Alessandro D’Avenia “Il giallo siamo noi. La nostra morbosa ossessione per i casi giudiziari.”
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2 giugno 2025
Vogliamo i gialli perché rimettono in sesto il mondo, riportano la casualità alla causalità. Ma siamo sicuri di volere verità/giustizia e non invece uno spettacolo morboso?
In questi giorni il Grande Detective popolare (parente dell'Allenatore, del Politico, del Fratello...) è ipnotizzato dalla riapertura di un caso giudiziario di 18 anni fa. Un'attenzione che corrisponde alla fame di un genere che ormai occupa massicciamente l'ingresso di ogni libreria o piattaforma.
Tutti vogliono gialli (in Italia si chiamano così perché nel 1929 - segno dei tempi - Mondadori usò quel colore sulle copertine di una nota collana di polizieschi). Il motivo lo spiega il geniale Friedrich Dürrenmatt nel 1958 in La promessa. Requiem per un romanzo giallo, in cui un comandante di polizia confida a uno scrittore di polizieschi: «Non ho mai avuto stima per i romanzi polizieschi, e mi rincresce che anche lei se ne occupi. Tempo sciupato... Da quando gli uomini politici deludono in misura tanto grave, la gente spera che almeno la polizia sappia mettere ordine nel mondo, benché io non possa immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa».
Il giallo è quel che resta della nostra fame di verità: il detective, martire laico, la scoprirà, permettendo che si faccia giustizia. Vogliamo i gialli perché rimettono in sesto il mondo, riportano la casualità alla causalità, e amiamo i detective perché, risolvendo «un» caso, eliminano «il» caso. Ma siamo sicuri di volere verità/giustizia e non invece uno spettacolo morboso e irrispettoso della dignità dei coinvolti?
Gialli sono i più grandi capolavori della narrazione umana. Il primo «caso» della letteratura è su un frutto mangiato (Genesi). Lo si chiama «caduta», che è proprio il significato della parola «casus» in latino, da cui l'italiano «caso». In ogni «caso» c'è l'eco di quella «caduta» originaria. Lì il giallo è presto risolto da Dio che però conduce un'indagine sull'uomo: «Dove sei?» gli chiede, cioè a che punto sei di te stesso, che fine hai fatto, che cosa hai compreso di te dopo tutto questo? Fuggire la verità crea una frattura tra noi e noi stessi, tra noi e il mondo. Questa frattura è l'uscita dall'eden.
Anche la più grande tragedia greca, l'Edipo di Sofocle, è un giallo. Il protagonista è il detective che risolve un caso in cui lui stesso, senza saperlo, è il colpevole. Questa è la variante greca della caduta: l'uomo è colpevole ma anche innocente, è la vita a essere un mistero, come la verità (ispirandosi al mito Dürrenmatt ha scritto l'ironico La morte della Pizia e il magistrale La panne).
Qualche secolo dopo tocca ad Amleto: «Il mondo è fuori di sesto e che noia doverlo sistemare», detective suo malgrado deve scovare il colpevole dell'assassinio del padre. Un'indagine in cui il detective soccombe insieme ai colpevoli.
Poi è la volta di Dostoevskij che racconta, nella struttura di un poliziesco, che la vera pena di un delitto è averlo commesso, perché, per quanto si lotti per auto-assolversi, la menzogna ci autodistrugge (il nome del protagonista di Delitto e Castigo, Raskol'nikov, significa «diviso», «spezzato»). Anche qui il colpevole è noto da subito e il caso si risolve quando confessa volontariamente: solo la verità rende liberi, anche se si va in carcere, come succede a Raskol'nikov. È questa la complessità del reale che il poliziotto di Dürrenmatt non trova nei gialli contemporanei: «Quel che mi irrita di più nei vostri romanzi è l'intreccio. Qui l'inganno diventa spudorato. Voi costruite le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in bestia. Con la logica ci si accosta soltanto parzialmente alla verità».
La verità che proprio i gialli finiscono per nascondere perché: «Nei vostri romanzi il caso non ha alcuna parte, e se qualcosa ha l'aspetto del caso, ecco che diventa destino e concatenazione; da sempre voi scrittori la verità la date in pasto alle regole drammatiche. Mandate al diavolo una buona volta queste regole. Un fatto non può "tornare" come torna un conto... Questo universo può essere perfetto, possibile, ma è una menzogna. Mandate alla malora la perfezione se volete procedere verso le cose, verso la realtà, come si addice a degli uomini, altrimenti statevene tranquilli, e occupatevi di inutili esercizi di stile».
Ci possono allora essere detective più o meno logici o intuitivi, da Holmes a Montalbano, ma nelle pagine dei giallisti alla fine il mondo torna in ordine. Questo ci soddisfa come un cruciverba, ma può illuderci, perché là fuori, come mostra la cronaca, impronte, dna, resti, tracce, prove non bastano mai, perché la vita non è un intreccio che si può sciogliere sempre, ma una matassa a volte inestricabile. I gialli fanno il loro dovere, perché le storie servono a questo, a tenere a bada l'ignoto: portare tutto a chiarezza, la vita come dovrebbe essere.
Se i casi non si risolvessero chi leggerebbe gialli? Non esisterebbero neanche. Ma là fuori non va così, come mostra Yasmina Reza, scrittrice francese, che da 15 anni va nei tribunali a seguire vicende di ogni tipo. Ne ha tratto La vita normale, una galleria di casi anche efferati alternati a episodi della sua vita quotidiana che mostrano che a essere a processo è la vita stessa con la sua imperfezione: «Per me il tribunale è un luogo di osservazione come un altro, come la strada, o la mia camera da letto», dice la scrittrice, perché «colui che crediamo altro da noi non lo è». Imputati, vittime, testimoni potremmo essere e siamo noi.
Per questo, per quanto l'attenzione mediatica ai casi mi solletichi e mi coinvolga, trovo inaccettabile la mancanza di professionalità (silenzio, discrezione, rispetto della dignità dei coinvolti) da parte dei professionisti dell'inchiesta che ci trasforma in tifosi la cui fame di vittoria viene manipolata da quelli dell'audience, distruggendo reputazioni e intorbidando le acque invece di rischiararle. E se verità/giustizia sarà fatta a noi non importerà più delle vite di vittime e colpevoli, come non ce n'è importato per 18 anni.
Aspetteremo un altro caso, un altro spettacolo. Nell'attesa leggeremo o guarderemo un giallo.
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