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Quando i media distruggono

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Oggi esiste purtroppo nella società «una specie di “denti” che triturano senza pietà, più crudelmente dei denti di leopardo» di cui parlava sant’Ignazio di Antiochia: sono «i “denti” dei media e dei cosiddetti social». Lo ha detto venerdì 23 febbraio 2024 il cardinale cappuccino Raniero Cantalamessa nell’Aula Paolo VI durante la prima predica di Quaresima in preparazione alla Pasqua.

Attualizzando le parole del vescovo martire Ignazio — «Sono frumento di Dio e [devo essere] macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo» — il predicatore della Casa pontificia ha spiegato che i mezzi di informazione «meritano tutto il rispetto e la stima» quando «rilevano le storture della società o della Chiesa»; mentre non svolgono la loro missione se «si accaniscono contro qualcuno per partito preso, semplicemente perché non appartiene al proprio schieramento». Tutto ciò «con cattiveria, con intento distruttivo, non costruttivo. Povero chi finisce oggi in questo tritacarne, sia egli un laico o un ecclesiastico», ha commentato.

In questo caso, ha aggiunto Cantalamessa, «è lecito e doveroso far valere le proprie ragioni nelle sedi appropriate, e se ciò non è possibile, oppure si vede che non serve a nulla», non resta a un credente che «unirsi a Cristo flagellato, coronato di spine e a cui hanno sputato addosso». Nella lettera agli Ebrei, ha osservato il porporato, si legge questa esortazione ai primi cristiani che può aiutare in simili occasioni.

È una cosa «difficile e dolorosa al massimo, soprattutto se ne va di mezzo la propria famiglia naturale o religiosa», ma la grazia di Dio «può fare — e spesso ha fatto — di tutto ciò occasione di purificazione e di santificazione». Si tratta di «avere fiducia che, alla fine, come avvenne per Gesù, la verità trionferà sulla menzogna». E trionferà meglio, «forse, con il silenzio che con le più agguerrite autodifese».

Un’altra occasione «da non sciupare, se vogliamo essere anche noi “macinati” per diventare farina di Dio» è quella di «accettare di essere contraddetti, rinunciare a giustificarsi e volere aver sempre ragione, quando ciò non è richiesto dall’importanza della cosa». O ancora, «sopportare qualcuno, il cui carattere, modo di parlare o di fare ci dà sui nervi, e farlo senza irritarci interiormente, pensando, piuttosto, che anche noi siamo forse per qualcuno una tale persona». Si tratta, ha rilevato il frate minore cappuccino, di due “banchi di prova” significativi soprattutto per quanti lavorano nella Curia romana, «che — ha puntualizzato Cantalamessa — non è una comunità religiosa o matrimoniale, ma di servizio e di lavoro ecclesiale».

In sostanza, lo scopo finale del lasciarsi “macinare” non è «di natura ascetica, ma mistica; non serve tanto a mortificare sé stessi, quanto a creare la comunione». Si tratta di una verità che ha accompagnato la catechesi eucaristica fin dai primi tempi della Chiesa. Resta esemplare, in proposito, un discorso di sant’Agostino che, sviluppando questo tema, mette in parallelo il processo che «porta alla formazione del pane che è il corpo eucaristico di Cristo e il processo che porta alla formazione del suo corpo mistico che è la Chiesa». Tra i due corpi, quello «eucaristico e quello mistico della Chiesa, non c’è solo somiglianza, ma anche dipendenza». Ed è grazie «al mistero pasquale di Cristo operante nell’Eucaristia, che noi possiamo trovare la forza di lasciarci “macinare”, giorno per giorno, nelle piccole, e a volte nelle grandi, circostanze della vita».

Il cardinale ha sviluppato il tema delle prediche «Ma voi, chi dite che io sia? (Matteo 16, 15)» partendo dal dialogo tra Cristo e gli apostoli a Cesarea di Filippo. L’interrogativo di Gesù, ha spiegato, non è da prendere «nel senso con cui quella domanda si intende di solito»; come, cioè, se al Signore «interessasse sapere cosa pensa di lui la Chiesa, o cosa i nostri studi di teologia ci dicono di lui». Esso va considerato come va «presa ogni parola uscita dalla bocca di Gesù, e cioè come rivolta, hic et nunc, a chi l’ascolta, singolarmente, personalmente».

Per realizzare questo esame, ha detto Cantalamessa, viene in aiuto un altro evangelista, Giovanni. Nel suo Vangelo, infatti, «troviamo tutta una serie di dichiarazioni di Gesù, i famosi Ego eimi, “Io Sono”, con i quali egli rivela cosa pensa, lui, di sé stesso, chi dice, lui, di essere: “Io sono il pane della vita”, “Io sono la luce del mondo”, e così via». Il predicatore durante le prediche passerà in rassegna cinque di queste auto-rivelazioni per domandarsi ogni volta se «Egli è davvero per noi quello che Lui dice di essere e come fare perché lo sia sempre di più».

Sarà un momento, ha aggiunto, «da vivere in modo particolare». Non, cioè, «con lo sguardo rivolto all’esterno, ai problemi del mondo e della stessa Chiesa, come si è costretti a fare in altri contesti, ma con uno sguardo introspettivo», come un «evangelizzarci per evangelizzare, un riempirci di Gesù» per parlarne «per ridondanza d’amore».

Partendo dalla prima di queste affermazioni del Signore, «Io sono il pane della vita», il predicatore si è domandato: «come e dove si mangia questo pane della vita?». La risposta dei padri della Chiesa, ha sottolineato il porporato, è stata: in due “luoghi” o due modi, «nel sacramento e nella Parola, cioè nell’Eucarestia e nella Scrittura». Ci sono state, ha riconosciuto, «accentuazioni diverse»: qualcuno ha insistito «di più sulla Parola di Dio», mentre altri hanno accentuato «l’interpretazione eucaristica». Nessuno di essi, però, «ha inteso parlare di un modo, con esclusione dell’altro». Si parla della Parola e dell’Eucaristia, come delle «due mense» imbandite da Cristo. E questo è evidente soprattutto nella liturgia, dove «la loro sintesi è stata sempre vissuta pacificamente».

Proprio partendo da questo, Cantalamessa ha esortato «a fare un passo avanti», che consiste «nel non limitare il mangiare la carne e bere il sangue di Cristo alla sola Parola e al solo sacramento dell’Eucaristia, ma nel vederlo attuato in ogni momento e aspetto della nostra vita di grazia». Gesù, del resto, «è pane di vita eterna non solo per quello che dà, ma anche — e prima di tutto — per quello che è. La Parola e il Sacramento sono i mezzi; vivere di Lui e in Lui è il fine». Tutto il discorso di Gesù, dunque, «tende a chiarire che vita è quella che egli dà: non vita della carne, ma vita dello Spirito», ossia «la vita eterna».

Fonte: L'Osservatore Romano

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