulsioni a meta indeterminata, per cui, ad esempio, una
pulsione aggressiva può esprimersi nella violenza ma, se educata, può tradursi in una seria presa di
posizione.
La mancata educazione delle pulsioni confina i ragazzi a esprimersi solo con i gesti violenti, invece
che con le parole e i ragionamenti. È il caso dei bulli che compiono azioni riprovevoli senza la
minima consapevolezza della gravità delle loro azioni. Come si comporta la nostra scuola con i
bulli? Li sospende dalla frequenza scolastica, togliendo loro l’unica opportunità che in quegli anni
hanno per poter passare dal livello pulsionale a quello emotivo.
Con il termine emozione intendo, in questo contesto, la risonanza emotiva dei propri
comportamenti. Kant diceva che “la differenza tra il bene e il male potremmo anche non definirla
perché ciascuno la sente (fühlen) naturalmente da sé”. Oggi non è più vero che tutti i ragazzi
sentono la differenza tra parlare male di un professore, magari non in sua presenza, o prenderlo a
calci (adesso ci provano anche i genitori), tra corteggiare una ragazza o violentarla. Ne sono prova
le risposte che questi ragazzi danno ai magistrati che li interrogano: “Ma cosa abbiamo fatto?”. Non
hanno quell’immediata risonanza emotiva che di solito accompagna i nostri comportamenti.
I sentimenti non li abbiamo per natura, ma per cultura. I sentimenti si imparano. Fin dall’origine dei
tempi le prime comunità, attraverso narrazioni, miti e riti, insegnavano la differenza tra il puro e
l’impuro, tra il sacro e il profano, tra il totem e il tabù, in modo da orientare i membri della
comunità nei propri comportamenti. Gli antichi greci avevano rappresentato nell’Olimpo tutti i
sentimenti, le passioni e le virtù umane. Zeus era il potere, Atena l’intelligenza, Afrodite la
sessualità, Ares l’aggressività, Apollo la bellezza, Dioniso la follia.
Oggi non possiamo tornare ai miti, però abbiamo quel grande repertorio che è la letteratura, che ci
insegna cos’è il dolore in tutte le sue declinazioni, cos’è l’amore in tutte le sue manifestazioni, cos’è
la gioia, la tristezza, la noia, l’entusiasmo, la speranza, la disperazione, la malinconia, l’esaltazione.
E allora non riempiamo la scuola di computer (la digitalizzazione della scuola), ma di letteratura
che, ad esempio, in presenza del dolore, ci può indicare, se non le vie d’uscita, le modalità per
reggerlo.
Capiamo allora perché Eschilo, nel V secolo a.C., diceva: “Solo il sapere ha potenza sul dolore”.
Se la scuola italiana istruisce, ma non educa, le ragioni sono in parte oggettive e in parte soggettive.
Per educare è necessario comporre classi di 12 o al massimo 15 studenti. Se invece le classi sono di 30 studenti, allora si è deciso a priori che l’educazione non è prevista tra i compiti della scuola. In
una scuola dove lo scopo è il sapere e il profitto è il metro per misurarlo, a prescindere dalle
condizioni d’esistenza con cui le diverse vite degli studenti sono riuscite a esprimersi, per chi non
ce la fa non basta invocare la buona volontà.
Sono queste le ragioni che portano molti studenti all’abbandono scolastico, quando non spengono in
giovani vite la propria autostima, che è fondamentale per crescere ed evitare demotivazioni e
depressioni.
Ho saputo di un preside milanese che ha detto a una professoressa che aveva dato zero al compito di
uno studente: “Zero non è un voto, è un’umiliazione. Si può valutare l’insufficienza di un elaborato
anche con un quattro, invece con uno zero”.
Se nelle nostre scuole è prevista solo l’istruzione e non l’educazione trovo opportuno, ma anche
mortificante, che l’esame finale non si chiami più “maturità” bensì “esame di Stato conclusivo del
corso di studio di istruzione secondaria superiore”. È triste vero? Ma almeno questa dizione dice la
verità sulla nostra scuola.