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Il dibattito sul fine vita: Vito Mancuso e Carlo Casalone

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Il dibattito sul fine vita in Italia è un tema complesso e controverso che coinvolge questioni etiche, giuridiche e sociali. Si concentra principalmente sull'eutanasia e il suicidio assistito, e sul diritto all'autodeterminazione del paziente in situazioni di fine vita. Attualmente, in Italia, non esiste una legge specifica che regoli l'eutanasia, mentre il suicidio assistito è stato oggetto di sentenze della Corte Costituzionale che ne hanno circoscritto la non punibilità in determinate condizioni. 

Perché sul fine vita la dignità è scegliere 
La Stampa 15 giugno 2025 

La questione del fine vita si determina considerando con onestà intellettuale "il fine" della vita. È cioè il fine, inteso come scopo, a disciplinare la fine, intesa come cessazione, quando si tratta della vita. E qual è il fine della vita? Lo chiedo ai politici che devono dare finalmente una legge a questo Paese che l'attende da anni: ministri, onorevoli, senatori qual è, secondo voi, il fine della vita? Perché siamo qui? Perché la natura ci ha generati, nell'attesa prima o poi di degenerarci? 

Quando si tratta della questione più importante di tutte che è il senso o il non-senso, e quale senso e quale non-senso, del nostro essere qui, ci ritroviamo così diversi tra noi, persino all'interno della propria famiglia. Il vostro compito, però, è di dare una legge ai cittadini italiani in modo che essa possa essere davvero la legge di tutti, in modo che davvero cioè, come stabilisce una delle tre massime fondamentali del diritto romano, a ciascuno sia concesso ciò che gli spetta: «Unicuique suum», «A ognuno il suo». 

Occorre quindi che voi stabiliate un senso della vita che possa essere accettato da tutti per giungere a pensare una legge sulla fine della vita che allo stesso modo possa essere la legge di tutti, nella quale cioè tutti i cittadini italiani possano riconoscere l'equa volontà dello Stato di dare a ognuno "il suo", cioè di trattarlo nell'ultimo decisivo momento della sua esistenza in modo conforme al suo credo, ai suoi valori, alla sua dignità, alla sua condizione. Torno quindi a porre la questione: qual è, secondo voi, il fine della vita? 

Guardandola quale ogni giorno si dispiega davanti agli occhi di tutti noi, io penso che non sia possibile individuare nella vita una logica univoca che si impone necessariamente a tutti e che poi possa costituire la base dell'etica e del diritto. Basta infatti porre questa domanda per renderci conto della nostra incapacità: è giusta la vita? Lo chiedo a voi che detenete il potere e che siete chiamati a dare una legge sul fine-vita a questo nostro Paese: è giusta la vita verso i viventi? Oppure è ingiusta, e persino tirannica? Oppure a volte è giusta e a volte no, con il risultato di essere arbitraria, caotica, capricciosa, e quindi di non contenere nessun punto fermo in base a cui costruire una norma del nostro comportamento verso di essa? 

È stata giusta la vita verso Daniele Pieroni che dal 2008 soffriva del morbo di Parkinson e che grazie alla legge della regione Toscana ha potuto scegliere di smettere di soffrire? E se la vita non è sempre giusta verso i viventi, perché tutti i viventi dovrebbero "sempre" esserlo verso di lei? Se la vita talora non li rispetta, perché i viventi dovrebbero essere tenuti "sempre" a rispettarla? Qui entrano in gioco le nostre visioni del mondo. Per alcuni le sofferenze che provengono dalla vita non costituiscono in nessun modo un motivo per andarsene da essa, ma, esattamente al contrario, invitano a rimanervi e ad accettarle in quanto occasione di purificazione, di espiazione, di sacrificio per il bene di altri. Sono sentimenti nobilissimi, e se qualcuno pensasse che lo Stato non si può permettere di investire risorse e posti letto negli ospedali per permettere a chi lo desidera di vivere la propria fine in questo modo, sarebbe completamente da condannare in quanto irrispettoso della libertà altrui. Lo stesso, però, vale per chi volesse costringere a questa accettazione della sofferenza anche coloro che hanno una visione del mondo e di se stessi completamente diversa, tale da non rintracciare nelle sofferenze nessun disegno e nessuno scopo. 

Voi cosa ne pensate, senatori e onorevoli? Quale idea avete della sofferenza e del suo senso? Cosa fareste se dovesse capitare a voi di vivere per anni in condizioni sempre più disabilitanti, fino a dipendere totalmente dagli altri e dalle macchine? Vorreste avere la possibilità di scegliere se dire «ancora» e quella contraria ma complementare di dire «basta»? Io sono giunto alla conclusione che una cosa si imponga: il rispetto della visione altrui. Vi sono infatti mille elementi per negare un senso alla vita, e mille altri per riconoscerlo. Anche la Bibbia presenta elementi in una direzione e nell'altra. 

Scrive un libro biblico a proposito degli esseri umani: «Essi di per sé sono bestie, infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c'è un soffio vitale per tutti» (Qoelet 3,18-19). Scrive un altro libro biblico sempre a proposito degli esseri umani: «Dio li rivestì di una forza pari alla sua e a sua immagine li formò. In ogni vivente infuse il timore dell'uomo perché dominasse sulle bestie e sugli uccelli… Pose davanti a loro la scienza e diede loro in eredità la legge della vita» (Siracide 17,3-4 e 11). Qui al contrario la differenza tra gli esseri umani e gli altri viventi è immensa e consiste nel fatto che gli esseri umani hanno ricevuto in eredità «la legge della vita». Quale? La libertà. È infatti sulla base della libertà che lo stesso autore biblico, che si chiamava Gesù ben Sira e che visse circa due secoli prima di Gesù, giunge a dichiarare poco dopo: «Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica» (Siracide 30,17). 

Sempre stando alla Bibbia, in essa non c'è mai una condanna del suicidio. In diversi luoghi si narrano casi di suicidio, ma mai il testo sacro prende una netta posizione di condanna, neppure nel caso di Giuda. L'hanno osservato nel Novecento i maggiori teologi contemporanei, tra cui Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Hans Küng. Scrive Barth: «Il suicidio non viene mai esplicitamente vietato nella Bibbia», il che, aggiunge, è «un fatto veramente seccante per tutti quelli che volessero comprenderla e servirsene in senso morale!». Anzi un suicida, per l'esattezza Sansone, viene perfino ricordato dal Nuovo Testamento tra i padri della fede. Nel discorso della montagna Gesù disse: «Non giudicare». Se c'è una situazione nella quale hanno senso queste sagge parole, questa riguarda il momento in cui un essere umano sceglie di porre fine alla sua vita. Tra i grandi filosofi vi è chi condanna il suicidio (Platone, Aristotele, Kant, Hegel) e chi no (Epicuro, Seneca, Montaigne, Nietzsche). Dopo aver dedicato la vita a studiare la natura per afferrarne la logica, Darwin giunse a scrivere in una lettera a Hooker del 1870: «Non posso guardare all'universo come al risultato di un cieco caso. Tuttavia non posso vedere nessuna prova di un disegno benevolo». Ecco, ancora una volta, il principio-contraddizione: né caso né disegno, ovvero un po' l'uno e un po' altro, ovvero ancora una volta la libertà che ci spinge a pensare e poi a scegliere. 

Il fine della vita è la base su cui legiferare degnamente a proposito del fine-vita e l'unico fine che appare dal contrasto tra le diverse prospettive è la libertà. La mancanza di un fine univoco che si imponga a tutti i viventi con la medesima chiarezza indica che il fine principale per il quale ognuno di noi è al mondo è l'esercizio responsabile della propria libertà. Il che significa autodeterminazione. A maggior ragione quando si tratta della propria esistenza. 

Il senso dell'esistenza umana consiste in un continuo esercizio della libertà. E in questa prospettiva ricordo a voi parlamentari le seguenti parole del cardinal Martini: «È importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all'uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona… La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto». Qual è invece il valore supremo e assoluto? È la dignità della vita che si compie come libertà di poter decidere di sé. Vi prego, quindi: agite in coscienza e date a tutti i cittadini italiani una legge che rispetti la loro libertà. 


«Nel dibattito sul fine vita non si considera che spesso si ha paura più della solitudine che della morte» 

Il gesuita Carlo Casalone della Pontificia Accademia per la Vita riflette, a partire dalla vicenda di Pieroni, lo scrittore che ha messo fine alla sua vita, sulle condizioni di chi richede il suicidio o l'eutanasia. 

Annachiara Valle 
14 giugno 2025 

Un tema che tocca le corde più sensibili di ciascuno. Il fine vita interessa tutti, ma per chi è affetto da una malattia altamente invalidante o dolorosa pone qualche interrogativo in più. In assenza di una legislazione specifica ci si rifà alla sentenza della Corte Costituzionale del 2019. Abbiamo chiesto a padre Carlo Casalone, della Pontificia accademia per la Vita una riflessione a partire proprio da lì. «La sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019», spiega il gesuita, «ha introdotto un cambiamento di forte impatto nel nostro Paese. Da una parte, riafferma che istigazione e aiuto al sui­cidio rimangono reati, per proteggere giuridica­mente il bene della vita soprattutto in condizioni di fragilità; dall’altra, riconosce che l’evoluzione della medicina ha trasformato profondamente le circostanze in cui avviene la morte. Identifica pertanto quattro note condizioni di non pu­nibilità per chi agevola l’esecuzione del suicidio di una persona che: dipende da trattamenti di sostegno vitale, è affetta da una patologia irreversibile, denuncia sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili ed è capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La sentenza chiede poi al Parlamento di intervenire con una legge, a cui però non si ancora arrivati. Da qui l’iniziativa di varie Regioni, fra cui la Toscana, prima a declinare normativamente la Sentenza 242. Di tale legge si è avvalso Daniele Pieroni. 

Una maggiore diffusione delle cure palliative può essere una risposta alla sofferenza? 
«Si, la medicina palliativa si rivolge alle persone gravemente ammalate, per trattare i sintomi e preservare la migliore qualità di vita, alleviando dolore e sofferenza. Si interessa anche degli aspetti relazionali, rivolgendosi pure alle famiglie. Il processo del morire viene inteso come un even­to da accompagnare, senza accelerarlo né ritardarlo con ostinazione irragionevole. Una modulazione dei trattamenti guidato dal criterio di proporzionalità, che permette di valutare quando impiegarli e quando sospenderli, come anche la Chiesa ha sempre sostenuto». 

Ma non tutti vi hanno accesso. 
«Sarebbe saggio, prima di ogni altra decisione sul fine-vita, rendere effettivamente disponibili le cure palliative, che non sono accessibili in modo omogeneo sul territorio nazionale, come peraltro richiede la legge 38/2010. Lo stesso dibattito pubblico ne trarrebbe vantaggio, perché sarebbe più chiaro che per togliere la sofferenza non occorre togliere la vita. Sarebbe facilitato quel confronto più pacato e approfondito che giustamente auspica il cardinale Lojudice. Tuttavia, non tutti trovano risposta adeguata nelle cure palliative, in particolare chi percepisce la propria sofferenza come non riducibile in termini medici e chi chiede di avere controllo sulla propria morte, determinandone tempi e modi. Qui emerge una diversità nelle visioni della vita e della morte presente nella nostra società». 

In che direzione dovrebbe andare la legislazione? 
«Premettiamo che il togliersi la vita è una pratica ritenuta illecita nella tradizione della teologia morale della Chiesa, per una molteplicità di validi motivi. Rimane però la domanda se, in una società democratica e pluralista, possano ammettersi mediazioni sul piano giuridico, in cui anche come credenti siamo chiamati a fornire il nostro contributo alla ricerca del bene comune che la legge intende promuovere. Precisiamo che qui si tratta di assistenza al suicidio e non di eutanasia. La distinzione è delicata e non priva di zone grige. Ma un conto è l’autosomministrazione di un farmaco letale, altro conto è chiedere a un terzo di procurarmi la morte. Nel primo caso è in gioco la disponibilità della propria vita, magari in modi diversi da quelli che io considero plausibili, nel secondo è in gioco la violazione della vita altrui. In questa prospettiva, la sentenza 242 potrebbe rappresentare un punto di equilibrio fra diverse visioni e sensibilità etiche». 

Come accompagnare le persone che vedono nel suicidio l’unica risposta alla loro condizione? 
«La prestigiosa rivista medica Lancet ha recentemente istituito una commissione sul “valore della morte”, che ha mostrato come i pazienti che richiedono il suicidio (o l’eutanasia) hanno paura non tanto dei sintomi, ma della solitudine, di essere un peso, di non contare per nessuno. Quindi la risposta a chi vuole “farla finita” è un compito che riguarda la qualità delle relazioni, anche nell’intero corpo sociale. In tutta la storia delle culture il significato della vita, soprattutto quando è messo alla prova dalla sofferenza e dalle crisi di senso, è frutto di una ricerca condivisa in molteplici forme, artistiche, letterarie, religiose, non riducibile e non delegabile alla sola pratica medica». 


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