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Paolo Crepet «Non conosciamo chi ci vive accanto. La violenza come linguaggio aumentata con i social»

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Intervista allo psichiatra e sociologo Paolo Crepet sul delitto avvenuto in Salento dove Filippo Manni, 21 anni, martedì pomeriggio ha ucciso la madre Teresa Sommario a colpi d’ascia: «Che nessuno sappia niente di nessuno è un grave problema che denuncio da anni. La scuola non è più un’agenzia educativa utile a capire chi sono i nostri ragazzi e ragazze i quali non riescono a sopportare nessuna frustrazione. Giusto vietare il cellulare in classe, i no per educare sono più importanti dei sì»​.

Un movente banale che innesca una violenza terribile che si scatena all’improvviso. Filippo Manni, 21 anni, ha confessato di aver ucciso la madre, Teresa Sommario, colpendola martedì pomeriggio con un’accetta nella loro abitazione di Racale (Lecce) perché lo aveva rimproverato per essere rientrato senza salutare. «A un certo punto mi si è spento tutto. Sono salito al piano di sopra, ho preso l'accetta e l'ho uccisa», ha dichiarato davanti al magistrato e al suo legale, «altre volte per scherzo l'ho pensato dicendole che l'avrei uccisa e alla fine l'ho fatto». 

Paolo Crepet, psichiatra, sociologo e autore di diversi best-seller, in libreria da poco con Il reato di pensare – Oltre il conformismo, esercizi di libertà (Mondadori), è tranchant sull’efferato delitto avvenuto nel Salento: «Non conosco i dettagli ma noi partiamo sempre dal presupposto, positivo, che conosciamo chi ci sta accanto e invece, oggi più che mai, nessuno sa più niente degli altri, come diceva già Flaubert, e che nessuno sappia niente di nessuno è un gravissimo problema, e lo dico da anni ormai». 

Professore, anche in questo caso i pareri di conoscenti, vicini di casa e amici raccontano di un ragazzo tranquillo e senza particolari avvisaglie. 
«Diciamo che il vicino di casa non è la migliore fonte che un giornalista possa avere. Se pensiamo che una persona possa essere classificata come “bravo ragazzo” o senza particolari tormenti o malesseri perché la incrociamo sul pianerottolo e ci dice “buongiorno” o ci scrive su WhatsApp o sui social siamo proprio fuori strada. Allora il cattivo ragazzo chi sarebbe, quello che è esce con la pistola in tasca? Dietro a questi delitti c’è un tracollo generale». 

Di chi? 
«La scuola, ad esempio, non esiste più. Oggi inizia l’esame di Maturità ma io sfido qualsiasi insegnante a dire se Giacomo o Camilla siano maturi o no. Maturi per che cosa? Perché sanno scrivere venti righe su una traccia proposta? Ma questa è maturità? Purtroppo, la scuola non è più un’agenzia educativa utile a capire chi sono i ragazzi e le ragazze e secondo me è un problema enorme. Lo penso da trent’anni, ci ho scritto una quarantina di libri ma non so quanta contezza ci sia su questo punto». 

In questo caso, alla base dell’omicidio, ci sarebbero dei dissidi tra madre e figlio sul percorso universitario di quest’ultimo che voleva studiare musica dopo l’esperienza a Roma alla Sapienza. 
«Probabile che alla base ci sia un sogno frustrato, come quello di fare musica. Quello che noi riusciamo a vedere, non dico a capire, ma a vedere è la goccia che fa traboccare il vaso, non il resto. Una cosa è certa e che vedo tutti i giorni e va al di là di questo caso di cronaca: c’è una totale incapacità da parte dei ragazzi di tollerare la frustrazione, un’incapacità che non porta sempre all’omicidio, altrimenti sarebbe un’ecatombe, ma porta a non tollerare nulla: l’esame andato male, l’appuntamento mancato, lo smartphone che s’inceppa, gli amici che non ti hanno avvisato per uscire, il brutto voto a scuola, un rimprovero sul posto di lavoro. Perché questi ragazzi sono stati tirati su con un miliardo di sì e imbottiti con qualsiasi forma di benessere, non solo materiale. Se uno a 13 anni va a fare la festa e vuole che ci sia la birra, qualcuno deve dirgli no, la birra no. Ma se non glielo dice nessuno, lui pensa di essere figo e invece è solo un cretino, perché quel no serve a lui e alla sua crescita. Ma quanti libri bisognerà scrivere perché la gente capisca questo?». 

L’ascia utilizzata dal ragazzo per uccidere la madre era un attrezzo che apparteneva alla sua precedente esperienza da scout. 
«Lo scoutismo è un’esperienza educativa molto importante ma non vuol dire nulla perché alcuni imparano e altri no, alcuni vogliono imparare e altri no. La crescita è un processo molto delicato e individuale per cui non si possono trarre osservazioni generali. La prevenzione di un atto efferato è difficile anche se ci sono delle strade che bisogna tentare, a patto di avere il coraggio di farlo». 

Quali? 
«Dire dei no perché i no aiutano a crescere ma i no, per chi li dice, sono faticosi, pesano, sono un ingombro e molti vogliono risparmiarsi questa fatica e non vogliono fare gli educatori dei propri figli ma gli amici. Siccome, però, non si possono fare leggi che dicano ai genitori come comportarsi, credo che il divieto di cellulare a scuola voluto dal ministro dell’Istruzione per il prossimo anno scolastico sia una scelta saggia perché ci sono fior di studi scientifici che dimostrano che sono fonte di ansia, di stress, di disturbi e non permettono uno sviluppo armonico delle proprie relazioni affettive. E aiutare una persona a crescere in maniera armonica non significa prevenire i delitti familiari ma aiuta. È come dire: faccio allenare una persona a sviluppare i propri muscoli ma questo non vuol dire che vincerà i 200 metri». 

La violenza di questo delitto non la colpisce? 
«Ci sono due riflessioni da fare: la violenza c’è sempre stata come ci ricorda il film capolavoro del 1960 di Luchino Visconti, Rocco e i suoi fratelli, dove uno dei ragazzi, ventenne, ammazza la moglie. La violenza è sempre stata un linguaggio. L’altra cosa che bisognerebbe aggiungere è che con le tecnologie digitali e l’avvento dei social la violenza come linguaggio e modo di comunicare si è rafforzata, è diventata più pervasiva, talvolta quasi un gioco: io non sono d’accordo con te e ti ammazzo o ti faccio del male, anche moralmente, che è una forma di violenza anche quella. Ecco perché vietare il cellulare in classe è una scelta importante ancorché non risolutiva».

a cura di Antonio Sanfrancesco


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