Ludwig Monti "Giovedì Santo: IL CENACOLO. Nel luogo della condivisione"
Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?”. Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: “Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: ‘Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?’ Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi”. I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua (Mc 14,12—16).
Questa è la descrizione più antica del Cenacolo, la “camera alta” (cf. Mc 14,15; Lc
22,12; At 1,13; 20,8), il luogo di Gerusalemme dove Gesù e la sua comunità hanno celebrato l’ultima cena. Non è casuale che Gesù abbia scelto proprio questo luogo, e al
suo interno proprio la tavola, per raccontare
il suo dono definitivo a tutta l’umanità, di
cui ci ha chiesto di fare memoria fino alla
sua venuta nella gloria, pronunciando le parole che da quel giorno ripetiamo in ogni
nostra liturgia eucaristica: “Fate questo in
memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11,24—25).
Questo è il dono che siamo chiamati a condividere e a rendere luce per le nostre vite
quotidiane all’insegna della comunione che
Gesù ci ha consegnato come mandato, proprio durante questa cena, dopo aver lavato i
piedi ai suoi discepoli (secondo il Vangelo
giovanneo): “Vi do un comandamento nuovo. Amatevi gli uni gli altri come io vi ho
amati” (Gv 13,34).
All’interno del mistero inesauribile dell’Eucaristia—Lavanda dei piedi, che celebriamo nel Giovedì Santo, apertura del Triduo pasquale, possiamo cogliere il Cenacolo come luogo in cui è avvenuta l’epifania
della condivisione e della convivialità, dimensioni che hanno segnato l’intera vita di Gesù di Nazaret, dunque il suo lascito testamentario ai credenti in lui. Al riguardo, si
possono e devono ricordare metodologicamente le parole profetiche scritte dal teologo Giuseppe Colombo in un suo bel libro
del 1999: “L’unione del cristiano con Gesù
Cristo deve attuarsi nella realtà della vita
del cristiano, che unita e conformata a quella di Gesù, ne riproduce le caratteristiche e
ne assume la destinazione, precisamente
quelle del Gesù storico … La sintesi ha da
essere una vita umana vissuta come l’ha vissuta Gesù Cristo” (L’esistenza cristiana, p. 17).
Spesso ci preoccupiamo invano della vita
dell’aldilà, della vita eterna, e non pensiamo
che dovremmo domandarci anzitutto se la
vita umana che ci contraddistingue, qui e
ora, è conforme alla vita eterna. Vedremo
come Gesù ci aiuta e ci precede in tale cammino, mostrando e in—segnando il dono di
una vita offerta per amore, il dono di tutta
la sua vita.
Ma partiamo da lontano. Nella Bibbia,
intesa come unità plurale di Antico e Nuovo Testamento, la tavola è presente con una
frequenza impressionante. Chi conosce le
Sante Scritture sa quante volte in esse si raccontano pasti, banchetti, quante volte si
menziona lo stare a tavola e si parla di cibi e
bevande, quante volte in esse si trovano indicazioni dettagliate su cosa mangiare e come mangiare. Lasciamo a chi legge il compito di rinvenire questi brani, scorrendo la
Bibbia. Qui ci limitiamo a dire che proprio
le parole bibliche sul mangiare e sugli alimenti possono gettare una luce vivida su
queste realtà umanissime, inerenti alla vita.
La tradizione ebraica e poi quella cristiana,
vie di senso per l’umanità, hanno insistito
molto sulle realtà del cibo, del pasto e della
tavola. Ecco perché la tematica del cibo attraversa tutte le Scritture, dalle prime pagine della Genesi al libro finale dell’Apocalisse: perché nutrimento, cibo e tavola esprimono qualcosa di fondamentale sulla vita umana, sulla sua vocazione e sulle sue sfide.
Parlando degli esseri umani a tavola, parlano di Dio, quel Dio che gioisce nel rivelarsi
a tavola: “essi videro Dio e mangiarono e
bevvero” (Es 24,11).
Gesù, per parte sua, amava molto la tavola come luogo di scambio – “teologico” proprio in quanto umanissimo –, al punto da
essere definito spregiativamente dai suoi avversari “un mangione e un beone, un amico
di pubblicani e di peccatori” (Mt 11,19; Lc
7,34). A tavola ha celebrato l’amicizia con
Marta, Maria e Lazzaro (cf. Gv 12,1—2); a
tavola ha incontrato Simone il fariseo e
un’anonima prostituta a cui furono rimessi i
peccati perché aveva molto amato (cf. Lc
7,36—50); a tavola ha lasciato che il suo corpo fosse unto profeticamente da un’anonima donna, prima della sua passione, morte
e resurrezione (cf. Mc 13,3—9; Mt 26,6—13;
Gv 12,3—8). A tavola, infine – e ho saltato
per ragioni di spazio numerosi brani evangelici – si è manifestato addirittura dopo la
sua resurrezione, ai due discepoli in cammino verso Emmaus nel giorno di Pasqua:
“Quando fu a tavola con loro, prese il pane,
pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo
diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e
lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista” (Lc 24,30—31). La descrizione di ciò che
avviene è stilizzata al massimo. Vengono ricordati solo i quattro gesti compiuti da Gesù mentre è a tavola, i gesti del segno eucaristico (cf. Lc 22,19), talmente determinanti
per le prime generazioni cristiane da costituire un esempio in cui i gesti di Gesù, gli ipsissima gesta Iesu, precedono e superano anche la sua parola (per questo gli stessi verbi
vengono utilizzati per descrivere la moltiplicazione—condivisione dei pani: cf. Lc
9,16). Non a caso uno dei nomi più antichi
dell’Eucaristia è fractio panis!
Più che mai in questo momento l’esperienza dei due di Emmaus diviene segno
dell’esperienza dei cristiani nella storia: la frazione del pane, al Cenacolo, come a Emmaus, come per la Chiesa di ogni tempo, è il
segno di tutta la vita di Cristo data, spesa,
consegnata, spezzata per amore, a cui i cristiani comunicano. Insomma, questi gesti
riportano indietro, alla vita terrena di Gesù,
alla cena eucaristica, alla croce che del suo
amore è il compimento. E nel contempo
spingono anche in avanti, alla vita della
Chiesa, al tempo in cui i cristiani continueranno a “spezzare il pane”, fino alla venuta
del Signore nella gloria (cf. 1Cor 11,26).
Spezzare il pane è un gesto riassuntivo, nel
quale si concentrano, sovrapponendosi, il
Gesù terreno e il Signore risorto e ora presente nella sua comunità. Quel Signore che
continua a chiedere: “Fate questo in memoria di me”, ovvero: “Vivete come io ho vissuto, se volete fare memoria di me”. La Chiesa
primitiva ha ben compreso questo, al punto
che fin dall’antichità l’Eucaristia domenicale è legata a gesti di condivisione nei confronti dei poveri. L’epifania del corpo del
Signore nell’Eucaristia domenicale è anche
manifestazione della carità, soprattutto verso le membra più deboli e sofferenti di tale
corpo. Vi è un rapporto inscindibile tra la
presenza di Cristo nel mistero eucaristico e
la sua presenza nel povero: “Colui che ha
detto: ‘Questo è il mio corpo’, ha detto anche: ‘Mi avete visto affamato e non mi avete
dato da mangiare. Ciò che vi siete rifiutati
di fare ad uno solo di questi piccoli, l’avete
rifiutato a me’” (Giovanni Crisostomo).
Dall’insieme della tradizione cristiana
appare pertanto evidente che la concreta carità è la traduzione pratica del culto, l’autenticazione antropologica del segno liturgico dell’Eucaristia. Del resto per il grande
Ignazio di Antiochia agápe, carità, è niente
meno che un altro nome dell’Eucaristia. Il
sacramento diviene così segno visibile e
simbolico del Regno, anticipazione e profezia dell’umanità riconciliata, magistero che
insegna che l’amore fino al dono di sé e al
martirio è il “senso” della vita. La “tavola
del Signore” (cf. 1Cor 11,20) pone tutta l’esistenza umana sotto il segno dell’amore, tanto che i cristiani possono verificare la loro
fedeltà al Cristo Signore proprio sull’amore. È l’amore il grande servizio e la grande
testimonianza che la comunità cristiana deve al mondo: “Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli: se avete amore gli uni
per gli altri” (Gv 13,35). Il tempo della Chiesa coincide con il tempo dell’attesa della venuta del Signore, attesa vissuta nell’agápe:
agápe che struttura la vita interna della Chiesa, come appare dalla comunione (koinonía)
di cui ci parlano gli Atti degli apostoli (cf.
At 2,42); agápe quale virtù escatologica che
prolunga nel mondo l’amore di Cristo, il
quale ha amato i suoi “fino alla fine”, e costituisce il criterio stesso del giudizio finale
(cf. Mt 25,31—46).
Vivendo in questo modo, il credente cristiano può portare il suo contributo specifico all’edificazione di una società e di un
mondo più giusti in quanto più umani: il
suo agire comunionale nel mondo è segno e
sacramento del regno di Dio che viene. Allora la carità dei cristiani e della Chiesa mostra davvero di discendere dalla fonte della
carità che è la verità dell’Eucaristia. Poi certamente i cristiani dovranno essere capaci di
tradurre in chiave antropologica questa verità teologica, in obbedienza puntuale al loro Signore e in nome del dialogo umanissimo con gli uomini e le donne del proprio
tempo. E su quest’ultimo terreno gli spazi
che si aprono ai credenti cristiani sono molto ampi. Sappiamo infatti che gli esseri
umani avvertono ancora oggi, come sempre, il bisogno di mangiare insieme, di condividere la tavola, nonostante l’individualismo dominante e la diffidenza verso l’altro
che minaccia il tessuto sociale. Trovarsi insieme, aprire la casa ad altri che abitualmente non vivono con noi ma che amiamo, cercare di combattere l’isolamento cui spesso
sembriamo condannati dalla vita odierna:
tutto questo può avvenire intorno alla tavola, luogo in cui è nata e si sviluppata la cultura. La tavola è un luogo eminente di umanizzazione, di ascolto reciproco, di scambio
della parola, è la possibilità di dire “sì” alla
vita con le sue fatiche e le sue gioie, i suoi
drammi e le sue speranze. Abbiamo bisogno di dire “grazie”, di vivere la gratitudine
(significato etimologico del termine “Eucaristia”, non lo si dimentichi) verso la terra,
verso gli altri, verso Dio, e di dirlo insieme,
cercando una gioia condivisa.
Affinché sia realmente conviviale, la tavola va preparata anzitutto con la volontà di
invitare qualcuno a condividere il cibo che
prepariamo: pietanze capaci di esprimere
“straordinarietà ”, eccesso di bontà da gustare e cantare, cibi che, allietati dal vino, possono favorire una sobria ebbrezza. A tavola
tutti sono uguali, con le stesse possibilità di
prendere cibo e di intervenire con la parola.
Mentre si mangia l’uno parla, l’altro ascolta: parole che si intrecciano fino a spegnere
ogni diffidenza. Trovarsi insieme intorno
alla tavola, nella gioia comune, è un modo
per riscoprire il miracolo della convivialità;
è terreno fertile per esercitarsi in relazioni
che diano gusto alla vita e ci rallegrino nella
quotidianità spesso così faticosa. Insomma,
come cantava il poeta francese Paul Claudel: “Interroga la vecchia terra: ti risponderà sempre col pane e col vino”. Quel pane e
quel vino che brillano con la loro aurea semplicità al centro del Cenacolo, luogo di autentica condivisione e di gioiosa convivialità. Luogo da cui prende avvio e in cui trova
la sua forma ogni percorso di sinodalità.