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Massimo Recalcati "La vera eredità dei maestri"

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 17 giugno 2025 

La nostra provenienza non può essere mai cancellata, che nessuno può dare forma alla propria vita senza passare dall’incontro con l’altro.

Basta coi maestri!” è uno slogan che risale alla grande contestazione studentesca del ’68 e che sembra ridondare all’unisono con un altro a esso omologo: “Basta coi padri!”. 
Il loro contenuto ideologico implicito è che ogni autentica formazione debba essere innanzitutto una auto-formazione: nessuna provenienza, nessuna dipendenza, nessun debito simbolico. Piuttosto, si tratta di farsi da se stessi il proprio nome. Il principio liberista del self made man si fonda così con quello anarcoide di una libertà senza vincoli. Ma l’illusione dell’auto-formazione agli occhi della psicoanalisi risulta essere sempre al suo fondo perversa, perché afferma una autonomia del soggetto che vorrebbe prescindere completamente da ogni legame. Diversamente, ogni processo di formazione si snoda passando necessariamente dalla mediazione dell’altro. È una tesi ribadita da Lacan: per potere fare a meno della dipendenza dall’altro bisogna riconoscerla e saperne fare un uso positivo. Ogni formazione è, in questo senso, sempre una etero-formazione. L’esperienza della Scuola, nonostante la sua tendenza contemporanea alla tecnologizzazione e alla digitalizzazione, conferma l’evidenza di questa verità: non esiste didattica senza rapporto del soggetto con l’altro. Ma quale altro? Un maestro-educatore che avanza la pretesa di conoscere il bene o la giusta via per i suoi allievi? Un maestro-padrone, proprietario di un sapere oggettivo e codificato una volta per tutte? In questo caso il maestro (educatore o padrone), nella sua esemplarità idealizzata o nel suo esercizio di padronanza, prolungherebbe fatalmente una dipendenza che consegnerebbe l’allievo a una condizione di minorità cronica. Ma l’incontro necessario con la persona e il sapere del maestro non implica affatto la sua idealizzazione. Il maestro non è tenuto affatto a incarnare un sapere senza mancanza, compatto, esemplare appunto, ma a offrirsi esso stesso proprio nella sua mancanza, testimoniando in prima persona che non si può mai sapere tutto il sapere. Al contrario, i maestri che si pongono come esemplari diventano invece, come accade fatalmente anche per i genitori che compiono lo stesso errore coi loro figli, degli incubi atroci per i loro allievi. 

In quanto ideali inarrivabili generano solo paura e inibizione. In questo senso un maestro lavora sempre contro se stesso e contro i processi di idealizzazione che inevitabilmente tendono a investirlo. Per questo la vera eredità di un maestro non consiste mai nella monumentalizzazione idolatrica del suo insegnamento, ma in un resto che resiste, in un piccolo tratto, in qualcosa che non possiamo dimenticare perché ha lasciato in noi un segno indelebile. Insegnamento porta, infatti, nel suo etimo proprio l’esperienza di un segno che resta, che non viene cancellato: colui che insegna è colui che ha saputo lasciare un segno. Per esempio, quello di una semplice polvere di gesso. 
È ciò che mi ha raccontato una volta un professore liceale, insegnante di fisica, che aveva individuato la nascita della sua passione per gli studi scientifici dall’impressione che gli avevano lasciato le lezioni del suo vecchio professore di fisica, talmente immerso nelle sue spiegazioni alla lavagna da uscire ogni volta dall’aula ricoperto di gesso bianco. Ma di cosa faceva segno quella polvere di gesso che residuava sulla giacca del vecchio professore? Non certo di un sapere anonimo e oggettivamente compiuto, quanto piuttosto di una materializzazione del desiderio singolare del maestro stesso, della sua più profonda vocazione. Quando il giovane professore si accorse che accadeva lo stesso ogni volta che terminava le sue lezioni, comprese che in quella polvere di gesso c’era tutto ciò che aveva ereditato dal suo maestro. Ecco un semplice esempio di come avviene la trasmissione del desiderio di sapere da una generazione all’altra. Ecco un esempio di cosa dovrebbe essere la vita della scuola. Più che la trasmissione di un sapere consolidato, in gioco è un resto che diviene la traccia indelebile del desiderio vivo di sapere proprio del maestro: la polvere di gesso che prima era sulla giacca del vecchio professore si ritrova adesso su quella del suo allievo. 
Si tratta di un esempio luminoso del movimento più proprio dell’ereditare. Ogni vera eredità è, infatti, costituita di quasi niente. Non di beni, geni, proprietà o rendite. Non si eredita, infatti, proprio niente se non l’atto stesso che ci costituisce come eredi. 

Come accade anche a Philip Roth in Patrimonio: quello che resta del padre è la sua merda, il resto umanissimo e incancellabile della sua presenza al mondo. È quel resto carbonizzato che, come sostiene il profeta Isaia, è compito dei veri eredi riuscire a trasformare in un “seme santo”. L’ironia benevola che il vecchio professore provocava nei suoi studenti quando usciva dall’aula imbiancato dalla polvere del gesso è la stessa che il giovane professore provoca adesso al termine delle sue lezioni. Qualcosa si ripete in una differenza. È questo lo scarto e il resto che qualificano ogni eredità e che, come tale, ci ricordano che la nostra provenienza non può essere mai cancellata, che nessuno può dare forma alla propria vita senza passare dall’incontro con l’altro, che nessuno può pretendere di farsi un nome da se stesso. 



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