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Lilia Sebastiani "Uomo di pace, non uomo in pace"

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Qualche giorno fa mi è stato possibile compiere una visita, che avevo in mente da quasi sette anni, alla tomba e ai luoghi di don Primo Mazzolari a Bozzolo (Mn).

L’idea mi era venuta in seguito alla visita-pellegrinaggio che vi fece papa Francesco il 20 giugno 2017, come pre-premessa all’apertura della causa di beatificazione. Ne parlai in un articolo scritto per Rocca a fine giugno di quell’anno: Alle tombe dei profeti. Plurale dovuto al fatto che, nello stesso giorno, papa Francesco visitò non solo la tomba di don Mazzolari a Bozzolo, ma anche quella di don Lorenzo Milani nel cimitero di Barbiana; mostrando così la considerazione per due preti diversi tra loro, anche di età, ma accomunati dal fatto di aver dovuto molto soffrire a causa della chiesa nell’immediato pre-concilio (e, nel caso di don Milani, anche nel postconcilio). 

Ora si parla concretamente dell’avviata causa di beatificazione di don Mazzolari, e questo fa sperare che anche per il suo più giovane collega qualcosa possa infine muoversi, quantunque con i consueti ritardi della prassi ecclesiale. 

un uomo moderno e antico 

Primo Mazzolari (1890-1959), nato da una famiglia di agricoltori, a 11 anni entra in seminario, dove riceve una formazione che, dati i tempi (è il momento più aspro della battaglia antimodernista), appare volta a privilegiare l’obbedienza rispetto a ogni altro valore, soprattutto negli ambienti cattolici ufficiali, e specialmente nei seminari. 

Invece nel giovane Primo, fin dall’adolescenza, si delineano gli atteggiamenti che costituiranno il suo carattere distintivo, come la fiducia nella modernità, avversata in quegli anni dall’intransigentismo cattolico; il patriottismo (di ispirazione risorgimentale e democratica, quindi ben lontano da quello sventolato dai vari nazionalismi); l’affermazione ‘alta’ della libertà di coscienza, che lo spinse a scrivere, quando aveva solo diciassette anni: «Io amo la Chiesa e il Pontefice, ma la mia devozione e il mio amore non distruggono la mia coscienza di cristiano». Le difficoltà incontrate in questi anni non gli impediscono di giungere all’ordinazione presbiterale, il 24 agosto 1912. 

Dopo un breve incarico come vicario, viene richiamato a Cremona per insegnare Lettere nel seminario dove è stato educato; poi si arruola nell’esercito – ma nella Sanità, non nei reparti combattenti – ancora prima che l’Italia entri in guerra, come molti altri giovani europei che ritenevano di aiutare la causa della democrazia combattendo contro gli Imperi centrali. Alla fine sarà cappellano militare, dal 1918 fino al congedo definitivo dall’esercito nel 1920. Quindi ci sarebbe difficile vederlo come un pacifista, all’inizio; ma l’esperienza vissuta lo fa ben presto pervenire alla contestazione senza mezzi termini della dottrina tradizionale della «guerra giusta», che molti allora (forse qualcuno anche oggi) ritenevano quella cristiana ufficiale; benché di derivazione classica, completamente assente nella Scrittura. 

Congedato nel 1920 dall’esercito, viene nominato parroco a Bozzolo (provincia di Mantova, diocesi di Cremona); poi, dal 1922, parroco a Cicognara; poi ancora a Bozzolo, dal 1932 fino alla morte. In questa fase giunge a precisarsi meglio il suo stile di pastore, di animatore sociale, anche di scrittore: sono anni di grande fervore letterario, anche se quasi tutto ciò che scrive viene duramente osteggiato dal Sant’Uffizio, oltre che dall’autorità fascista. Tra i suoi scritti occorre ricordare almeno La più bella avventura (rivisitazione della parabola del Figlio Prodigo), Il samaritano, Tra l’argine e il bosco; più tardi, Tempo di credere (1941) e Impegno con Cristo (1943), in seguito al quale Il Sant’Uffizio giunge a sospenderlo a divinis per un certo tempo. 

Dopo l’8 settembre 1943, durante l’occupazione tedesca del Nord Italia, entra in contatto con la Resistenza. Si occupa di propaganda e di sostentamento alle famiglie di partigiani, aiutando molti ricercati a nascondersi e poi a rifugiarsi in Svizzera. Arrestato nel 1944 dal Comando tedesco a Mantova, viene rilasciato in seguito all’intervento della Curia. Più tardi però, condannato a morte dalla repubblica di Salò, deve entrare in clandestinità per alcuni mesi, fino alla liberazione dell’Italia nel 1945. 

Dopo la guerra gli viene riconosciuta dall’Anpi di Cremona la qualifica di partigiano. 

Negli anni seguenti sostiene con forza l’apertura e il dialogo nei confronti di altre componenti della società, non dichiaratamente cattoliche, ma laiche e moderate. Nei suoi libri si delinea l’utopia di una Chiesa umile e aperta ai ‘lontani’. 

Nel 1934 aveva pubblicato La più bella avventura, una meditazione sulla parabola del figlio prodigo. Non tocca in nessun modo il dogma o la disciplina della Chiesa. Tuttavia l’anno seguente il Sant’Uffizio dichiara «erroneo» il libro (senza comunicare in che cosa risiedano gli errori), stabilisce che l’autore sia ammonito e tutte le copie del volume siano ritirate. La stessa sorte toccherà a parecchi altri scritti suoi, dichiarati erronei senza spiegare perché. E don Primo risponderà regolarmente con la sottomissione e l’obbedienza. È giusto sottolineare questo, per un prete che veniva e talvolta viene ancora considerato non abbastanza obbediente. 

L’obbedienza di don Primo non ha nulla di remissivo o di servile. Anche di fronte alle ingiustizie di cui è vittima, non si ribella né interrompe il suo impegno; la sua obbedienza è un’alta testimonianza resa alla verità. Nella chiesa, ama ripetere, «…si ubbidisce in piedi, con pura parola e libero silenzio». 

verso la stagione di Adesso. «Tu non uccidere» 

Nel 1955, quindi dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, don Primo Mazzolari pubblicò anonimo un libretto, Tu non uccidere, che aveva scritto nel 1952-53, per gran parte mettendo insieme scritti suoi già apparsi sul giornale. Un lavoro importante perché, quando ancora non era diffusa (né nella società civile né nella Chiesa) l’obiezione di coscienza alla guerra, don Mazzolari ne fu uno dei principali apripista in Italia. 

Ma quel testo così celebre non era il primo scritto da lui sul tema. Parecchi anni prima, ne aveva scritto un altro, meno noto: La Chiesa, il fascismo, la guerra, inizialmente pubblicato nel 1941 con il titolo Risposta ad un aviatore. Le sue idee sono ferme e chiare, in un modo insolito per gli uomini di chiesa prima del Concilio. 

«La coscienza non può abdicare interamente nelle mani di nessuna creatura, fosse il più grande degli uomini o il più santo. Il cristiano, pur obbedendo alle gerarchie ecclesiastiche che tengono quaggiù il luogo del Signore, non fa rinuncia alla propria anima. 

Non ci si salva per delega. Ognuno risponde della propria anima, come risponde del proprio prossimo». Conclude che anche l’ultimo cittadino ha il dovere di obbedire con gli occhi aperti e coscienza vigile; sottolinea che, nella luce di disumana realtà della guerra, «va riesaminata dai cattolici, con maggior benevolenza che per il passato, l’obiezione di coscienza, considerata come un tentativo di difesa primordiale della ripugnanza cristiana al mestiere dell’uccidere. In così drammatica situazione, la Chiesa può limitarsi a elogiare il dovere e la fedeltà a esso? Non sarebbe una maniera, sia pure indiretta e bene intenzionata, di togliere il respiro alle coscienze e aiutare l’oppressione?». 

In questo libretto la posizione assunta da Mazzolari anticipa la dottrina sociale della Chiesa (che solo dopo il Concilio comincerà veramente a delinearsi, pur se con inevitabili indecisioni e attenuazioni), ma si resta colpiti dalla ferma lucidità del suo modo di argomentare. «Se si condanna la guerra senza eccezioni, si può logicamente rinunciare al riarmo, ma se ne si ammette, sia pure in pochi casi, la doverosità morale di fronte a una guerra dichiarata e creduta giusta, non ha senso predicare e praticare il disarmo. 

Non si fanno le guerre per perderle. Se vuoi la pace, prepara la pace; se vuoi la guerra, prepara la guerra. E, dunque, tutto è fatalmente logico». 

L’argomentazione di don Mazzolari non è solo in negativo (condanna della guerra), ma in positivo: edificazione cristiana della pace. 

«… Tu non uccidere» non sopporta restrizioni o accomodamenti giuridici di nessun genere. Cadono quindi le distinzioni tra guerre giuste e ingiuste, difensive e preventive, reazionarie e rivoluzionarie. 

Ogni guerra è fratricidio, oltraggio a Dio e all’uomo. O si condannano tutte le guerre, anche quelle difensive e rivoluzionarie, o si accettano tutte. Basta un’eccezione, per lasciar passare tutti i crimini». (corsivi nostri) «Per noi queste verità sono fondamento e presidio della pace; la quale non viene custodita né dalle baionette né dall’atomica, ma dal fatto che tutti gli uomini, compaginati in Cristo, formano con lui una sola cosa e hanno diritto di ricevere ‘una vita sempre più abbondante’ da coloro che, per natura e per grazia, sono i suoi fratelli. Per questo noi testimonieremo, finché avremo voce, per la pace cristiana. E quando non avremo più voce, testimonierà il nostro silenzio o la nostra morte, poiché noi cristiani crediamo in una rivoluzione che preferisce il morire al far morire». 

Il cristiano per Mazzolari è «uomo di pace, non uomo in pace»: definizione che, del resto, vale anche per lui stesso, Afferma che non c’è bisogno solo di pacifisti (non è ancora diffusa la conoscenza del significato pregnante della parola evangelica eirenopoiòs=facitore di pace: egli sembra considerare il pacifista solo come colui che parla in termini positivi della pace, o che la ‘preferisce’ alla guerra). 

Non c’è bisogno solo di pacifisti ma, come dirà molti anni dopo papa Francesco in Fratelli tutti, di «operatori di pace, artigiani dell’arte del dialogo e quindi della conoscenza, della costruzione di ponti e dell’incontro». 

L’umanità ha bisogno di cambiare passo: ogni atto di guerra nel mondo continua a far trionfare la logica di Caino. La corsa agli armamenti è una follia, ma anche un peccato. 

Don Primo comprende che ormai i tempi richiedono un movimento di opinione più ampio e organizzato, quindi anche un proprio organo di stampa, e si dedica con tutte le sue forze al progetto di un giornale militante. Nel 1949 fonda e comincia a dirigere il quindicinale Adesso, con l’intenzione di dare voce a quelle che chiama le «avanguardie cristiane». Il giornale affronta tutti i temi cari al fondatore: il rinnovamento della Chiesa, le ingiustizie sociali, la promozione della pace – in piena epoca di guerra fredda! –, il rapporto con il comunismo, il dialogo con i lontani. 

La pubblicazione di Adesso viene sospesa nel febbraio 1951, per ordine del Vaticano; alcuni mesi dopo riprende, ma con la condizione che don Primo non ne sia più direttore. Fino alla chiusura definitiva (1959), lo sostituisce nella direzione un laico, Giulio Vaggi, suo amico e discepolo. 

Nel luglio 1951 a colpire don Mazzolari giungono altre misure da Roma, di gravità crescente: come la proibizione di predicare fuori diocesi senza il consenso dei vescovi interessati e di pubblicare articoli senza preventiva revisione ecclesiastica; ancora nel 1954, il divieto tout-court di predicare fuori della parrocchia di Bozzolo e di scrivere articoli su ‘materie sociali’. Tuttavia collabora ancora intensamente al giornale – fino alla chiusura definitiva imposta –, spesso servendosi di pseudonimi. 

Oltre alla scrittura e a un’ininterrotta azione pastorale, don Primo spende le energie degli ultimi anni per affrontare temi nuovi e conoscere realtà sociali anche lontane dai suoi soliti ambienti. Intanto nella chiesa italiana il suo nome continua a dividere gli spiriti. Alle prese di posizione ufficiali, che vorrebbero rinchiuderlo nella parrocchia di Bozzolo come in un luogo di esilio, si contrappongono tanti amici, ammiratori, discepoli, che si riconoscono nelle sue battaglie e diffondono le sue idee in tutta Italia. 

Egli rimane coerente al suo proposito di ‘ubbidire in piedi’, sottomettendosi sempre ai superiori, ma tutelando la dignità e la coerenza del proprio sentire. Echi della sua riflessione sull’obiezione di coscienza si ritrovano, anni dopo la sua morte, anche in un libro famoso, L’obbedienza non è più una virtù (1965), scritto da don Lorenzo Milani, molto più giovane di lui e collaboratore di Adesso. Mazzolari e Milani si stimavano e vi fu tra loro uno scambio di lettere, anche se non ebbero mai l’occasione di incontrarsi. 

gli ultimi anni 

Solo nella seconda metà degli anni Cinquanta, e particolarmente dopo l’elezione papale di Giovanni XXIII, le idee di don Primo trovano maggiore libertà di circolazione, in un clima già più moderno in cui germoglia la preparazione prossima del Concilio Vaticano II. 

Allora per l’autore cominciano anche alcune attestazioni di stima da parte delle alte sfere della Chiesa. Nel novembre 1957 viene chiamato dall’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, ad animare nella sua archidiocesi una «missione al popolo». Molte idee – sul mondo moderno, sui poveri, sulla cultura, sulla pace, sulla missione della Chiesa… – accomunano il ‘periferico’ Mazzolari al colto, evoluto, aristocratico Montini; ad accomunarli, vi sono anche l’antipatia e il sospetto fortissimi che nutre per entrambi la Curia romana, negli anni precedenti il Concilio. 

Qualche anno più tardi, Montini (nel frattempo divenuto papa Paolo VI), parlando di Mazzolari (nel frattempo defunto), dirà: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui, e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti»










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