Massimo Recalcati "L’incubo della prova"
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18 giugno 2025
La febbrile attesa della vigilia, il sonno agitato, l’angoscia di prestazione, l’attesa
opprimente dei genitori, il volto severo dei commissari, la ripetizione dei programmi a
voce alta recitata come un mantra, le fantasie di annebbiamenti e smarrimenti
clamorosi durante il colloquio, la sfrontatezza temeraria del bluff o la memorizzazione
disciplinata e compulsiva, il calcolo ansioso dei giorni, la liberazione finale. L’esame
di maturità e il suo corteo di ricordi continua a riapparire per molti nei sogni, spesso
nella forma dell’incubo. Esso tende a diventare la matrice di tutte le prove, di tutte le
verifiche, di tutti i giudizi, assumendo l’aura epica dell’esame degli esami. L’esame di
maturità ha delle gambe e ci insegue. Perché avviene? Perché è un uscio che si apre su
di una terra ignota, perché sancisce la fine del mondo del figlio-studente e l’inizio del
tempo delle scelte che faranno il nostro destino.
Il problema è che questa apertura non è mai automatica: esige una prova soggettiva.
Dobbiamo prendere la parola in prima persona di fronte all’Altro. Si tratta di prendere
la parola in prima persona di fronte a un Altro che esprimerà su di noi un giudizio
definitivo immodificabile. In numeri che si scolpiranno nei nostri curriculum vitae e
nella nostra memoria. In questo esame si è tenuti a parlare rompendo lo specchio
dell’uno a uno a cui si era abituati nelle verifiche in classe. Si parla per la prima volta
a una Commissione in una sessione aperta al pubblico. Si prende la parola
pubblicamente.
Ecco la prova più difficile: sono davvero autorizzato (e da chi?) a parlare a mio nome?
Sappiamo come i bambini nelle scuole si prodighino per compiacere (o deludere) le
attese dei loro genitori e delle loro maestre. Non parlano mai in prima persona, non
parlano per sostenere un proprio discorso, ma innanzitutto per rispondere al discorso
dell’Altro. Con l’avvento dell’adolescenza questo schema si rompe clamorosamente
perché la giovinezza separa il soggetto dal recinto familiare e lo spalanca al mondo. La
mia soddisfazione non coincide più con quella dell’Altro, ma esige una sua misura
singolare. Nell’esame di maturità si conclude allora un primo tempo della formazione:
la certezza della terra dell’infanzia finisce e inizia l’instabilità avventurosa del mare.
Gli psicoanalisti conoscono bene l’importanza talvolta drammatica di questo
passaggio. Lacan lo ha teorizzato con rigore: ogni qualvolta il soggetto è chiamato a
rispondere con la propria parola a un appello simbolico dell’Altro — accade anche con
la chiamata alle armi, con un matrimonio, con il parto, con una nomina
professionalmente rilevante — c’è sempre il rischio di cadere, di frantumarsi come
avviene nel caso delle scompensazioni psicotiche. Il soggetto chiamato a parlare in
prima persona non sopporta il peso della prova e crolla. Ecco perché tutti coloro che
non sono crollati, restano tuttavia sempre un po’ legati a quella esperienza
riproducendola nei propri sogni.
Questo significa che in ogni prova c’è sempre il rischio del crollo, come dell’ebbrezza
della libertà. Senza l’appoggio dell’Altro la nostra parola è, insieme, una esperienza di
angoscia e di libertà. Questa è la vera posta in gioco dell’esame degli esami. La prova
non consiste nel parlare di fronte a una commissione, ma nel fare esperienza che
nessuno può sostituirci, che, nel momento in cui ci assumiamo la responsabilità della
parola, nessuno potrà prendere il nostro posto.
Ricordo il volto disorientato di un’allieva che, chiamata alla cattedra dalla
commissione per sostenere il colloquio d’esame, volse il suo sguardo all’amica del
cuore chiedendole teneramente: «Vieni anche tu?». Impossibile: la prova della maturità
ci separa dai nostri appoggi abituali e ci espone al rischio del fallimento. Nessuno può
parlare al nostro posto, nessuno può venire al nostro fianco a tenerci la mano. Ecco
un’altra verità palesarsi: non siamo forse tutti sempre insufficienti, impreparati,
immaturi, per affrontare la prova della vita? Com’è possibile allora farcela, “passare”,
essere promossi, superare l’esame? Ogni volta che nei nostri sogni ripetiamo l’angoscia
della “maturità” ritorniamo su questa insufficienza, sull’impossibilità di superare una
volta per sempre, definitivamente, la prova della vita. Niente e nessuno potrà mai
garantire l’esito della mia parola. Riuscirò a dire quello che so, sarò convincente,
credibile, capace di trasmettere qualcosa della mia vita? Non esiste alcuna
commissione in grado di giudicare la nostra maturità. Perché se davvero esistesse
saremmo in realtà tutti più tranquilli e meno angosciati. La vera angoscia è sempre nei
confronti della nostra libertà e del nostro desiderio.
È l’inesistenza di questa commissione, non la sua esistenza, che ci angoscia
profondamente e che ci sospinge ogni volta a farla esistere nuovamente nei nostri
incubi! Il mistero più profondo di ogni processo e di ogni giudizio — come ha mostrato
in modo insuperabile Kafka — è che non esiste alcun tribunale in grado di assolverci
o condannarci. È per questo che gli esseri umani non cessano di proiettare in cielo e in
terra tribunali di ogni genere capaci di emettere un verdetto definitivo sul senso della
loro esistenza. Anche il timore (anti-cristiano) di Dio sorge da questa proiezione.
Eppure questo timore — come il timore di ogni giudizio emesso dall’Altro — è in
realtà un rifugio di fronte alla ben più cruda e difficile constatazione che siamo, come
diceva Sartre, «soli e senza scuse».
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