Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi: La semplice umanità di Gesù
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Vacanza con le famiglie a Sauze d’Oulx, Piemonte
17 - 24 agosto 2024
L'umanità sovversiva di Gesù
Don Massimo Maffioletti in dialogo con Luciano Manicardi, monaco di Bose
Sommario
2. La semplice umanità di Gesù
3. Quell’umano ci parla
4. La sovversione e il paradosso
5. Fronteggiare il male, avere compassione
6. L’umanodivino di Gesù (senza trattino)
7. Il “capolavoro” della crocifissione
8. Tutto è perdonabile
9. Quando l’amore è più forte della morte
10. Il silenzio e il mistero
11. La Legge e la Parola. E la differenza cristiana
La semplice umanità di Gesù
Massimo Maffioletti. Il retaggio o l’eredità religiosa, l’immaginario ecclesiale, la “narrazione” catechistica sembrano averci consegnato una figura di Gesù che forse non corrisponde ai vangeli. A volte si ha la netta impressione che Gesù sia stato raccontato se non male quanto meno in modo approssimativo, facendo di lui semplicemente una immaginetta devozionale e quasi scavalcando la sua “scomoda” umanità. Da qui viene, forse, la sostanziale indifferenza nei suoi confronti?
Luciano Manicardi. Ogni epoca produce una narrazione e una rappresentazione particolare di Dio e dunque anche di Gesù Cristo.
Un po’ come nell’arte, Gesù viene rappresentato con le fogge, i costumi, gli abiti dell’epoca. Ogni stagione storica dipinge, narra, racconta Gesù in una certa maniera: possiamo chiamare tutto questo inculturazione. Per esempio, noi siamo ormai abituati all’immagine del Dio trinitario, che è relazione in se stesso; siamo abituati addirittura all’immagine del Dio sofferente: nella storia della Chiesa, in effetti, mettere la sofferenza in Dio poteva urtare un certo tipo di pensiero, soprattutto di tipo ellenistico che pure ha contribuito a fornire il vocabolario per elaborare le definizioni del nostro patrimonio teologico. Molte di queste inculturazioni che ci vengono dal passato appaiono inadeguate, carenti, incapaci di dire e annunciare Dio oggi. Oggi si rinnova la necessità di favorire l’incontro tra il vangelo e la storia per sapere quali immagini siano più appropriate per declinare la buona notizia. Non si tratta di rinnegare il passato, ma di percepire che in un mondo svuotato di trascendenza, in un cielo sgombrato dagli dèi, l’uomo può essere raggiunto ancora dalla narrazione evangelica che noi crediamo promettente e significativa per l’intera umanità. E io credo che l’annuncio può ancora raggiungere l’uomo contemporaneo se si introduce la prospettiva seguente: Gesù di Nazareth nella sua umanità racconta pienamente Dio. Oggi è questa la sottolineatura necessaria. Una prospettiva che non è, come si potrebbe pensare, relativizzante o minimalista e che non intende certo derubricare la figura di Gesù come Figlio di Dio marginalizzando la sua natura divina. Nella lettera agli Efesini, Paolo scrive: “… in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù” (Ef 4,21) e la verità per il Nuovo Testamento è la rivelazione piena di Dio.
Non si dice nel Kyrios – Signore –, o nel Cristo (Christόs), ma in Gesù di Nazareth. Si tratta dunque di cogliere la qualità rivelativa della “pratica” di umanità di Gesù, cioè come l’uomo di Nazareth ha declinato l’umano. Perché quello è ciò che narra e rivela Dio. Il modo di Gesù di parlare, ascoltare, incontrare, amare, pregare: è questo a rivelare il volto di Dio.
“Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” dice Gesù (Gv 14,6).
Sì, il Dio cristiano noi lo vediamo lì, totalmente nell’umanità di Gesù di Nazareth. Sarà un refrain del nostro dialogo. Non è minimalismo teologico. Il giorno in cui noi credenti capissimo che cosa significhi sottolineare l’umanità di Gesù come narratrice di Dio, ci renderemmo conto che questo richiede uno sforzo di evangelizzazione radicale della nostra stessa umanità, che coinvolge tutte le fibre del nostro essere – intellettuale, fisico, emotivo, affettivo, psicologico – chiamate a lasciarsi irrorare dalla parola feconda del vangelo. È un “lavoro” – usiamo pure questa espressione – di complessiva conversione, personale, ecclesiale e comunitaria. Nella narrazione di Gesù, elaborata nei secoli passati e recenti, è avvenuta una a volte troppo rapida “divinizzazione” di Gesù, dimenticando la “semplice umanità” di Gesù. Ricordo la bellissima intervista che l’allora patriarca ortodosso Atenagora rilasciò a Olivier Clément. Diceva più o meno così: abbiamo dimenticato l’umanità semplice di Gesù [7]. Quella che attraverso gesti e parole narra Dio. L’umanità di Gesù può creare un bel ponte tra il testo evangelico e la nostra esistenza oggi perché quell’umanità ci interroga: come parliamo, come viviamo le relazioni, come ascoltiamo, come decliniamo l’umano? Il cristianesimo è un’interpretazione, una “ermeneutica dell’umano”.
Proprio questo lato umano di Gesù, di cui cominciamo a tratteggiare i contorni, risulta essere oggi – in casa cattolica – il vero scandalo, la pietra d’inciampo. Dovrebbe essere, l’umano, la via che favorisce l’incontro del vangelo con l’uomo contemporaneo e invece lo percepiamo quasi come un ostacolo… Noi credenti più o meno parrocchiali ci aspettiamo sempre che Dio ci raggiunga da chissà dove, o piova da chissà quale cielo o si manifesti da chissà quale altrove. E invece?
Probabilmente noi continuiamo a proiettare su Dio, e dunque su chi lo racconta, immagini di potenza miracolistica, forza soprannaturale, sacralità ultraterrena, che in realtà sono clamorosamente smentite dal vangelo stesso. Mi colpisce molto l’episodio delle tentazioni di Gesù (Mt 4,1-11; Lc 4,1-13) dove Gesù rifiuta, discernendole come diaboliche, quindi provenienti dal maligno, da Satana, le lusinghe della potenza miracolistica: cambiare le pietre in pane, per esempio, dove il pane può essere sfruttato come strumento seducente di potere: è l’ermeneutica che ne fa lo scrittore russo Dostoevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore [8]: il vecchio cardinale rimprovera apertamente Gesù fino a condannarlo nuovamente a morte. E perché? Perché Gesù si è rifiutato di fare il miracolo della mutazione delle pietre in pane non assecondando la gente che, afferma l’Inquisitore, non cerca altro. La gente non cerca Dio, ma il miracolo, barattandolo con la libertà, vuole soltanto essere sfamata. Tutti i poteri mondani l’hanno capito benissimo: panem et circenses. Eppure, ragiona così l’anziano uomo di chiesa: tu, Gesù, questo popolo te lo saresti conquistato, cancellando con un colpo di spugna la sua povertà. È la famosa “umiltà del male” [9]. Oppure, ecco l’altra tentazione: “Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù. Sta scritto: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani”. Di nuovo torna il miracolistico, il religioso, il soprannaturale: il tempio utilizzato come sgabello della propria affermazione. O, infine, la terza tentazione relativa ai poteri della terra in cambio dell’adorazione.
Noi proiettiamo su Dio immagini di grandezza, forza, potenza.
E invece la grandezza del cristianesimo sta nello scartare tutti i poteri. Il filosofo francese François Jullien parla appunto di scarto, di de-coincidenza [10]: Dio è de-coincidenza. Noi non riusciamo più a comprendere lo “scandalo” del cristianesimo perché alla fin fine anche noi coltiviamo implicitamente una mens religiosa, insediamo e pensiamo Dio nella logica dell’onnipotente, dello sfarzoso, del superumano, del prodigioso, del sovrannaturale. Considerare l’umano come luogo di rivelazione di Dio ci sembra un indebolimento di Dio. Noi credenti invece confessiamo che salvatore del mondo è l’uomo appeso alla croce nella nudità e nella sconfitta totale. Questo è lo scandalo. Paolo ha ragione: “Noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23). La sottolineatura dell’umano va precisamente nella direzione della kenosis (Fil 2,7) [11], che è quella dell’incarnazione, dell’assunzione della fragilità della condizione umana. Il cristianesimo non è solo paradosso, ma anche ossimoro. E mi chiedo se la “potenza” del cristianesimo, la sua capacità di sviluppare un pensiero all’altezza delle sfide culturali contemporanee, non risieda proprio in questo accostamento, per così dire, innaturale di realtà contrastanti: Dio e l’uomo Gesù, il Salvatore del mondo e l’appeso impotente alla croce. Da qui la vita cristiana come ossimoro: amare chi amabile non è, il nemico. Perché c’è un bel dire, ma il cuore del vangelo è “amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt 5,44). Il nemico è il non amabile per eccellenza. Sperare l’insperabile: sperare che quel cadavere risorgerà. Credere l’incredibile: credere la morte della morte, credere nella resurrezione del corpo morto. Fede, speranza e carità sono poste sotto il segno dell’ossimoro. Sottolineare l’umano genera scandalo: noi preferiamo tenerci stretta la nostra sicurezza religiosa e crearci un’immagine di Dio che finalmente sfugga alle nostre fragilità, debolezze, limiti. Il proprium del cristianesimo ci avverte: guarda che Dio è lì vicino a te, non cercarlo lontano, nell’alto dei cieli o nel profondo degli abissi come suggerisce Deuteronomio (Dt 4,7); è lì nell’umano che è in te, nell’umano uscito dalle mani creatrici di Dio, fragile e con tutte le sue ombre. Cercalo, Dio, e trovalo proprio lì: è un lavoro di conversione di mentalità e di riforma ecclesiale.
Il nostro approccio a Gesù rimane sostanzialmente devozionale o devozionistico (con tutto il rispetto per la devozione popolare che non ci permettiamo di derubricare); preferiamo in definitiva una sorta di immaginetta consolatoria e pietistica di Gesù piuttosto che assumere l’umano – tragico? – della sua vita. Se si dà pienamente ascolto all’umano, si attua quella sorte di “purificazione della religione” che Gesù stesso ha voluto mettere in atto. Un importante teologo italiano si esprime più o meno così: Gesù è l’uomo religioso venuto a purificare religiosamente la religione.
L’espressione segue l’efficacissima tesi dell’antropologo francese Marcel Gauchet quando parla del cristianesimo come “religione della fuoriuscita dalla religione” [12]. Noi non abbiamo più la coscienza che il cristianesimo impegni seriamente la libertà. L’atteggiamento che indicavamo come “devozionale” ci consente di crearci un’immagine di Dio che, alla fin fine, dominiamo ed è in nostro potere. Proiettando su Dio i nostri desiderata, i nostri bisogni, di fatto ci esimiamo dal lavoro di messa in discussione di ciò che noi umanamente siamo nel profondo di noi stessi (e che siamo chiamati a diventare). Il rischio del cristianesimo oggi è quello di essere diventato una pratica che non chiede niente. Dov’è la differenza della vita dei cristiani rispetto agli altri? Un’ora di messa la domenica da cui uscire per continuare a fare esattamente tutto quello che fanno tutti? Magari sì, magari sono sufficienti soltanto un po’ di attività socio-solidaristiche o di relazioni filantropico-altruistiche: fin qui però ci arrivano tutti, non c’è bisogno di Gesù di Nazareth. Dio ridotto a equivalente simbolico di una relazione altruistica. Ecco, la via devozional-religiosa rischia di anestetizzare proprio l’impatto evangelicamente scandaloso, scardina la follia del cristianesimo – quel fuoco di cui il già citato grande scrittore McCarthy scrive – rendendo oggi il cristianesimo sbiadito e anche poco attraente.
È la tentazione di anestetizzare il “tragico” dell’esistenza e della stessa esperienza umana dell’uomo di Nazareth.
Sì, perché la responsabilità della speranza cristiana – siate “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15) – deve essere costruita quotidianamente. È un compito al quale i cristiani rischiano di venir meno. Come se venisse loro proposto un semplice ingaggio evangelico a basso rischio, a bassa soglia di responsabilità. Non è così.
Dal dialogo con le nuove generazioni emerge la fatica di immaginare che con Gesù si possa effettivamente instaurare una relazione o – come afferma Sequeri – di “avere una storia” con lui [13]. In loro non c’è resistenza alla figura di Gesù di Nazareth. Tutt’altro. L’idea che Gesù di Nazareth sia, appunto, totalmente umano, non viene eliminata. Gesù, però, rimane soltanto una sorta di bel personaggio sullo sfondo della storia, uno dei tanti, come Buddha, Socrate, il Che. Un conto è pensarlo come un testimone importante del panorama dell’umanità e un conto è mettersi in gioco in una relazione vitale con lui. Forse in questo c’entra anche la “narrazione” che la Chiesa ha fatto di lui?
Anch’io mi chiedo se la difficoltà di trasmissione del messaggio evangelico, e quindi della vitalità e della contemporaneità possibile di Gesù di Nazareth, non sia legata al fatto che il messaggio indirizzato ai giovani non coglie l’elemento decisivo dell’umanità di Gesù, non coglie soprattutto il ben “fondato antropologico” delle sue azioni e parole come appaiono dai vangeli.
Perché mai un giovane di oggi dovrebbe cimentarsi con la figura di Gesù?
La Chiesa ha indubbiamente tanti avversari, diciamolo pure, che sono molto più seducenti, molto più potenti, ed esercitano una forza di attrazione a cui è difficile resistere. Oggi, il demone della facilità, declinato anche come “tutto e subito”, è una dominante che attrae e che si oppone alla difficile, faticosa, lenta costruzione di un’identità umana e cristiana solida e consistente. La fede pone anche di fronte a una scelta tra via facile e via difficile: e la via facile, un po’ come la porta larga e la via spaziosa di cui parla il vangelo (Mt 7,13-14), è più accattivante ed è quasi scontato imboccarla senza ripensamenti.
Ora, non è necessario fare qui l’elenco dei tanti nemici seducenti che propongono sul mercato le loro mercanzie decisamente più affascinanti dell’austera e un po’ demodé offerta evangelica. Ma qui si colloca la responsabilità della Chiesa, delle comunità cristiane – di chi nella Chiesa detiene l’autorità – ma in verità di tutti, presbiteri e laici, animatori pastorali, catechisti: narrare l’umano di Gesù che parla alla mia vita perché parla della vita. E qui noi dobbiamo chiederci: che cos’è l’umano oggi? Anzitutto, l’umano oggi è quotidianamente messo alla prova dell’inumano. Potremmo anche dire che l’inumano è una possibilità dell’umano sempre. Come scrive il poeta Wystan Hugh Auden: “Il male non è mai straordinario ed è sempre umano. Divide il letto con noi e siede alla nostra tavola”. Noi umani siamo molto bravi a creare l’inumano, a umiliare l’umano, a produrre disumanità. Al tempo stesso chiunque, non solo i cristiani, vorrebbe relazioni improntate a quell’umanità che consiste in rispetto e riconoscimento dell’altro, venerazione per la dignità e la sacralità dell’altro, della sua preziosa e precaria unicità inscritta nel suo volto.
Volto che è l’unica vera e autentica icona del trascendente. Inoltre, poi, oggi siamo posti di fronte alla grande sfida del post-umano, una tendenza storico-culturale di pensiero e di intervento sulla realtà ormai pervasiva: alludo al pensiero del post-mortale, della macchinizzazione dell’uomo e dell’umanizzazione delle macchine, alla creazione di robot senzienti, a ciò che può scaturire dalle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale, ecc. Appunto, che cos’è oggi l’umano? È un punto di domanda, anche perché le concezioni dell’umano in Cina o in Occidente o altrove sono differenti. Oggi viviamo dentro un meticciato di culture e differenze antropologiche e fatichiamo molto a orientarci e ad avere una linea direttrice univoca e condivisa da seguire per rispondere alla domanda sull’identità dell’umano. E che cos’è la vita umana? L’umano di Gesù di Nazareth ha qualche cosa da dire all’umano particolare, unico e irripetibile, che sono io? E che cos’è un corpo umano oggi? È ancora un corpo umano il corpo ormai ibridato da protesi tecnologiche? Pistorius correva come un normodotato. Il filosofo francese Jean-Luc Nancy ne L’intruso [14] s’interrogava a proposito del cuore innestatogli: quando in me batte il cuore di un altro, io chi sono? Ecco, proprio perché viviamo in una stagione culturale che rimescola radicalmente la mappa antropologica e il senso dell’umano, l’azione pastorale evangelizzatrice della chiesa dovrebbe essere maggiormente attenta e avvertita, soprattutto nei confronti dei giovani: assumere la pratica di umanità di Gesù per come è narrata nei vangeli e mostrare che il Nazareno offre una direzione. Attenzione: non dico la direzione, questo è importante, ma una direzione. Non c’è alcuna necessità di Gesù oggi. La sua umanità è una possibilità, un’offerta, una proposta. Il cristianesimo oggi è uscito dal regime di cristianità, riconoscendo di essere ormai una minoranza. Ha detto papa Francesco nel Discorso alla Curia per gli auguri di Natale: “Non siamo nella cristianità, non più” [15]. Quella di Gesù, dunque, è un’autentica “ermeneutica dell’umano” ma accanto ad altre narrazioni; tradirebbe se stessa se pretendesse di essere l’unica, la migliore, quella a cui tutti devono riferirsi o che devono arrivare ad abbracciare. Va detto in modo chiaro. La condizione di minoranza in cui oggi si trova il cristianesimo in occidente significa che esso perde e perderà in estensione, ma potrà – forse – guadagnare in convinzione. In fin dei conti i discepoli erano soltanto uno sparuto gruppetto. Eppure hanno saputo irradiare il mondo culturale prendendo sul serio l’umanità del loro maestro.
Tu pensi che occorra ritornare alla condizione dei pochi discepoli per far ripartire il cristianesimo? Ritornare a far sì che il cristianesimo sia percepito come possibilità offerta a tutti ma che soltanto pochi raccolgono?
Io penso proprio di sì. Del resto questa è già la verità in atto, è ciò che sta già avvenendo, è ciò che vediamo nella realtà giorno dopo giorno. Qui ne va della gratuità dell’offerta e della libertà dell’accettazione dell’offerta. Una relazione è umana, ovverosia veramente autentica, quando si muove all’interno dei parametri della gratuità e della libertà di adesione. Fuori da questo contesto c’è manipolazione, asservimento, obbligo, imposizione, il che non può funzionare ed è in contraddizione con lo spirito del vangelo e con la pratica di umanità di Gesù che non ha mai obbligato nessuno a seguirlo, ma ne ha presentato l’offerta e ha sempre lasciato libere le persone (si pensi all’episodio dell’incontro con l’uomo ricco: Mc 10,17-22).
Si tratta di percepire il cristianesimo come un’offerta, un’indicazione di via dell’umano che si presenta alla libertà dell’uomo. Si tratta di mostrare il ben fondato antropologico dell’offerta dell’umano di Gesù, che non è di carattere religioso o rituale ma relazionale (anche se la ritualità è fondamentale ed è un fenomeno che va ben oltre il cristianesimo) [16].
C’è un circolo ermeneutico da istruire e indagare: non è possibile comprendere l’umanità di Gesù se non si vive appieno l’“umano comune”; di contro – è questa la pretesa cristiana? – è proprio frequentando e abitando l’umanità di Gesù (“Maestro, dove dimori?”: Gv 1,38) che noi verremo a capo dell’essenza dell’umano in quanto tale. E, riaffermo, noi siamo convinti – altra pretesa? – che non c’è storia umana se non c’è storia con Gesù.
Dobbiamo fare i conti con due carenze. Da un lato un approccio all’umano ospitale, libero, cordiale, un’attitudine al confronto con il pensiero contemporaneo che ha una “visione” dell’uomo, come vogliono istruirci per esempio le scienze umane, le neuroscienze, la psicologia, la sociologia. Da tutte queste discipline abbiamo qualcosa da apprendere anche se si tratta di un punto di osservazione radicalmente laico: la scienza segue i suoi legittimi criteri. Il mio libro La passione per l’umano nasce dall’idea che oggi dobbiamo riscoprire una “grammatica dell’umano”. Proprio perché l’umano oggi è un punto di domanda torniamo a interrogarci: perché, per esempio, l’uomo invidia? Perché mente o prova vergogna? Cosa vuol dire parlare? Perché l’uomo dagli inizi dell’umanità narra storie? Percepisco a volte una carenza di simpatia verso l’umano, una mancanza di apertura verso il pensiero contemporaneo, la letteratura, l’arte, che invece avrebbero tanto da dirci. L’arte, in particolare, è sempre molto capace di intuire i nuovi movimenti, denunciare le forme di fragilità dell’umano, di denunciarne le contraddizioni e i disfunzionamenti e intravedere vie di uscita.
E la seconda carenza che individuavi?
Dall’altro lato assistiamo a una ristrettezza narratologica all’interno dello spazio ecclesiale circa l’umanità di Gesù di Nazareth. Di nuovo mi torna alla mente quello che diceva Atenagora nell’intervista citata. Il patriarca diceva più o meno così: noi cristiani abbiamo fatto del cristianesimo una sorta di casuistica morale quando invece il cristianesimo è fuoco, vitalità, generatività. Dove oggi incontriamo questa vitalità? È l’esperienza iniziale dei due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35): l’annuncio della chiesa contemporanea assomiglia a un necrologio (che è esattamente ciò che fanno i due di Emmaus) dando ragione in questo modo a Nietzsche quando diceva che nelle chiese si recita soltanto il requiem aeternam Deo, “l’eterno riposo a Dio” che è morto. I due di Emmaus fanno un racconto ineccepibile, parlando di Gesù come profeta, uomo potente in opere e parole, ma ne parlano come se fosse un morto. Viene meno l’elemento di resurrezione che non si riferisce soltanto all’aldilà, al post mortem, ma che diventa per i cristiani pratica di resurrezione tutti i giorni, diventa fuoco vivificante l’oggi.
Torneremo sulla potenza della resurrezione. Intanto rimaniamo ancora un attimo con Nietzsche che, si sa, è sempre fulminante e sarcastico, ma anche molto arguto nel pronunciare i suoi aforismi: “In fondo c’è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce” [17]. Hai parlato del cristianesimo come una possibile offerta.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’espressione risenta molto di quella logica mercantile che spesso critichiamo. Ma immagino tu non volessi dire questo.
Ovviamente no. Le offerte al supermercato le devi pur sempre pagare.
L’offerta a cui alludevo precedentemente ha il senso gratuito del dono, è appunto una possibilità di vita che ti viene aperta, un futuro che ti viene dischiuso, un’alternativa a… E che nasce dalla presa di coscienza di un dono che ti precede e su cui puoi scommettere l’intera tua vita. È la via, la vita che Gesù offre, e offre vivendola, testimoniandola, narrandola esistenzialmente, percorrendola lui stesso per primo, “lasciandoci una traccia affinché seguiamo le sue orme” (1Pt 2,21), questa via-offerta non solo non risponde alla logica mercantile, del do ut des, ma la smentisce in modo radicale. Questo è interessante: percepire che il cristianesimo diventa una via altra ben lontana dai parametri della società mercantile in cui l’uomo stesso ormai è ridotto a merce. No, il cristianesimo si propone come la possibilità di dilatazione dell’umano in una prospettiva altra, decisamente scandalosa e, tuttavia, tremendamente affascinante e pregna di avventura.
Come facciamo a far apprezzare l’umano di Gesù, via affascinante e promettente, se le persone che ci parlano del vangelo assumono il ruolo di funzionari obbedienti o di burocrati ingessati?
Ci vuole testimonianza, molta creatività e coraggio, occorre essere infiammati da una passione. E se Cristo non riesce a diventare una passione generativa, coraggio creativo, quale “trasmissione” ci può essere, quale sano contagio si può verificare? Che fascino o che desiderio possiamo suscitare? Mi sembra una buona domanda. Pensando, ad esempio, a molte esperienze di vita religiosa, mi chiedo: ma che futuro potranno avere, quando ormai il motivo per cui sono nate è venuto meno? E quale promessa di vita possono e sanno offrire conventi e monasteri? Già, perché mai un giovane dovrebbe entrare nella comunità di Bose, o altrove, e impegnare la propria vita in quella forma particolare di sequela di Cristo? Quale promessa di vita possiamo e sappiamo offrire? Il che significa rispondere alla domanda: che cos’è una vita? Che cos’è una vita umana? Che cos’è che può permettersi di chiedermi la vita intera, visto che oggi la virtù dell’obbedienza o il principio di autorità non possono più essere dati per scontati? Oggi devi rimotivare tutto, devi giustificare, devi spiegare qualunque gesto di fede perché riguarda la tua vita personale, la tua unica e non sostituibile vita. È così, però, che si gioca il futuro della fede e del cristianesimo. Domande che interessano le nuove generazioni ma anche molti ambiti ecclesiali.
A proposito di suscitare il desiderio non mi pare fuori luogo ricordare il lavoro di Françoise Dolto, pediatra e psicanalista francese, che rileggeva i vangeli dal punto di vista della psicanalisi, operazione ripresa abbondantemente da Massimo Recalcati [18]. L’idea di fondo è che il vangelo, al netto di tutto, sia la capacità di accendere il desiderio e indirizzarlo verso una destinazione. La Dolto osserva che Gesù “insegna la vita del desiderio” [19]. Abbiamo proprio perso la dimensione del desiderio umano. Nemmeno il vangelo sembra più essere in grado di accendere una promessa, risolvendosi – brutalmente parlando – soltanto in una sorta di comandamento formale, esclusivamente legalistico.
Se non ho davanti qualcuno che, in qualche maniera, mi fa apprezzare la bellezza promettente dell’umano di Gesù, se non ci sono esistenze concrete che tengono vivo il fuoco della sua umanità, è impensabile che il cristianesimo torni ad essere credibile e abbia qualcosa ancora dire.
Riaccendere il fuoco: torniamo a Emmaus e a McCarthy. Il mattino di Pasqua Gesù, non riconosciuto, fa un tratto abbondante di strada con i due discepoli che si lasciano alle spalle Gerusalemme; la strada è già immagine del futuro della chiesa e della chiesa del futuro. Il Risorto cammina con loro, parla raccontando le Scritture: la sua è una parola radicata in una storia precisa, la storia di Dio con il popolo.
E accade una riaccensione del desiderio che si era spento nei due viandanti. Nel romanzo La strada, McCarthy parla di un “noi” (“noi portiamo il fuoco”). E allora mi interrogo: dov’è il noi della comunità? Dov’è il noi della chiesa? Il genio del cristianesimo è creare un “noi”, singolarità che stanno insieme per ritrovare la propria unità in Cristo e non certo per coltivare gli stessi interessi economico- sportivi, come in un club di bocciofili. È lì, nella chiesa e nelle nostre comunità, che si tratta di ravvivare il fuoco.
Forse bisogna chiedersi come mai abbiamo spento il fuoco del vangelo.
Il fuoco si è spento per via di un certo moralismo, del “si deve fare”, che si annuncia come la via più scontata e immediata. Il vocabolario del dovere, intendiamoci, è importante. Ci sono nella vita delle cose che si devono fare. Piaccia o non piaccia. Impostare, però, una vita di fede sul tema del dovere alla lunga non può reggere: il volontarismo ti manda avanti per un po’ e poi fallisce. Non possiamo ridurre il vangelo della libertà a un manuale di morale. Questa è una questione decisiva soprattutto per le giovani generazioni che proprio sul piano della morale, e dell’etica sessuale in particolare, sono distanti mille miglia da ciò che la chiesa ancora predica e chiede di praticare.
Chi sono io, uomo di chiesa, per dire a te giovane chi tu devi amare e come lo devi amare? Chi sono io, rappresentante della religione, per farmi padrone dell’amore e pretendere di orientare il tuo desiderio? Ricordo ancora una donna, una catechista molto impegnata di sessant’anni, che ho conosciuto durante un corso di esercizi spirituali.
Mi raccontava che un giorno decise di incontrare la famiglia di una bambina del suo gruppo di catechesi e scoprì che la bambina aveva due mamme, manifestandomi così tutto il suo sbigottimento.
Cosa avrebbe dovuto fare la catechista? Sentirsi responsabile verso la bambina e avere fiducia verso l’amore di due persone. Chi sono io per dire no, questo non va bene? Qui occorrerebbe accennare a un pensiero, che – mi rendo conto – potrebbe risultare discutibile ma del quale sono personalmente convinto, e cioè che la morale, l’etica, è un prodotto umano, un manufatto (anche quando si ispira a dettami religiosi), cambia con il tempo e siamo noi a elaborarla storicamente.
Non è qualcosa di calato dall’alto. Le posizioni nella storia della chiesa riguardo a molteplici materie che interessano l’etica sono state differenti, mai univoche. Sono evolute con l’evolvere della storia. Come disse Giovanni XXIII: “Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio” [20]. Se guardiamo all’umanità di Gesù, non mi sembra che Gesù sia stato così attento alla dimensione sessuale. Dentro la sfera sessuale dell’umano si gioca davvero qualcosa di profondo: noi ne abbiamo fatto una specie di monstrum. Ha ragione Michel Foucault quando dice che in Occidente la sessualità non è tanto ciò di cui non si deve parlare, ma ciò che si deve confessare [21]. Tra l’altro, il discorso che il filosofo francese faceva circa la confessione è abbastanza illuminante e di stringente attualità. I manuali dei confessori del sei/settecento sono rivelativi della giustezza del giudizio di Foucault. La chiusura dello sguardo avviene quando, per timore, si spegne il fuoco e ci si concentra sul dettaglio formale senza mai guardare oltre. Probabilmente abbiamo spento il fuoco anche per paura.
O, forse, per questioni di potere?
Quanto più la chiesa veniva esautorata dal governare l’ordine pubblico, tanto più si concentrava sul governo delle coscienze degli individui.
E questo è un processo che si è venuto accentuando nell’epoca della modernità. E qual è la via migliore per esercitare un potere sulle persone (la coscienza, la sessualità) se non avere il controllo delle anime passando attraverso il controllo del corpo e della sessualità? [22].
Ma questo in genere significa pieno governo delle esistenze.
Non voglio fare dei salti illogici che rischiano di essere ingenerosi nei confronti della chiesa, ma non è quello che sta avvenendo in Iran, dove c’è apartheid di genere? Ho visitato in primavera una mostra a Bologna, “Stregherie”: in buona parte erano studi sui verbali dell’Inquisizione, contro le streghe, quindi contro le donne. Io credo che lì ci sia stato davvero uno spegnimento del fuoco autentico che il cristianesimo, invece, è venuto a portare. Anche Gesù è venuto a portare il fuoco: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). È una parola splendida.
Quello che Gesù è venuto a portare, noi lo abbiamo nutrito, tenuto acceso o seppellito? E il monito neotestamentario resta vivo e urgente per i cristiani nella storia: “Non spegnete lo Spirito” (1Ts 5,19).
NOTE
7 Olivier Clément, Dialoghi con Atenagora, ed. Gribaudi 1971.
8 Lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij inserisce il racconto allegorico del Grande Inquisitore all’interno del suo capolavoro I fratelli Karamazov (1879). Si racconta del ritorno di Gesù nella Siviglia della Santa Inquisizione (secolo XVI) mentre viene arrestato da un cardinale: “un vecchio di quasi novant’anni, alto e diritto, con il viso scarno e gli occhi infossati, nei quali però riluce una scintilla di fuoco...”.
9 Franco Cassano, L’umiltà del male, ed. Laterza 2011.
10 François Jullien, Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede, ed. Ponte alle Grazie 2019, pp. 67-81; un altro libro dello stesso autore si intitola: Dieu est dé-coïncidence, Labor et Fides, 2024.
11 “Cristo Gesù, / pur essendo nella condizione di Dio, / non ritenne un privilegio / l’essere come Dio, / ma svuotò se stesso / assumendo una condizione di servo, / diventando simile agli uomini”.
12 M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Storia politica della religione, ed. Einaudi 1992.
13 Pierangelo Sequeri, Intorno a Dio (intervista di Isabella Guanzini), ed. La Scuola 2011.
14 Jean-Luc Nancy, L’intruso, ed. Cronopio 2005.
15 Discorso del Santo Padre Francesco alla Curia Romana per gli auguri di Natale, Sala Clementina, sabato, 21 dicembre 2019.
16 Tutti noi ci appropriamo di qualcosa che non ci è naturale grazie alle abitudini e alla ripetizione di gesti, di parole fatte insieme, di riti e liturgia. Ma la ritualità vuole educare una relazionalità perché il cuore del culto cristiano non è rituale, ma relazionale: c’è qualcuno che ha qualcosa contro di te? Prima riconciliati con lui e poi vai a offrire all’altare (Mt 5,23-24).
Nella Didascalia apostolorum di area siriaca (III settimo secolo d.C.) si legge la prassi liturgica secondo la quale prima dell’inizio della celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo, il diacono si rivolgeva all’assemblea con queste parole o simili: qualcuno di voi è in lite con un altro? Prima si riconcili. Dopo iniziamo. Mi piacerebbe vederlo applicato oggi in un’assemblea eucaristica per capire cosa succede. Certe pratiche rituali o certe eucaristie hanno allontanato le giovani generazioni, tantissimi cristiani ormai non sentono assolutamente più il bisogno né la necessità di mostrare la propria appartenenza a una comunità con la partecipazione a un rito. Forse c’è stata una assolutizzazione della partecipazione all’eucaristia domenicale che distingue tra praticanti e non praticanti, bravi e non bravi? Questo non ha più alcun senso. L’identificazione del credente nel praticante è limitante e insufficiente.
17 Friedrich Nietzsche, L’Anticristo, 1888.
18 Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina editore 2011; La forza del desiderio, ed. Qiqajon, Bose 2014.
19 Françoise Dolto, I vangeli alla luce della psicanalisi. La liberazione del desiderio. Dialoghi con Gérard Sévérin, et al./edizioni 2012.
20 Citato in Mario Benigni – Goffredo Zanchi, Giovanni XXIII. Biografia ufficiale a cura della diocesi di Bergamo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000, p. 428.
21 Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 2000, p. 152.
22 Cf. l’analisi storica dell’evoluzione del sesto comandamento da “non commettere adulterio” a “non commettere atti impuri” in Lucetta Scaraffia, Atti impuri, Laterza 2024.