Alessandro D’Avenia "Il dio del vino"
Anni fa durante un'arcigna predica domenicale un ragazzo mi chiese: «Ma Gesù non ride mai?».
Mi sono ricordato dell'episodio in questo periodo pasquale. Gli dissi che Cristo non è l'erogatore di precetti che compare spesso nelle prediche ma l'audace autore di una frase per me decisiva: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l'abbiano in sovrabbondanza» (Gv 10,10). Nietzsche ha accusato il cristianesimo di proiettare la vita vera dopo la morte e di togliere quindi energia all'esistenza qui sulla terra, consolando gli uomini con una morale da sottomessi. Affermava di non poter credere a un dio che non balla, e a Cristo preferiva Dioniso, il dio greco del vino e dell'ebbrezza. Per me è il contrario, infatti, in tema di vino e balli, raccontai al ragazzo che Cristo ride. Nel villaggio di Cana in Galilea, operò infatti il primo segno di quella missione di dare agli uomini, già sulla terra, vita in abbondanza: durante una festa di nozze, in cui avrà ballato come era costume, trasformò sei damigiane d'acqua (250 litri) in vino, perché gli ospiti se lo erano già scolato tutto. Non solo ballò ma diede “spirito” a chi lo aveva esaurito ed era così buono che il maestro di tavola criticò gli sposi per aver lasciato l'annata migliore alla fine (Gv 2,1-11). Per rispondere al ragazzo avevo rubato le parole a Dostoevskij che, in un capitolo chiave dei Fratelli Karamazov dedicato all'episodio e intitolato proprio Cana di Galilea, scorge uno di quei sorrisi che il ragazzo cercava e spiega perché.
Alëša, il più giovane dei fratelli Karamazov, riportando il dialogo con il suo maestro spirituale racconta: «Amo molto quel passo: sono le nozze di Cana di Galilea, il primo miracolo. Ah, quel miracolo, quanto mi è caro quel miracolo! Cristo visitò la gioia degli uomini, non il dolore, e compiendo il suo primo miracolo, contribuì a dar gioia agli uomini. Chi ama gli uomini, ama pure la loro gioia... A quel tempo le popolazioni che abitavano intorno al lago di Genezareth erano le più povere che si possa immaginare... "L'ora mia non è ancora arrivata" dice con un sorriso... E infatti era forse venuto sulla terra per moltiplicare il vino alle nozze dei poveri?».
Dostoevskij intuisce che il segno inaugurale dell'agire pubblico di Cristo racchiude tutto e aggiunge: «Egli si è fatto uguale a noi per amore, e gioisce insieme a noi, converte l'acqua in vino per non interrompere la gioia degli ospiti, aspetta nuovi ospiti, ne invita continuamente di nuovi, e così nei secoli dei secoli».
Insomma Dio vuole la gioia dell'uomo, vuole che la festa continui, e più ancora che ballare ama vedere gli uomini ballare. La Pasqua che stiamo per celebrare, credenti o no, resta una narrazione dirompente. Il filosofo Byung-Chul Han nel suo libro “La crisi della narrazione”, spiega come la nostra cultura sia fatta spesso di una comunicazione senza comunità, comunità che si forma solo grazie a una narrazione che dà senso al tempo e allo spazio: «La religione è un caso esemplare di narrazione con un momento di verità interno. Narrando essa spazza via la contingenza. La religione cristiana è una meta-narrazione che cattura ogni aspetto della vita e le dà un ancoraggio all'essere. Il tempo stesso viene caricato di aspetti narrativi. Il calendario cristiano fa apparire ogni giorno come significativo. Nell'epoca post-narrativa il calendario è de-narrativizzato, diventa un'agenda svuotata di senso. Le festività religiose sono momenti culminanti e rilevanti all'interno di un racconto. Senza racconto non si dà alcuna festività, nessun tempo di festa, nessun sentimento di celebrazione, cioè nessuna intensificazione emotiva dell'essere».
Il discorso del filosofo non è apologetico né nostalgico, ma critico della narrazione oggi dominante, quella consumistica, che ha sostituito ogni altra narrazione e ritualità, il vangelo che ai “santi” ha sostituito i “saldi”: «Di contro si danno solo il tempo del lavoro e il tempo libero, il tempo della produzione e quello del consumo. In un'epoca post-narrativa le feste diventano merci, assumendo la forma di eventi e spettacoli. Anche i rituali sono pratiche narrative. Nel loro essere tecniche simboliche per abitare il mondo, i riti trasformano l'essere-nel-mondo in un essere-a-casa». Il mondo non è casa ma oggetto consumabile, e la vita una lotta contro la noia e la paura.
La Pasqua invece è una risorsa narrativa significativa anche per chi non crede, fosse anche solo per la pausa festiva (meno sentita perché, uova e colombe a parte, con quella croce in mezzo non è così facile da trasformare in una narrazione consumistica come il Natale). Perché? Quale trama offre alla storia umana? Questa: un uomo laico (cioè del popolo, dal greco laos, popolo), nel senso che non apparteneva a una categoria religiosa (era un falegname), viene messo a morte dal potere politico e religioso. Era pericoloso proprio perché era un laico che attraeva la gente sottraendo consenso al potere, quello religioso (che era anche politico: i sacerdoti erano i capi del popolo) e quello politico dei Romani, Pilato infatti fa uccidere Gesù per paura di una sommossa aizzata dai capi religiosi.
Il prefetto romano della Giudea non vuole perdere la guida di una regione ricca ma difficile, infatti pur avendo verificato l'innocenza del condannato, se ne lava le mani e lo manda a morte: la vita di un uomo si può ben sacrificare al consenso. Cristo era venuto a mostrare il contrario: solo l'amore non sacrifica, ma si sacrifica, mentre il potere non si sacrifica, ma sacrifica. Dice ancora Byung-Chu Han nel libro citato: «Vivere è narrare. L'essere umano si distingue dagli altri animali per il fatto che narrando realizza nuove forme di vita. La prassi narrativa ha la forza di un nuovo inizio. Ogni azione che avvia una trasformazione nel mondo presuppone una narrazione». La Pasqua è il culmine della narrazione iniziata a Cana che contiene, come intuisce Dostoevskij facendone la chiave di volta del suo capolavoro, l'energia per una trasformazione del mondo: siamo fatti per una festa che non finisce ma non abbiamo abbastanza vino, il vino (la gioia) che l'uomo produce non è sufficiente a soddisfare la gioia per cui siamo fatti e a cui aspiriamo. Serve il «di-vino». Uno uomo, un laico, il cui primo gesto eclatante per manifestare questa possibilità è fare 250 bottiglie d'annata perché una festa di matrimonio non finisca, viene messo a morte dal potere politico-religioso che vede in questa gioiosa libertà una minaccia. Il mio augurio è che questa storia ci ricordi, credenti o no, che siamo invitati a una festa infinita a partire da questo lunedì, ma perché questa gioia sia possibile sono necessari una grazia divina e un coraggioso resistere e abbattere tutte le forme di potere che, pur di mantenersi, sono pronte a (s-)opprimere gli innocenti. Allora come oggi, non sanno quello che fanno. Buona Pasqua.
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